La vita nascosta. Franz Jägerstätter e noi

Cari amici di Duc in altum, il 9 agosto 1943 veniva giustiziato nel carcere del Brandeburg an der Havel a Berlino – lo stesso dove furono uccisi il pastore luterano Dietrich Bohnöffer e il prete cattolico Max Joseph Metzger – Franz Jägerstätter, l’obiettore di coscienza austriaco beatificato da Benedetto XVI nel 2007. Un esempio, quello di Jägerstätter, più attuale che mai.

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di Alessandro Staderini Busà

Tutto va nel migliore dei modi. La guerra procede, la gente fa poche domande. Lo avevano detto, ripetuto a spron battuto, alla fine lo si era accettato come refrain di uno spot a reti unificate: andrà tutto bene. Non era così che dicevano? Ma, poi, bene per chi? Be’, questo non era stato definito. Eppure, adesso s’intende un po’ meglio. Le bende di qualcuno cadono dagli occhi, le coscienze qui e là si ridestano con sbadigli tardivi. Va bene, va bene, ad andar bene è per chi il Bene vero, immutabile, eterno, non sa cosa sia, e quindi non può desiderarlo o applicarlo. Ad andar bene è per chi si frega le mani nella disgrazia dei piccoli, stringe le cinghie del servaggio, s’incista alla poltrona, si ostina nelle leggi, le disattende per primo, fa carriera e batte cassa. Ancora ci si mette in fila per farsi impallinare il braccio col siero prodotto per un virus ormai ridotto a uno starnuto. Questo, per qualcuno, significa andar bene. Presto o tardi ci si metterà in linea per farsi impallinare il petto col piombo nemico, sarà su un fronte non più soltanto ucraino, ma verosimilmente europeo. Pure questo, per qualcuno, equivarrà all’andar bene. Davvero bene. Non l’hanno dimostrato già abbastanza, coi concreti fatti, i Draghi e i Macron, le von der Leyen e i Biden, come non sia la causa di un Popolo e di una Nazione ciò che i vertici occidentali hanno più a cuore? “A pensar male del prossimo si fa peccato ma spesso ci si indovina” meditava Pio XI. Ma qui, da un pezzo, si è passata la fase del tirare a indovinare. Qui, semmai, si tratta di raccogliere gli indizi sparsi dal serial killer e metterli insieme per capire dove e quando sarà la prossima scena del crimine. Dico questo affinché, quando a casa arriveranno le cartoline di richiamo alle armi come fu lo scorso inverno per quelle dell’obbligo vaccinale, poi non ci si meravigli. E non vengano a professare un concetto di obbedienza quale valore tout court, prerogativa intrinseca della remissività dei seguaci di Cristo. “Noi dobbiamo obbedienza all’autorità legittima, nella misura in cui il potere viene esercitato per le finalità per cui l’autorità è stata costituita da Dio: il bene temporale dei cittadini per lo Stato e il bene spirituale dei fedeli per la Chiesa” spiegava, in una recente intervista, monsignor Carlo Maria Viganò. “Un’autorità che impone il male ai sudditi è per ciò stesso illegittima e i suoi ordini sono nulli”.

Ecco, oggi 9 agosto, è l’anniversario della morte del beato Franz Jägerstätter, caduto sotto la mannaia del Terzo Reich, uno che elevò la disobbedienza a lasciapassare per il Cielo. Il film La vita nascosta di Terrence Malick è su di lui. Si tratta di una pellicola del 2019, mai distribuita, almeno in Italia, in quanto penalizzata dall’arrivo della pandemia. Eppure, per come si sono messi gli incastri storici, calza più vederla ora che qualche anno addietro. “Il bene crescente del mondo dipende in parte da atti ignorati dalla storia; e se le cose non vanno così male per te e per me come avrebbe potuto essere, si deve in parte a quanti vissero fedelmente una vita nascosta e riposano in tombe che nessuno visita”. Così si legge nella citazione della scrittrice vittoriana George Eliot che, a fine film, ne giustifica il titolo. Chi conosce i lavori del regista americano lo sa autore introspettivo e poco spettacolare, lontano da ogni sbruffonaggine hollywoodiana. Se l’elemento paesaggistico già dominava con la jungla nel suo La sottile linea rossa, vista attraverso gli occhi del Caviezel più tardi interprete del Cristo di Gibson, stavolta ecco i verdi declivi, i picchi montani, i boschi di una nostra valle nei dintorni di Bolzano. E le quattro case di uno sperduto paese – St. Radegund, nella realtà storica – in cui la giornata è scandita dai ritmi delle campane, dalla falce nei campi, dai boccali di birra, dai conforti di una stube. Il mondo che Malick dipinge è un luogo in cui l’essere umano, decaduto, non è più padrone; piuttosto elemento transitorio come le nuvole, tenuto a rendere conto del proprio passaggio, il giorno che, per sentenza di tribunale o schioppo del nemico, sarà chiamato ad abbandonarlo. “Arriveranno tempi oscuri: quando gli uomini incontreranno la verità non la combatteranno, la ignoreranno” sono le parole che il pittore all’opera nella chiesetta del paese rivolge al protagonista, introducendo un dramma che cova.

Il contadino Jägerstätter è padre di tre figlie, marito innamorato, trentenne vigoroso, sa accontentarsi di poco. “Il fieno fresco mi dà speranza, l’odore della stalla, il vento, il grano, il cielo”. Ma scoppia la guerra ed è posto di fronte a una scelta. “Cristo vuole da noi una professione aperta di fede come Hitler la vuole dai suoi” lascerà scritto in un corpus di lettere che paiono prodotte più da un filosofo che da un uomo che zappa e munge. Ed è in virtù della libertà declinata dal resto della sua comunità rurale che quest’uomo semplice decide, in piena Seconda Guerra Mondiale, di non rispondere alla cartolina d’arruolamento. Diversamente dalla nota resistenza della Rosa Bianca dei fratelli Sholl (pure loro cattolici), la sua vicenda sarebbe rimasta sepolta negli archivi di Stato se, negli anni Sessanta, non avesse destato dapprima l’interesse di qualche storiografo tedesco e poi le attenzioni di un papa anche lui tedesco, il Ratzinger che nel 2007 avrebbe elevato Jägerstätter al rango di beato. “Tu sei un mostro, tu sei un traditore!” gli fa il sindaco quando capisce che l’incantesimo della propaganda su di lui non ha effetto. Né gli fanno cambiare idea i consigli del vescovo da cui lo invia l’umile prete locale, un Thobias Moretti più fragile e realistico che nei giorni de Il commissasio Rex. Dopo l’autorità politica, anche quella religiosa però si è moralmente adulterata, noi ne sappiamo qualcosa. Franz Jägerstätter è così abbandonato dalle potestà che dovrebbero indirizzare la vita di un uomo. Unica voce a guidarlo, la coscienza. “Araldo di Dio e messaggero” la chiama San Bonaventura. “Ciò che dice non lo comanda da sé stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando proclama l’editto del re”.

Il contadino, col volto fanciullesco dell’ottimo August Diehl, è presto messo in carcere, tappa obbligata sulla via del processo per tradimento, renitente alla chiamata alle armi. “Le mie mani purtroppo sono legate – scriverà alla famiglia – ma la mia volontà no”. Non è l’unico obbiettore ad aver scelto la non collaborazione al regime. Altri come lui sono dietro le sbarre. “Questi uomini non hanno amici. Nessuno che gli stringa la mano. Hanno visto il dolore, la vergogna, la distruzione. Che cuori forti”. Più che soggetti pericolosi, la struttura carceraria li identifica come matti: non può essere infatti comprensibile la scelta individuale nell’ottica di un’umanità-mandria. E aggiungerà il futuro beato come “ci siano tante persone che obbediscono a cose a cui dovrebbero ribellarsi e si ribellino ad altre a cui dovrebbero obbedire”.

“Perché lo fa? Orgoglio? Si crede meglio degli altri? Lei è l’unico a capire? Distingue il bene dal male?” gli chiede il medico nella perizia psichiatrica. “Puoi giurare, ma credere ciò che vuoi. Firma e sarai un uomo libero” suggerisce l’avvocato difensore. “Io sono libero” è la risposta di Jägerstätter. Nell’incontro privato prima dell’udienza, uno dei giudici militari ne è colpito al punto che, se non si conoscesse la vera storia dell’austriaco, si penserebbe a un pronunciamento di clemenza. Ultima interpretazione della vita, questa scena, per Bruno Ganz. Angelo appollaiato sulla statua della Vittoria ne Il cielo sopra Berlino, poi Führer indiavolato nel bunker de La caduta, Ganz è qui in veste del giudice Lueben, ago della bilancia fra l’uno e l’altro estremo, le vette angeliche e gli abissi terreni. “Non posso fare ciò che ritengo sbagliato” spiega l’imputato. “Tu hai diritto di fare questo?” chiede il giudice. “Ho il diritto di non farlo”.

In pochi potrebbero affermare una volontà così assoluta del proprio io, a fronte di una facile via d’uscita, se, al fianco, non avessero un alter ego di pari lealtà. Per Franz è Franziska, la moglie che, messa all’indice dalla comunità di appartenenza, violentando i propri sogni e i propri desideri, lo tranquillizza dicendogli che “qualunque cosa tu decida, qualunque cosa tu farai, io sarò con te, sempre: fai ciò che è giusto”. Ed il bacio che lei non riuscirà a dargli, strappata via, nell’estremo abbraccio, dalle guardie carcerarie, sarà quello che, in un bilanciarsi di dolori, il protagonista offrirà sulla guancia di un compagno di sventura, più terrorizzato di lui, davanti alla ghigliottina. Ciò potrà anche non esser avvenuto davvero, ma quale miglior frame per raccontare la generosità di una vita? Si intende, così, in ultimo, come scopo del regista non sia tanto ripercorrere le violenze di un nazismo così care al cinema americano, ma chiamare lo spettatore a pronunciarsi, attraverso la parabola di Franz Jägerstätter, su singolo e collettività, su sacrificio ed espiazione, su omissione e responsabilità. Meccaniche da tempi biblici, dualismi di attualità.

 

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