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Se i Pastori non svolgono il loro compito come dovrebbero, è forse una ragione per allontanarsi dalla Chiesa?

Cari amici di Duc in altum, un sacerdote affezionato al blog mi ha inviato il testo dell’omelia da lui tenuta nella Messa della V domenica dopo Pentecoste. Ve lo propongo volentieri, perché solleva questioni rispetto alle quali siamo tutti chiamati a interrogarci. Considerati i temi trattati e le argomentazioni sostenute, non c’è da stupirsi che il sacerdote in questione non possa firmarsi.

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Dalla Prima Lettera di san Pietro Apostolo (3, 8-15)

Carissimi, siate tutti unanimi nella preghiera, compassionevoli, pieni di amore fraterno, misericordiosi, moderati, umili. Non rendete male per male né maledizione per maledizione, ma al contrario benedite, perché a questo siete stati chiamati, a possedere in eredità la benedizione. Infatti, chi vuole amare la vita e vedere giorni sereni distolga la sua lingua dal male e le sue labbra non pronuncino inganno; eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua. Poiché gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono tese alle loro preghiere, mentre il volto del Signore è contro chi opera il male. E chi potrà farvi del male, se sarete zelanti nel bene? Anzi, beati voi se dovete soffrire a causa della giustizia! Non abbiate di loro alcun timore e non lasciatevi turbare, ma glorificate il Cristo Signore nei vostri cuori.

Dal Vangelo secondo Matteo (5, 20-24)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete udito che fu detto agli antichi: “Non uccidere; chiunque ucciderà sarà condannato in giudizio”. Io invece vi dico che chiunque si adira con suo fratello sarà condannato in giudizio. Chi dirà a suo fratello: “Stupido” sarà sottoposto al Sinedrio e chi gli dirà “Empio” sarà condannato alla Geenna di fuoco. Se dunque presenti la tua offerta all’altare e là ti viene in mente che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi torna a presentare la tua offerta».

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Sia lodato Gesù Cristo!

«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli». Questa affermazione, all’inizio del grande discorso di Gesù detto della Montagna, potrebbe di primo acchito provocare lo sconforto: sembra che il Signore esiga qualcosa di impossibile. Alla sua epoca gli scribi e i farisei erano i migliori conoscitori della legge divina ed erano anche considerati i suoi più perfetti esecutori, tanto da apparire irreprensibili. Com’è possibile, allora, superare la giustizia degli scribi e dei farisei, così da poter entrare nel Regno di Dio? Il seguito ce lo fa comprendere.

Possiamo dire che la nostra osservanza dei Comandamenti deve superare quella degli scribi e dei farisei in due direzioni: in estensione e in profondità. In estensione, il Signore insegna che non basta non uccidere fisicamente il fratello; bisogna pure evitare di ferirlo con le parole. Chi offende il prossimo non gli toglie, ovviamente, la vita fisica, ma lo aggredisce nell’intimo. Come vedete, la legge di Gesù, per estensione, esige di più: non si limita all’osservanza letterale di un comandamento, ma va alla radice, cioè ricerca il motivo del comandamento, che è la carità. Non basta poter dire: «Io non ho ucciso nessuno, non ho rubato e così via»; con le tue parole, con le tue offese, con le tue maldicenze, puoi uccidere una persona moralmente. L’ira è un vizio terribile, poiché chi si abitua a lasciarsi prendere da questa passione non è più in grado di controllare i propri atti e le proprie parole; sotto l’effetto dell’ira, quindi, si può fare del male, anche in modo grave.

Vedete allora che la legge di Gesù applica i Comandamenti in senso più profondo e più esteso. La legge evangelica supera quella dell’Antico Testamento, che indicava soltanto le esigenze fondamentali della legge naturale. Il Signore, però, vuole per noi il meglio; vuole la pienezza. Se amiamo Dio, dobbiamo di conseguenza amare anche il prossimo. Gesù insegna ad osservare i Comandamenti fino in fondo, senza fermarsi a un’osservanza puramente letterale. Per questo c’è un di più anche in senso qualitativo, in profondità: come ho già accennato, l’osservanza dei Comandamenti deve essere animata dalla carità.

Non basta dire: «Io non ho violato alcun precetto; non ho fatto nulla di male»; bisogna osservare la legge di Dio per amore suo e per amore del prossimo. Quando ci impegniamo a osservare un comandamento, dobbiamo domandarci: «Sto amando il Signore? Voglio amarlo di più? Desidero dimostrargli la mia fedeltà e la mia dedizione? Oppure voglio semplicemente mettermi in pace la coscienza o desidero che il mio ego si senta buono, addirittura migliore degli altri?». Se mi sforzo di evitare un comportamento cattivo, mi devo chiedere: «Sto cercando il bene degli altri? Mi sto sforzando di procurare agli altri non solo ciò che spetta loro, ma anche ciò che è necessario alla loro salvezza?».

In tal modo la legge evangelica supera enormemente l’osservanza farisaica: i farisei tendevano appunto a stabilire norme che garantissero la loro ineccepibilità. Il problema, tuttavia, non è essere ineccepibili; il problema è amare Dio e il prossimo. Nessuno riuscirà mai ad essere perfettamente ineccepibile, neppure i Santi. Anche a coloro che hanno raggiunto un alto grado di unione con Lui, il Signore lascia qualche difetto: non peccati gravi, evidentemente, ma qualche imperfezione che li mantenga umili; altrimenti rischierebbero di montare in superbia. C’è sempre qualcosa, quindi, che obbliga perfino i Santi a combattere con sé stessi.

È ovvio che i Comandamenti vadano osservati. Non vogliamo cedere al lassismo che domina nella nostra epoca; non vogliamo dire: «Il buon Dio è misericordioso; qualsiasi cosa facciamo, ci passa sopra». No: il peccato è un danno per noi: esso ci priva della grazia, se è grave. Il peccato è una rottura dell’amicizia con Dio, che ha un valore infinito; noi non potremmo mai far niente per recuperarla, se non fosse Lui a offrirla di nuovo, per misericordia, a chi è sinceramente pentito. L’osservanza dei Comandamenti deve portarci a crescere nell’unione con Dio e nel servizio dei fratelli; altrimenti rischiamo di cadere in forme di casuistica farisaica che ci danno apparentemente l’impressione di essere giusti, ma nei fatti non è così.

Qui mi vedo purtroppo costretto a richiamare due ambiti in cui dobbiamo assolutamente evitare questo difetto. Sapete che da circa un anno e mezzo c’è una diatriba morale sulla cosiddetta vaccinazione. La questione è stata sbrigativamente risolta affermando che chi si vaccina non ha direttamente cooperato in nulla con aborti commessi cinquant’anni fa. Questo di per sé è vero; il fatto è che non si può restringere l’oggetto dell’analisi a quegli episodi, come se fossero stati casi isolati ed eventi conclusi in sé stessi.

Sappiamo benissimo che quegli aborti – cioè dei crimini gravissimi – sono stati commessi appositamente per ottenerne tessuti fetali umani; non possono essere stati compiuti per altri motivi, con il successivo prelievo di materiale biologico, dato che quei tessuti, per essere utilizzabili, devono necessariamente essere vivi; perciò non possono essere stati estratti da un cadavere. In base ai dati di cui disponiamo, abbiamo la certezza che quegli aborti sono stati perpetrati su commissione, appositamente per ricavarne tessuti umani da utilizzare nella ricerca scientifica e nella produzione e sperimentazione di farmaci.

Ora, se questo è vero, significa che quegli aborti non sono fatti isolati e in sé conclusi, ma sono l’inizio di un processo, il quale arriva fino a chi riceve il prodotto finale. Lo scopo di quel processo (e quindi degli aborti con cui è iniziato) è la vaccinazione di una persona; il fine cui tende fa di esso una realtà unitaria. Di conseguenza la mia coscienza dice: «Certo, io non ho cooperato in modo immediato con quegli aborti considerati come fatti isolati, ma coopero con il processo, in quanto ricevo il prodotto che ne è frutto, acconsentendo a farmi somministrare un farmaco che è stato ottenuto in modo immorale».

Se dunque, come oggetto dell’indagine, prendo l’intero processo (che di fatto è un tutt’uno), allora la cooperazione c’è, ed è una cooperazione  attiva e immediata. Si tratta di una vera e propria collaborazione al male: il peccato, in questo caso, è tutto un processo di cui io rappresento il termine, un processo che comincia con quegli aborti e arriva fino a me; quindi ne sono partecipe e corresponsabile. Affermare che c’è soltanto cooperazione remota, come se quegli aborti fossero un fatto isolato e concluso una volta per sempre nel passato, è un sofisma, poiché si è ristretto eccessivamente il campo d’indagine. Ancor prima di iniziare il ragionamento, si è fatta una scelta previa: si è isolato un evento separandolo da tutto il resto, mentre invece bisogna considerare l’intero processo come una realtà unitaria. Ora, se si fa questo errore all’inizio, il ragionamento susseguente potrà pure essere coerente, ma il problema è a monte, nel punto di partenza che è falso; di conseguenza sarà falsa anche la conclusione, per quanto lo sviluppo della premessa possa essere corretto.

In questo campo dobbiamo assolutamente evitare il fariseismo. Se in autunno intensificheranno di nuovo l’indegna e immonda campagna di “vaccinazione”, dovremo opporci ad essa anzitutto per ragioni morali: non solo perché i cosiddetti vaccini fanno male, in quanto sono un veleno che rovina la salute delle persone distruggendone il sistema immunitario, ma soprattutto perché la loro assunzione è un atto intrinsecamente malvagio, un atto cattivo di per sé, a prescindere dagli effetti susseguenti. Prepariamoci perciò a rispondere di no per motivi di coscienza: una persona non può essere costretta a fare qualcosa di contrario alla sua coscienza. Oltretutto non si può obbligare nessuno a ricevere un trattamento preventivo: questo è al di fuori di ogni ordinamento legale.

L’altro punto doloroso su cui devo richiamare l’attenzione è il fatto che ci siano cattolici pronti a imboccare la via dello scisma. Anche qui è una sottigliezza quella alla quale si appellano. Certo, dobbiamo ammettere che nella Chiesa cattolica i superiori ci abbiano spinto – o anche obbligato, come nel caso dei religiosi e degli operatori pastorali – a effettuare la cosiddetta vaccinazione. Senza dubbio è un abuso gravissimo, un fatto senza precedenti: siamo stati istigati al peccato dai Pastori stessi, che devono invece guidarci sulla via del bene. Questo non è però un motivo per porsi fuori della Chiesa: se i Pastori si comportano male, ne risponderanno a Dio, ma non per questo dobbiamo uscire dalla comunione gerarchica.

Se perfino il vertice della Chiesa mi dice, in un’intervista, che ricevere quell’iniezione è un atto d’amore, nella mia coscienza non sono tenuto ad ascoltarlo, prima di tutto perché quella persona non sta impegnando la propria autorità, in quanto l’intervista non è una forma del Magistero, bensì una forma di condivisione delle proprie opinioni personali. In questo caso è l’opinione di un personaggio autorevole, certo, ma pur sempre un’opinione, che in coscienza non sono obbligato a seguire. In secondo luogo, egli sta parlando di una materia che non è di sua competenza: i trattamenti sanitari, in quanto tali, non rientrano nel Magistero ecclesiastico, a meno che non siano stati ottenuti in modo immorale; in questo caso, il Magistero deve semmai proibire ai cattolici il loro utilizzo, anziché raccomandarlo; dovrebbe accadere l’esatto contrario.

Ora, se le guide della Chiesa non svolgono il loro compito come dovrebbero, è forse una ragione per cui io debba allontanarmi dalla Chiesa? Dovrò piuttosto rimanere dentro e continuare a dire la verità, insistendo nel farmi ascoltare come una spina nel fianco. Se i buoni vanno fuori, anzitutto si espongono alla dannazione; poi lasciano la Chiesa priva dell’ausilio della loro competenza e del loro contributo. Appellarsi allo stato di necessità – e qui vengo al sofisma – è qualcosa di davvero farisaico. Lo stato di necessità è una circostanza eccezionale, localizzata e temporanea: per esempio, c’è una persecuzione in un dato Paese; in quel luogo e per un certo lasso di tempo, essendo impossibile comunicare con la Santa Sede o con il metropolita, si agisce in deroga a questa o quella norma, come se fosse momentaneamente sospesa, dato che non si può fare diversamente per assicurare il bene delle anime. È tuttavia – lo ripeto – un fatto eccezionale, localizzato e temporaneo.

Se invece considero lo stato di necessità una situazione universale e pretendo che duri da sessant’anni, faccio qualcosa di assurdo: lo stato di necessità, infatti, non può riguardare la Chiesa nella sua interezza. Sostenere questo vorrebbe dire che non c’è più un solo sacerdote da cui ricevere i Sacramenti; bisognerebbe arrivare a un punto in cui i fedeli fossero costretti a dire: «Per la salvezza dell’anima, io non posso ricorrere a nessuno, se non a sacerdoti che operano in modo illegale, al di fuori dell’ordinamento canonico». Voi sapete perfettamente che questo non è vero: ci sono tanti sacerdoti che, nonostante questa situazione gravissima di confusione, smarrimento e disorientamento, per grazia di Dio mantengono la barra diritta: predicano la sana dottrina e il Magistero, amministrano i Sacramenti in modo valido (e anche lecito), guidano i fedeli secondo verità e giustizia.

Come vedete, ricorrere all’idea dello stato di necessità per giustificare una ribellione alla legittima autorità ecclesiastica è un altro sofisma; il precedente annullava la legge di Dio, questo annulla la legge della Chiesa. A questo punto, ognuno può fare quello che vuole, stabilendo da sé che c’è una situazione tale da autorizzarlo a fare di testa sua. Così la Chiesa va in mille pezzi, ma non si ottiene il bene della Chiesa spaccandola o, viceversa, non si può spaccare la Chiesa per il suo bene: che bene sarebbe? Ognuno, poi, si sceglie il suo capo e si rinchiude in una piccola setta: alla fin fine, tutto dipende da colui che comanda, il quale, però, non ha alcuna autorità, in quanto non è stato investito dall’alto, ma si è arrogato il diritto di guidare altri senza averne l’incarico. Così si finisce appunto col formare una setta: stiamo tra noi, perché noi ci salviamo e tutti gli altri sono dannati per la sola ragione che non ci seguono – cosa che, evidentemente, non è sostenibile.

Dal punto di vista dottrinale, si nega implicitamente il dogma dell’indefettibilità della Chiesa; dal punto di vista morale, si commette un peccato gravissimo contro la sua unità visibile. Ma che cosa ci ha raccomandato san Pietro, poco fa? «Siate tutti unanimi nella preghiera, compassionevoli». Il testo latino (compatientes) suggerisce qualcosa di molto più profondo del termine scelto dalla traduzione: «Soffrite gli uni con gli altri». Certo, stiamo soffrendo – nessuno lo nega –, ma soffriamo insieme, appoggiandoci gli uni agli altri, sostenendoci a vicenda e andando avanti con l’aiuto di Dio.

«Siate pieni di amore fraterno, misericordiosi, moderati, umili». L’umiltà, purtroppo, fa proprio difetto di questi tempi, visto che si fan tutti maestri; tutti san tutto, tutti discettano su qualunque cosa… Con un po’ di umiltà, invece, ognuno dovrebbe dirsi: «Io non ho né la competenza né l’autorità per stabilire certe cose o per dirimere certe questioni; comunque non tocca a me». Oltre all’umiltà, ci è richiesta la moderazione, quella di chi, sapendo qual è il suo posto e il suo compito, cerca semplicemente di fare il proprio dovere, contribuendo al bene della Chiesa con la sua preghiera, il suo lavoro e il suo sacrificio.

San Pietro continua: «Non rendete male per male, ma al contrario benedite, poiché questa è la vostra chiamata». Se uno desidera la vita vera, deve moderare la lingua ed evitare il male, quindi astenersi da ciò che è palesemente contrario alla volontà di Dio. Anche la disciplina ecclesiastica – sapete – è volontà di Dio. Non si può obiettare che questo non sta scritto nella Bibbia: non siamo mica protestanti; da cattolici riconosciamo che anche l’ordine inerente alla struttura della Chiesa visibile, nella sua sostanza, è stato stabilito dal Signore; non è certo stato inventato dagli uomini. Ciò che è male, dunque, va sempre evitato e bisogna astenersene in ogni circostanza; altrimenti cadiamo in quella morale della situazione che pur condanniamo a parole.

Dobbiamo altresì fare il bene cercando la pace con tutti, per quanto possibile. Infine dobbiamo pregare, perché il Signore ascolta: «Gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono tese alle loro preghiere; ma il volto del Signore è contro chi opera il male». Chi si mette fuori della Chiesa si mette in stato di peccato mortale, anche prima di essere formalmente scomunicato. Allora non fate sciocchezze e non seguite persone che si sono investite da sé di una missione di guida, senza averla ricevuta da nessuno.

«Chi potrà farvi del male, se sarete zelanti nel bene? Anzi, se dovrete soffrire a causa della volontà di Dio, beati voi! Non abbiate alcun timore, ma glorificate il Signore nei vostri cuori». Dobbiamo preoccuparci di glorificare Dio; ma come lo si glorifica? Amandolo fino al sacrificio e servendo i propri fratelli, là dove ognuno si trova, in base al compito che il Signore gli ha dato, secondo la sua volontà. Poi lasciamo che sia Lui a risolvere questioni superiori alle nostre possibilità: quello che non possiamo fare noi, lo farà il buon Dio. Siamo esseri umani: certi problemi sono al di sopra delle nostre forze; non pretendiamo quindi di fare ciò non possiamo. Piuttosto preghiamo e facciamo penitenza perché il Signore intervenga e ristabilisca l’ordine, Lui che è Dio e vive e regna con il Padre e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen!

Sia lodato Gesù Cristo!

Aldo Maria Valli:
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