L’urlo di Moro. Quegli anagrammi rivelatori nelle lettere dal carcere

In occasione dei quarantaquattro anni dal rapimento e l’assassinio di Aldo Moro è uscito il libro di Carlo Gaudio L’urlo di Moro, dedicato a un’analisi delle ottantasei lettere che l’uomo politico scrisse nei cinquantaquattro giorni della sua prigionia. Un’analisi dettagliata, parola per parola, dalla quale emerge che Moro, cultore di enigmistica, rebus e anagrammi, lanciò messaggi in codice che però nessuno fu in grado di cogliere o volle cogliere. Secondo Gaudio, Moro conosceva l’indirizzo della sua prigione – l’appartamento di via Montalcini al numero 8, interno 1 – e cercò di divulgarlo. Ne è prova l’inciso più celebre di tutto il suo epistolario, contenuto in una lettera a Cossiga recapitata il 29 marzo 1978: “Che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato”. Suona così, difatti, l’anagramma della frase: “E io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”. Dal sito letture.org ecco l’intervista a Carlo Gaudio.

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Professor Carlo Gaudio, lei è autore del libro L’urlo di Moro. Autenticità e intelligenza politica nelle lettere dalla prigione edito da Rubbettino. Le lettere dalla prigionia di Aldo Moro rappresentano un documento unico di inestimabile valore storico: quale profilo ne emerge, prima ancora che dello statista, dell’uomo?

Il primo intento del mio libro è di restituire Moro a Moro, negando la narrazione dei giorni immediatamente dopo l’eccidio di Via Fani, che voleva imporre l’immagine di un Moro cambiato da quella vicenda, spaventato, non più lucido, drogato, manovrato dai brigatisti. Niente di più lontano dalla realtà di quei cinquantaquattro giorni di segregazione. Aldo Moro rimane sempre un uomo lucido, razionale, coraggioso, il politico fine di sempre, il giurista sapiente, il mediatore per antonomasia. Subito dopo i primi giorni dal tragico agguato, Moro decide di reagire, di combattere. Con pochissime armi: una penna biro, dei fogli di carta. E lo fa scrivendo le sue lettere: un lungo epistolario, la cui verità – come in tante vicende oscure della storia della nostra Repubblica e contrariamente ai proclami delle Br (“tutto sarà reso noto al popolo…”) – conosceremo solo a tappe: quelle recapitate dai brigatisti, quelle ritrovate poi in via Monte Nevoso nell’ottobre del 1978 ed infine quelle ritrovate nel medesimo covo brigatista milanese dodici anni più tardi. Dall’epistolario così ricostruito, probabilmente neppure completo, affiorano un centinaio di lettere, una dozzina delle quali note testamentarie. Ed emerge anche l’uomo Moro, il pater familias, che si preoccupa delle cose dei suoi cari, della salute della moglie, delle professioni e degli studi dei figli, dei loro rapporti familiari, del loro avvenire, e, con particolare angoscia, del futuro del suo nipotino di due anni e mezzo, Luca, che ama più di chiunque altro e che avrebbe desiderato seguire ed assistere nella sua fanciullezza ed oltre.

Durante i lunghi giorni del rapimento di Moro, e di fronte alle lucide accuse contenute nelle sue lettere, da più parti venne avanzata la tesi di un’alterazione del suo stato mentale: quali elementi confermerebbero invece la sua piena, e stupefacente, lucidità mentale?

La stampa e l’opinione pubblica si conformano immediatamente alla tesi dei comitati insediati da Cossiga presso il ministero degli Interni, di un Moro che non è più Moro. Il titolo della Repubblica del 30 marzo, dopo la prima lettera a Cossiga, lo testimonia: Quelle parole non sono le sue. Fausto De Luca intitola il suo pezzo Parole scritte sotto tortura. Il 4 aprile, Andreotti alla Camera definisce le lettere di Moro «non moralmente autentiche», e la nota che accompagna la lettera a Zaccagnini sul Popolo, il quotidiano della Dc, dichiara che la missiva non è «moralmente a lui ascrivibile», date «le condizioni di assoluta coercizione nella quale simili documenti vengono scritti». Politici, giornalisti, scrittori si affrettano a svalutare e a non dare alcuna credibilità alle lettere che escono dalla prigione. Il governo diffonde pareri medici secondo i quali Moro non è più Moro, non è lucido, è drogato, scrive sotto dettatura, è affetto dalla sindrome di Stoccolma. Eugenio Scalfari si spinge a definirlo “un fantoccio” nelle mani dei brigatisti. Leonardo Sciascia, in polemica con l’intellighenzia dell’epoca, commenta: «…Moro ormai parla come le Brigate rosse e per le Brigate rosse: questa è la tesi che, come una enorme pietra tombale, scende sull’uomo vivo, combattivo e acuto che Moro è ancora nella “prigione del popolo”, mentre si ricorda e celebra il Moro già morto, il Moro da monumentare». Ma, compiendo un’analisi lessicale completa, parola per parola, delle 86 lettere di Moro scritte nei 54 giorni di prigionia e immergendosi con passione negli stilemi della scrittura di Moro, si riesce – per la prima volta, con un’operazione quasi maieutica – a far emergere da alcune frasi criptiche i messaggi segreti dello Statista, evocati da Sciascia e mai finora svelati. Le frasi analizzate sono proprio quelle più note, più studiate, contenute nelle lettere consegnate dai suoi carcerieri, a riprova della intatta lucidità di Moro, della sua grande abilità a celare i messaggi segreti, sfuggendo completamente all’occhiuta censura brigatista. A partire dalla prima lettera a Cossiga, quella recapitata il 29 marzo 1978. Nella quale si trova la frase più celebre dell’intero epistolario Moro, il celebre inciso “che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato”. Nel quale si riesce ad individuare uno dei raffinati anagrammi di Moro. Da quell’inciso, infatti, emerge il messaggio a Cossiga: “e io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”. Con il quale Moro indica al ministro degli Interni – in una lettera che lo Statista vorrebbe secretare ma che i brigatisti, del tutto ignari dei messaggi che vi sono celati, rendono pubblica – il luogo preciso della sua prigione. Con la speranza di Moro, forse in quei primi giorni certezza, che l’amico Francesco Cossiga l’avrebbe fatta studiare dagli organi di intelligence, che possedevano certo tutti i mezzi per interpretarla, per decrittare il messaggio. Recuperando così quel Moro “sciasciano”, recluso inerme che “mandava dalla prigione messaggi da decifrare secondo immedesimazione alle condizioni in cui si trovava”.

Quale analisi svolge Aldo Moro, nelle sue lettere, della situazione politica creatasi in seguito al suo rapimento?

Nel terzo gruppo di ben cinquantacinque lettere – dopo le nove nelle quali tenta di svelare con messaggi criptici il luogo della sua prigione ed il secondo gruppo di diciassette lettere, con le quali invia un messaggio d’addio a ciascuno dei suoi familiari ed ai suoi più stretti collaboratori – Moro sviluppa il tema della “trattativa”, contro la linea della “fermezza” propugnata dal governo sin dalle prime ore. La strategia di Moro prevede lo scambio di prigionieri politici e la salvezza degli ostaggi innocenti ed è rappresentata con estrema lucidità in tante lettere di questo gruppo. Ad esempio, in quella indirizzata al suo partito, alla Democrazia cristiana, nella quale Moro – rivendicando la propria autonomia di pensiero e la sua piena lucidità – argomenta: “Qualcuno sembra dubitare dell’autenticità di quello che vado sostenendo. Come se io scrivessi sotto dettatura delle Brigate Rosse. Ma tra le Brigate Rosse e me non c’è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute il fatto che io abbia sostenuto sin dall’inizio (e come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l’altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova non solo al detenuto, ma anche a chi rischia l’uccisione, alla parte non combattente. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se una volta tanto un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. (…) Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D.C. che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, dovunque, per salvaguardare ostaggi e salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che anche in Italia la libertà è stata concessa con procedure appropriate a Palestinesi, per parare gravi minacce di rappresaglia capaci di rilevanti danni alla comunità. E si noti si trattava di minacce serie e temibili, ma non aventi sempre il grado d’immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato”. Poi, nei primi di maggio, pochi giorni prima del suo barbaro omicidio, si rivolge, sconsolato, al segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, biasimandolo e comunicando le sue irrevocabili dimissioni dal partito: “…io non ho compreso e non ho approvato la vostra dura decisione, di non dar luogo a nessuna trattativa umanitaria, anche limitata, nella situazione che si era venuta a creare. L’ho detto cento volte e lo dirò ancora, perché non scrivo sotto dettatura delle Brigate Rosse, che, anche se la lotta è estremamente dura, non vengono meno mai, specie per un cristiano, quelle ragioni di rispetto delle vittime innocenti ed anche, in alcuni casi, di antiche sofferenze, le quali, opportunamente bilanciate e con il presidio di garanzie appropriate, possono condurre appunto a soluzioni umane. Voi invece siete stati non umani, ma ferrei, non attenti e prudenti, ma ciechi. Con l’idea di far valere una durissima legge, dalla quale vi illudete di ottenere il miracoloso riassetto del Paese, ne avete decisa fulmineamente l’applicazione, non ne avete pesato i pro e i contro, l’avete tenuta ferma contro ogni ragionevole obiezione, vi siete differenziati, voi cristiani, dalla maggior parte dei paesi del mondo, vi siete probabilmente illusi che l’impresa sia più facile, meno politica, di quanto voi immaginate, con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona, e la mia famiglia, con l’assoluta mancanza di decisioni legali degli organi di Partito avete menomato la democrazia che è la nostra legge, irreggimentando in modo osceno la D.C., per farla incapace di dissenso, avete rotto con la tradizione più alta della quale potessimo andar fieri. In una parola, l’ordine brutale partito chissà da chi, ma eseguito con stupefacente uniformità dai Gruppi della D.C., ha rotto la solidarietà tra noi. In questa (cosa grossa, ricca di implicazioni) io non posso assolutamente riconoscermi, rifiuto questo costume, questa disciplina, ne pavento le conseguenze e concludo, semplicemente, che non sono più democratico cristiano”.

Quali responsabilità politiche e morali emergono dalle sue lettere?

Nel primo gruppo di nove lettere, emerge un Moro vivo, combattivo, che urla la sua speranza, che lancia in mare il suo messaggio nella bottiglia, che nessuno raccoglierà. Un Moro lucidissimo, che in queste prime lettere riesce a sfuggire alla censura delle Br, indicando al ministro degli Interni il luogo della sua prigione, come aveva intuito Leonardo Sciascia. Ma l’urlo di Moro non viene ascoltato. Lo statista, il grande politico è un uomo solo, abbandonato da tutti, come Carlo Bo, con incomparabile sensibilità, ricorderà nel primo anniversario di quel sacrificio (Delitto di abbandono, in Corriere della sera, 9 maggio 1979). Moro è così lucido che comprende subito che nessuno vuol dare ascolto ai suoi messaggi, alle sue disperate urla di aiuto. E lo denuncia chiaramente in una delle due versioni della lettera a Zaccagnini, scritta intorno al 31 marzo 1978: “Sono un ostaggio che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso di scambio di prigionieri rende inutile ed ingombrante”. Il “non Moro” che è sotto sequestro è dunque, per i maggiori partiti politici, un uomo come tutti gli altri, che rientra nella normalità comune, al quale concedere al più una risposta di tipo umanitario o – come per un Cirillo qualsiasi – un riscatto. Senza l’assunzione di alcuna responsabilità politica che non sia quella del rifiuto di ogni trattativa. Il 7 aprile 1978, il Presidente del Senato annota nei suoi Diari (custoditi nell’Archivio Storico del Senato della Repubblica): “Negli incontri di Bart[olomei] – Piccoli – Gaspari con i singoli notabili pare che si sia trovato l’80% contrario ad un Cons[iglio] Naz[zonale] e disposto – in ordine sparso – a pensare solo a prepararsi ad un Congresso. Gli Zac[cagniniani] lo vorrebbero sollecito per cavarne applaudita conferma, i Dorotei lo vorrebbero tra un anno per trarne novità. Pisanu assicura contrasti con Andreotti che favorirebbe il seguente organigramma: lui al Quirinale, Zac[cagnini] alla presidenza DC, Galloni alla Segreteria e Forlani a Palazzo Chigi. In tutti questi calcoli – commenta Fanfani – nessuno si rende conto che la situazione difficilmente consentirà tante attese…”. È veramente triste constatare che – a pochi giorni dall’eccidio di Via Fani e nel pieno del sequestro Moro – già si stabilissero organigrammi articolati per spartirsi tutte le poltrone disponibili, perfino quella occupata da Aldo Moro, ancora vivo! (la presidenza della Dc, destinata – secondo “l’organigramma Andreotti” – a Zaccagnini).

In che modo le lettere testimoniano la sua incrollabile fede cristiana?

L’urlo di Moro, i suoi messaggi di aiuto, per tantissimi anni, non vengono uditi. Lo statista, il grande politico è un uomo solo, abbandonato da tutti, ma non dalle cinque persone, umili e valorose, che hanno sacrificato la vita per tentare di proteggerlo. Gli indimenticabili uomini della sua scorta: Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, cui andrebbero meritevolmente intitolate le strade scenario dell’eccidio e del sequestro, come ad Aldo Moro – e non così ad altri politici democristiani – sono state intitolate, in molti comuni d’Italia, piazze, strade, aule, università. Voglio accennare anche ad un particolare poco noto, ma che va assolutamente rivalutato. Le polemiche su un Moro insensibile alla tragedia degli uomini della sua scorta sono state tacitate dalla testimonianza del giudice Ferdinando Imposimato, che ha rivelato: «Non è vero: io a distanza di anni ho parlato con Gallinari… nel 2007… e lui ha detto che Moro ha avuto un comportamento coraggioso, dignitoso e che, appena entrato nella prigione di Via Montalcini 8, int. 1… ha chiesto notizie della scorta, perché non aveva avuto la percezione della tragedia, perché è stato subito rapito. E il Gallinari, che era testimone diretto… ha detto che “Moro quando ha saputo da me che la scorta era stata sterminata si è messo a piangere ed ha pianto per 12 ore”. Poi (Moro) ha chiesto a quel miserabile di Moretti, che era il capo delle BR, di poter scrivere delle lettere ai familiari. Ha scritto 5 lettere: la prima lettera l’ha scritta alla moglie di Oreste Leonardi. Bene, queste lettere erano scritte piene di amore, di solidarietà, di senso di colpa, perché lui sapeva che i suoi uomini correvano un rischio grande… E invece Moretti ha dato l’ordine di strappare quelle lettere… perché ha detto: “Non conviene dare agli Italiani l’immagine di un Moro che si preoccupa della vita dei suoi uomini…». Un Moro che rimane solo, disarmato, inerme, abbandonato, sospinto di giorno in giorno, di ora in ora, verso le tenebre di una fine disperata, tragica, ma solenne. Con la cessazione progressiva dell’urlo, con la sommessa accettazione finale della volontà di Dio. La cui «luce bellissima» che Moro, con profonda fede, delicatamente invoca, diraderà e sconfiggerà quelle tenebre, avvolgendolo – nudo alla meta – nella dimensione della Pace e dell’Eterno.

Dalle lettere traspaiono anche i commuoventi sentimenti di marito e padre del presidente DC: quali attenzioni ha per la sua famiglia, in quel tragico frangente, Aldo Moro?

Ricorderà la figlia Agnese nel 2016 – durante un convegno per la celebrazione del centenario della nascita dello statista – quella che era una caratteristica del papà: di dare eguale attenzione alle «cose grandi ed alle cose piccole». Agnese rievocherà, con commozione e con un sorriso, l’ansia di Moro nel raccomandarle sempre «di chiudere bene il gas», compito che, elettivamente, aveva affidato proprio a lei. E i semplici, delicati sentimenti di marito e di padre sono testimoniati sin dalla prima lettera scritta alla moglie Eleonora (alla quale indirizzerà ben 19 delle 86 lettere conosciute, a parte le disposizioni testamentarie e i piccoli appunti), in occasione della domenica di Pasqua 1978. Come di consueto, la lettera si conclude con i saluti ai familiari, a partire dalla Nonna, poi ai suoi figli, per alcuni dei quali ha – in questa prima lettera – due pensieri particolari. Il primo, una raccomandazione alla figlia Agnese – cui si rivolge direttamente – per pregarla di occupare il suo posto nel letto matrimoniale, per far compagnia alla madre, “controllando sempre che il gas sia spento”. Il secondo per il figlio Giovanni – cui si rivolge “dolcemente” tramite Noretta – perché “provi a fare un esame per amor mio”. I saluti familiari si concludono, immancabilmente (lo vedremo in altre lettere successive), con un pensiero sempre delicato e tenero per il nipote Luca, raccomandando alla moglie di raccogliere di lui “le voci e qualche foto”, come egli stesso usava fare quando era in casa, conservando i nastri e le fotografie nei cassetti della sua scrivania.

A distanza di oltre quarant’anni dalla tragica morte di Aldo Moro, quale lettura è possibile dare di quest’ultimo, straziante, documento?

Moro è stato il grande stratega della scena politica italiana: dal superamento del centrismo con l’apertura ai socialisti alla «solidarietà nazionale» (l’apertura ai comunisti nella compagine governativa). Scevro da protagonismi, Aldo Moro amava più la persuasione che il leaderismo. Si esprimeva con discorsi articolati, talvolta giudicati prolissi, che però inducevano a pensare e creavano consenso. Rileggendo l’intero epistolario, ritroviamo lo stesso Moro, la sua autenticità, la sua dialogante intelligenza politica. Colpisce la sua mitezza anche nella straziante vicenda di un uomo che lotta da solo, senza paura della morte (sarà ucciso dalle Br a tradimento, con una gragnuola di colpi, senza emettere un grido, un gemito). I giovani dovrebbero conoscere la storia della strage di Via Fani, del massacro degli uomini della sua scorta, dell’epistolario di Aldo Moro, della sua lunga prigionia, della sua fine tragica e solenne, perché, più dei prigionieri di guerra, Moro non si arrende, non rivela nessun segreto di Stato, difende fino alla fine lo Stato di diritto, il valore intangibile della persona umana, i principi sacri della nostra Costituzione.

Carlo Gaudio è professore ordinario e primario di Cardiologia presso l’Università la Sapienza di Roma.

Fonte: letture.org

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