Una vita per una vita. La storia di Attilio Mordini e Alighiero Tondi

di Alessandro Staderini Busà

Due vite che si incrociarono all’indomani del 1945, si saldarono una all’altra, poi presero binari divergenti, viaggiando in direzioni inconciliabili per vent’anni di Guerra Fredda, e mai più si ritrovarono su questa terra.

“Passava per le strade con la faccia assorta, sballottato da passanti… e bastava incontrarlo perché lasciati in bocca i saluti, cominciasse subito a parlare… spostava secoli e astri, chiamava dal fondo del tempo veggenti e profeti, li interrogava sull’universo e il destino come fossero scolari… piombava nella foresta apocalittica dei simboli, e parlava della Gerusalemme Celeste come se l’estate prima ci fosse stato in villeggiatura”.

Questi era Attilio Mordini, fiorentino, classe 1923. La militanza nella Repubblica sociale italiana lo aveva costretto alla latitanza, facendolo riparare a Roma. L’altro il gesuita Alighiero Tondi, segretario della Pontificia Università Gregoriana, che lo aiutò a nascondersi dall’epurazione sommaria e lo introdusse a seguire i propri corsi. Un giovanotto e un uomo maturo. Un allievo e un maestro. Sanguigni, tenaci, infaticabili entrambi. Così l’allievo subì il fascino del maestro e, in quell’anno accademico romano, fece il passo di entrare in seminario. Diventò terziario francescano e si scelse il nome di “fratello Alighiero”, firmando così una gratitudine e una deferenza verso chi fu l’amico, il mentore, il fratello maggiore. Lontano però dalla protezione che i gesuiti potevano offrire ai ricercati politici, tornato a Firenze, finì, senza processo, nel carcere delle Murate. Ne venne fuori coi postumi di una tubercolosi malamente sanata, ed alla Facoltà di Magistero prese quella laurea con lode in Letteratura tedesca che, un giorno, gli avrebbe ottenuto il lettorato di Italiano a Kiel, in Germania federale. Anche Tondi sarebbe andato a insegnare in terra tedesca. Ma in Germania orientale…

 

Alighiero Tondi, romano, classe 1908, è descritto, da chi lo conobbe prima della vocazione, come “sempre alla ricerca di verità che dovevano provare non solo l’esistenza di Dio, ma anche quella di un mondo ultraterreno. Per questo si appassionò molto allo spiritismo e all’occultismo”. Nel 1936 entrò nella Compagnia di Gesù e, vincendo la contrarietà della famiglia, prese i primi voti nel 1939, venendo ordinato nel ’44. Insegnante di Filosofia e Teologia, tre anni dopo aver conosciuto Mordini nelle aule della Gregoriana, padre Tondi iniziò pericolose contaminazioni con elementi del Partito comunista. La sua umana sete di risposte non seppe più farsi dissetare dalla fonte di Verità cui finora aveva attinto. Allora, i miraggi di giustizia sociale della dottrina marxista vinsero, in lui, sulle promesse di vita eterna di Cristo. Fra il 1948 e il 1952 riusciva ancora a mantener celata l’appartenenza ideologica. Insegnava e vestiva la talare di gesuita, mentre nell’ombra carpiva informazioni sui rapporti fra Vaticano e ambienti di destra, che poi passava a Botteghe Oscure. Togliatti contava molto su di lui, le cui informazioni mandava direttamente a Mosca. Nome in codice, Tonaca bianca. Il gesuita acquisiva poi le liste dei sacerdoti che la Santa Sede inviava clandestinamente sotto cortina di ferro, per mantener viva la Fede fra i popoli sotto il tacco sovietico. “Questi disgraziati furono arrestati e successivamente fucilati in Urss” avrebbe scritto Henri Mouraux, sacerdote anch’egli. “Invano Pio XII cercò di spiegare questo dramma, quando l’arcivescovo di Riga gli rivelò che una spia viveva in Vaticano. Lo fece sorvegliare da agenti di polizia travestiti da prelati. Il risultato non si fece attendere: Tondi fu sorpreso nel momento in cui stava fotocopiando documenti segreti”. Così, nel 1952 il gesuita traditore lasciò la Gregoriana, dismise la talare ed entrò nel Pci. Oggi lo chiameremmo coming out, ed è la giusta brutta parola che occorre, in quanto suggerisce qualcosa di fuori luogo, di doppio, di incomprensibile.

La notizia, mediaticamente, fu scandalosa: in pieno confronto Est-Ovest, un ecclesiastico, peraltro docente di Teologia, di colpo passato al nemico. L’improvviso voltafaccia dell’amico, le cui trame spionistiche si sarebbero conosciute pubblicamente solo più tardi, travolse Mordini. Così, dal suo diario: “Oggi si compiono nove anni dal giorno che a Roma fui vestito terziario francescano e da nove anni porto il tuo nome. Allora ti davo del voi e ne eri contento; oggi ti do del tu perché… ti sento più vicino. Temo spesso di peccare di orgoglio a chiamarmi Alighiero, quasi a sentirmi un piccolo Cireneo; ma più spesso mi viene fatto di pensare che a te è mancata la forza proprio a causa delle mie cadute. So che ti sei unito ad una donna, so che non hai la minima intenzione di tornare sui tuoi passi, ma so anche quanto sia grande la misericordia di Dio”.

Il compagno Togliatti non dovette mandar giù la copertura bruciata dell’utilissima pedina, e per prendere le distanze da quella operosità diabolica che svelava il suo partito all’interno delle mura vaticane, scaricò il suo uomo. Deluso, tormentato, senza nemmeno appuntata al petto una medaglia col profilo di Stalin, Tondi fece qualche comizio, poi lasciò il paese. Con lui, la parlamentare del Pci, Carmen Zanti, una figura di sorveglianza messagli accanto da Botteghe Oscure, di cui s’innamorò e che finì per sposare civilmente. L’obbedienza al mostro che lo governava non si spense, ma si accrebbe e fu tale da far adoperare il gesuita traditore, oltre che sulla cattedra di Ateismo presso l’Università Humboldt di Berlino Est, nel proseguo dell’opera di infiltrazione e sabotaggio della Chiesa in Europa orientale. Giuda recidivo. O peggio, redivivo.

Nel frattempo, Mordini, fra i dolori ed i ricoveri per la salute compromessa, da allievo si era fatto maestro. Filologo, linguista, storico, teologo, filosofo, per lui le fatiche della mente e gli sforzi dell’anima procedevano unitamente. “Se la grazia mi sarà concessa – confidava – dedicherò tutto me stesso alla causa della Chiesa cattolica romana”. Fu voce di riferimento per una fetta d’Italia contraria all’“aggiornamento” che il Concilio Vaticano II preparava su quasi duemila anni di cattolicità romana. Ma anche “miles et sapiens” per una generazione legata al Movimento sociale italiano, assai più spiritualmente che politicamente orientata. Dettaglio che tuttora gli costa la damnatio memoriae, ovvero il “ban” – per dirla con un’altra orrenda parola – dal comune patrimonio intellettuale.

Il peggio, osservava, non sarà affatto la guerra, non sarà la distruzione atomica, ma questo progresso, questa pseudociviltà trascinata all’indefinito. Collaborava con quotidiani e riviste, scriveva saggi in quel suo studio che pareva simile “alla cella di un monaco studioso e mistico del Medioevo”.

“Se la storia non avesse alcun significato, l’intera umanità, la presenza dell’uomo nel mondo, si ridurrebbe a un assurdo e vano agitarsi di larve; ma se la storia, come crediamo, ha un senso, allora è essa medesima linguaggio, è parola”: questo l’incipit de Il tempio del cristianesimo. Nel quale il Fiorentino traccia, come sguardo dietro le quinte dei secoli, l’iter della Civiltà occidentale dall’Incarnazione fino al presente post bellico: le sue vette e le sue cadute. Consapevole, per un verso, che il corso storico non sfugge un istante al controllo dell’Onnipotente, ed anzi si fa Suo strumento perfino negli anfratti più tragici. Realista, per un altro, di quanto il libero pensiero che ha forgiato la modernità celi la rivolta organizzata delle potenze infere contro l’unità, l’autorità e l’ordine. Realtà immanente, rivelazione mistica, visione profetica, quelle tratteggiate nell’anno di pubblicazione di quest’opera, che si scrive 1963, ma altro non è se non la punta d’iceberg del nostro quotidiano.

Eppure, il capolavoro di Mordini non sta qui, fra le intense carte dei suoi scritti. Il suo capolavoro sta in ciò che, ad oggi, nessuno ricorda. Ovvero, nell’offerta di sé che Attilio Mordini fece a Dio, affinché l’amico, il mentore, il fratello maggiore, tornasse in seno alla Chiesa. “Tremenda responsabilità per l’uomo è la misericordia divina che ci esaudisce” scriveva nel diario. Ed era il 1966 quando seppe che Oltretevere aveva riaccolto il gesuita traditore, penitente seppur ancora vicino ad ambienti di sinistra, il quale lavorava come impiegato civile in Vaticano. Comprese così che, tredici anni dopo averlo presentato al Cielo, l’olocausto della propria vita era stato accettato, ed alla madre si affrettò a confidare di non dover avere avanti a sé molti giorni.

Un corpo usurato dalla malattia, una mente allo zenit della limpidezza, uno spirito al Golgota del sacrificio. Attilio Mordini se ne andò, a 43 anni, nell’autunno di quello stesso anno, il 4 ottobre, quando si celebra san Francesco. Alighiero Tondi morirà nel 1984, ottenuto da Giovanni Paolo II di poter dire messa, reintegrato nel ministero sacerdotale. Dio conosce l’intimo esito di ogni vita. E di queste due, che si riconobbero, si separarono, e forse si ritrovarono di nuovo assieme.

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Nella foto, la Pontificia Università Gregoriana

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