Hong Kong, città di rifugiati. Per capire una realtà complessa

di Aurelio Porfiri

Per capire Hong Kong bisogna sapere che la città è stata meta di tanti rifugiati in fuga dalla Cina prima e dopo il 1949, inizio della Repubblica popolare cinese. Inoltre, a partire dal 1975, c’è stata la tragedia dei boat people, rifugiati dal Vietnam che spesso si trovavano in condizioni inumane.

Il problema dei rifugiati è spesso complesso e anche noi in Italia possiamo avvertirne le tristi conseguenze. Bisogna senz’altro aiutare chi fugge da fame e guerra, e accogliere chi ha un lavoro che lo aspetta, ma accogliere indiscriminatamente può soltanto acuire la tensione sociale e non alleviare le sofferenze di coloro che si trovano in un tempo di prova. I cristiani conoscono Matteo 2, 7-23.  Che cosa possiamo capire da questo racconto? Prima di tutto che la Sacra Famiglia, minacciata, sceglie di fuggire in Egitto per salvaguardare la propria incolumità. Ma poi, quando il pericolo è cessato, l’angelo stesso le ordina di tornare in patria. Bisogna aiutare chi è nel bisogno, ma bisogna anche salvaguardare il benessere collettivo. Il problema nasce quando le nazioni non sono in grado di accogliere e devono far fronte a un flusso inarrestabile.

Ma torniamo a Hong Kong. Il padre Sergio Ticozzi nel suo bel libro La perla d’Oriente così parla del problema dei rifugiati nel dopoguerra: “In Hong Kong, dopo la resa del Giappone (15 agosto 1945), con una popolazione ridotta a circa 500 mila persone e una buona metà degli edifici inabitabile, si insedia l’Amministrazione militare (1° settembre 1945 – 1° maggio 1946), finché il governatore britannico, Mark A. Young, riassume il potere civile. Gli impegni immediati dell’Amministrazione militare sono il rimpatrio e la sistemazione dei prigionieri di guerra e degli internati, la smobilitazione dei servizi ausiliari di difesa, il ripristino delle condizioni sanitarie e dei servizi pubblici, oltre che ristabilire l’ordine contro i saccheggi diffusi, riprendere le transazioni finanziarie, fornire di cibo e alloggio ai rimpatriati che affluiscono con una media di 100 mila persone al mese. Alla fine del 1945 la popolazione supera il milione, ma per l’80% è malnutrita”.

La Gran Bretagna nel frattempo adotta una “nuova prospettiva per le colonie”, pianificando una maggiore corresponsabilità della popolazione locale nell’amministrazione. Viene pubblicato il “Piano Young”, un piano di amministrazione democratica della colonia che però non sarà attuato perché il mandato del governatore che gli ha dato nome si conclude nel maggio 1947. Altre ragioni della mancata realizzazione del Piano Young sono il flusso dei rifugiati, che modifica il carattere della società di Hong Kong, e soprattutto la mentalità conservatrice del laissez-faire ancora predominante nel mondo degli affaristi cinesi e stranieri. Hong Kong, pur mantenendo il sistema amministrativo coloniale, intraprende in pratica il processo verso l’autonomia finanziaria e la localizzazione dell’amministrazione. Sono i profughi cinesi a creare gradualmente la “nuova Hong Kong”. La popolazione sale a un milione e 600 mila abitanti nel 1946 e a un milione e 800 mila nel 1947. La preponderanza cinese, combinata con la riduzione del numero dei vecchi “coloniali”, porta ad abolire anche i pregiudizi razziali. Gli occidentali nuovi arrivati mostrano una mentalità diversa. I cinesi, costituendo la maggioranza assoluta e la fonte finanziaria più cospicua, spingono il governo ad attuare gradualmente una politica che provveda a tutti la base essenziale per una residenza stabile e una vita relativamente confortevole. Il disordine in Cina, quindi, costringe Hong Kong a progredire a un ritmo molto veloce e a trasformarsi in uno dei maggiori centri commerciali dell’Estremo Oriente.

Insomma, il grande affluire di rifugiati ha certamente aiutato la città a svilupparsi perché ha fornito mano d’opera per le vertiginose novità urbanistiche di quegli anni Cinquanta. Un caso a sé, perché non tutti i paesi sono in queste condizioni.

Tra i grandi rifugiati in Hong Kong non possiamo non menzionare l’arcivescovo di Guanzhou Dominic Tang (1908-1995). Nativo della città, si trasferì in Cina una volta scelta la vita religiosa nella Compagnia di Gesù, prima attendendo alla comunità di lingua cantonese in Shanghai e dopo alcuni anni come vescovo di Guanzhou. Nel 1958 fu arrestato e rimase per ventidue anni nelle carceri cinesi. Fu rilasciato per sottoporsi a un’operazione chirurgica e gli fu concesso di andare in Hong Kong. Lì rimase per poi morire in America mentre era in visita a un altro grande cattolico cinese, il cardinale Ignazio Kung. Egli quindi fu anche un rifugiato, e con lui dobbiamo contarne tanti altri tra i cattolici, come i missionari espulsi dal governo comunista al tempo della loro presa di potere.

Questa mentalità da rifugiato spiega anche le paure sorte in tempi recenti per via del controllo sempre più stringente della Cina su Hong Kong. Molti di quelli che ci vivono oggi sono i discendenti di coloro che un tempo erano fuggiti dal loro paese. Quindi esiste un blocco psicologico importante e con ragioni non illogiche. Certo questo non deve portare agli estremi, come quelli di coloro che invocano un’indipendenza di Hong Kong dalla Cina. Una volta finito il periodo coloniale, era logico che la città tornasse alla Cina e questo è riconosciuto anche da molti appartenenti al locale fronte democratico. Il problema per molti non è l’appartenenza alla Cina: sono le condizioni di questa appartenenza. La gente di Hong Kong è stata abituata a vivere in una società di tipo occidentale, che ovviamente non è perfetta ma garantisce una serie di libertà e di diritti a cui non vuole rinunciare. Purtroppo una mutua incomprensione ha portato da una parte a forti proteste e dall’altra a un inasprimento del controllo sulla città e questa è la situazione in cui ci troviamo oggi. Una situazione che credo sia difficile comprendere se non si capisce la mentalità da rifugiato che permea larghi strati della popolazione locale. Certo, la Cina è cambiata dal 1949 e oggi conosce un benessere impensabile all’epoca. Ma il quadro politico cinese mostra ancora alcune tracce del passato e si serve di un forte autoritarismo per cercare di mantenere la tanto agognata stabilità, quella che l’ex presidente cinese Hu Jintao definiva come la “società armoniosa socialista”. Per fare questo, come aveva capito Antonio Gramsci, il governo cinese sa che bisogna strettamente controllare la cultura e le religioni. Ricordiamo che un tempo la religione era sotto il controllo imperiale e non pochi osservatori vedono nella politica corrente della Cina un retaggio non ininfluente del tempo imperiale. La cosa è anche comprensibile, visto i millenni di storia dell’impero che certamente sono rimasti nella memoria collettiva dei cinesi.

Ecco, guardando Hong Kong dal punto di vista dei rifugiati si comprende molto anche della storia recente e contemporanea. Con ciò non si intende fare l’elogio del migrante, come alcuni settori della Chiesa cattolica tendono a fare oggi. Essere migrante, essere rifugiato, essere povero non aggiunge una speciale dignità: aggiunge solo sofferenza. Si tratta quindi di situazioni da sanare, non da prendere a modello. Queste condizioni possono essere vissute con grande dignità, sapendo accettare quello che la vita offre in un dato momento, ma devono restare temporanee, non permanenti.

 

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