La riforma della nullità matrimoniale in Italia e la visione antigiuridica di Francesco

Il 26 novembre 2021 un ennesimo motu proprio è stato varato da papa Francesco, per sollecitare l’applicazione in Italia delle norme stabilite in Mitis iudex Dominus Iesus, il motu proprio del 2015 che stravolgeva i procedimenti per giudicare della nullità matrimoniale.

Ricordiamo che con quel documento papa Francesco prevede la possibilità di dichiarare la nullità delle nozze in un solo grado di giudizio, sulla base delle sole dichiarazioni degli sposi, eventualmente con una formula breviore che permette al vescovo di pronunciare una sentenza in un mese scarso.

Già il codice di diritto canonico del 1983 aveva facilitato le dichiarazioni di nullità matrimoniali, con la norma che rende possibile sciogliere le nozze “per difetto di giudizio” dei coniugi, equiparando di fatto ogni imprudenza nel consenso alla nullità del sacramento. Restava tuttavia da svolgere un processo giuridico vero e proprio, in almeno due gradi, che dimostrasse l’esistenza di un qualche capo di nullità; tale processo diventava potenzialmente del tutto simbolico con la riforma del 2015.

La situazione italiana

In Italia, dal motu proprio di Pio XI Qua cura (1938), erano stati istituiti tribunali ecclesiastici regionali, dato che le diocesi più piccole, specialmente nel Sud, non erano in grado di mantenere un tribunale proprio, per mancanza tanto di fondi quanto di competenze. Papa Francesco ha ritenuto abolito con il suo motu proprio tale provvedimento, come aveva già specificato alla Conferenza episcopale italiana in un discorso del 20 maggio 2019.

Nonostante questo, l’applicazione del decreto del 2015 è andata a rilento nelle diocesi italiane, e i tribunali regionali sono ancora in larga parte attivi. Inoltre, l’apparato di vicari giudiziali e avvocati tende a evitare il processo breviore e ad applicare la procedura con qualche parvenza di rigore (pur utilizzando largamente il canone sul “difetto di giudizio”), anche perché in Italia tali giudizi hanno poi valore al foro civile, cui vengono comunicati.

La sinodalità dei commissari pontifici

Papa Francesco commissaria di fatto tutta l’attività dei tribunali ecclesiastici italiani, istituendo una commissione i cui membri sono il decano e due uditori della Rota, e il vescovo di Oria, in Puglia. Essi avranno pieni poteri per una “piena ed immediata applicazione” del motu proprio del 2015, particolarmente con lo smantellamento dei tribunali regionali e l’istituzione di tribunali diocesani che applichino le procedure snellite e rapide previste dal papa.

Paradossalmente, la decentralizzazione tanto auspicata avviene tramite un intervento massiccio di commissari della Curia romana, senza dare alcuna importanza alle circostanze locali e alla stessa Conferenza episcopale. Se pure concediamo che sarebbe ottimo che ogni diocesi avesse il suo proprio tribunale, non dobbiamo dimenticare che i tribunali regionali furono voluti proprio per assicurare ovunque processi giuridicamente seri e amministrati con rigore e competenza, unendo le forze, anche economiche. Il papa, che insiste giustamente sulla gratuità dei processi, almeno per i bisognosi (cosa sempre esistita, del resto), in realtà rischia di moltiplicare le spese.

La visione antigiuridica della Chiesa di papa Francesco

La visione bergogliana del processo di nullità invece ha ben poco di giuridico, e si intuisce (anche dal discorso alla Cei del 2019) che l’optimum sarebbe una chiacchierata degli sposi con il vescovo, che poi concede loro personalmente la desiderata nullità. Per questa ragione non servono più tribunali competenti, che lavorino giuridicamente, pur con norme ormai deficienti. Nella mentalità di papa Francesco, tante volte espressa, l’aspetto giuridico della Chiesa non è elemento costitutivo di una società perfetta, ma sovrastruttura umana e gabbia che imprigiona lo spirito cristiano, di cui si dovrebbe fare possibilmente a meno.

Nelle sue omelie papa Francesco ricorda spesso che l’organizzazione e la struttura esterna della Chiesa non sono segno della presenza di Dio (vedi, per esempio, l’omelia a Santa Marta del 30 settembre 2013); così le formalità matrimoniali non possono essere semplicemente segno della grazia sacramentale. Nel discorso tenuto il 16 giugno 2016 in Laterano per l’apertura del convegno ecclesiale della diocesi di Roma, da un lato Francesco affermava che «la maggior parte [testo poi trasformato nella versione scritta in “una parte”, n.d.r.] dei nostri matrimoni sacramentali sono nulli» perché gli sposi «non hanno la consapevolezza»; dall’altro nello stesso discorso riteneva «matrimoni veri» nutriti di «grazia del matrimonio» le semplici convivenze in uso nelle campagne argentine, dove si mette su “famiglia” da giovani e ci si sposa in tarda età. Ci sono quindi matrimoni formalmente celebrati che sono insignificanti, e unioni di fatto che produrrebbero addirittura la grazia del sacramento. Si direbbe quindi che le formalità giuridiche, o addirittura sacramentali (che nel matrimonio coincidono) siano un difetto, uno svantaggio.

I gravissimi errori di Lumen gentium sempre presenti

Il documento contiene, ed è forse la cosa più grave, un’affermazione che viene direttamente da Lumen gentium e dai gravissimi errori dottrinali in essa contenuti, errori teorizzati e sempre portati avanti dal vescovo Ratzinger ed entrati nel codice di diritto canonico del 1983.

Si legge infatti al punto 1: «Con la consacrazione episcopale il Vescovo diventa tra l’altro, iudex natus (cf. can. 375, § 2). Egli riceve la potestas iudicandi per guidare il Popolo di Dio persino quando occorre risolvere le controversie […]». Secondo la dottrina cattolica, ribadita nel modo più esplicito possibile in decine di atti pontifici fino a Pio XII compreso, il potere di giurisdizione del vescovo non deriva affatto dalla sua consacrazione episcopale (che conferisce solo dei poteri di santificazione, cioè di ordinare e cresimare), ma deriva dal pontefice che lo nomina vescovo ordinario di una diocesi. I vescovi consacrati ma che non hanno una diocesi non hanno infatti alcun potere di governo, sempre secondo la dottrina tradizionale.

Sulla base di una tale teoria, contraria alle definizioni della Chiesa, ci si potrebbe chiedere che cosa succederebbe se un fedele sottoponesse a giudizio il proprio matrimonio presso un vescovo “emerito” o titolare (o scismatico, o eretico): un eventuale giudizio di nullità sarebbe solo illecito o anche invalido? In fondo, un vescovo consacrato rimane tale anche senza diocesi, e ha (secondo loro) il potere di giudicare.

Già la Nota praevia di Lumen gentium prevedeva il problema, ed esplicitamente evitava di prendere partito, con queste parole: «Senza la comunione gerarchica l’ufficio sacramentale ontologico, che si deve distinguere dall’aspetto canonico giuridico, “non può” essere esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in questioni di “liceità” e “validità”, le quali sono lasciate alla discussione dei teologi, specialmente per ciò che riguarda la potestà che di fatto è esercitata presso gli Orientali separati e che viene spiegata in modi diversi».

Questo provvedimento di papa Francesco per l’Italia, al di là del suo aspetto canonistico, è sempre indice di una visione della Chiesa distorta, che trova radice nei documenti conciliari, e che sottolinea come tutta la struttura esterna e giuridica della Chiesa romana sia puramente umana, impediente la manifestazione del “segno” divino, in un senso che risulta tinto di gnosticismo, per cui il potere e il diritto sono una gabbia per lo spirito. Peccato che, come sempre accade, la liberazione dalle procedure sfoci inevitabilmente nell’arbitrio e nella tirannia.

Fonte: fsspx.news.it

Nella foto (Banque d’Images) papa Francesco all’assemblea dei vescovi italiani

 

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