Storia di Ermanno, meraviglia del mondo

di Alessandro Staderini Busà

La sua fortuna fu nascere e vivere nell’anno Mille. Partorito qualche secolo prima, la lacuna nella carità dei pagani lo avrebbe lasciato in pasto alle bestie, fatto annegare, gettato da una rupe. “Portentosos fetus extinguimus, liberos quoque, si debiles monstrosique editi sunt” scriveva Seneca. “Eliminiamo i neonati mostruosi, perfino i figli, se vengono alla luce deboli e deformi”. Se poi fosse appartenuto al millennio nostro, nemmeno avrebbe avuto il tempo di metter fuori il naso col parto. Aspirato ancora vivo dall’utero materno, sarebbe andato ad arricchire il numero di sacrificati al programma eugenetico globale, quasi 43 milioni nell’anno 2021. Poche chances avrebbe avuto di passare al vaglio di una semplice amniocentesi. Spesa gravosa, uno così malmesso, per le casse dello Stato-Leviatano che si dice all’opera per il best interest del cittadino, ma preferisce vederlo più morto che vivo. Inutile bocca da sfamare per un “pianeta Terra progettato per tre miliardi di persone”, a sentire il ministro Cingolani; non certo questi una mente al pari di Seneca ma altrettanto disinvolto del Filosofo nel voler alleggerire il mondo da più della metà dei suoi abitanti, secondo rinvigorite logiche mengeliane.

Macrocefalo, le braccia e le gambe rattrappiti, affetto da quanto oggi è definibile come sclerosi multipla, nel 1013 venne dunque alla luce, presso il noto castello di Altshausen, un bambino che battezzarono col nome di Hermannus (Ermanno). Con quella puntualità che la Storia ha di aggiungere soprannomi ai grandi che calcheranno il suo palco, gli fu presto dato l’epiteto di “Contractus”, “der Lahme” in tedesco. Ovvero, “lo Storpio”. Titolo sostitutivo di quello nobiliare che una vita come tutti gli avrebbe concesso, e che però non gli impedì di guadagnarsene altro più autentico e prestigioso. L’uomo venuto al mondo come scherzo di natura sarebbe salito agli onori delle cronache quale “Miraculum saeculi” (“la Meraviglia del secolo”). E pare che i suoi contemporanei non esagerassero a definirlo tale se, a distanza di mille anni, il suo prodigio resta vivo.

Figlio del conte Wolfrat di Altshausen di Svevia e di sua moglie Hiltrerd, creduto ritardato, impedito a camminare e a parlare come un bambino qualsiasi – “le labbra e il palato erano deformati al punto che le sue parole uscivano stentate” – fu affidato al monastero di San Gallo. Luogo che non ci è nuovo per esser passato alle cronache quale ritrovo di quella cricca che il cardinal Danneels chiamò mafia. E che ci fa notare come se un tempo la Chiesa potesse albergare nel suo abbraccio mostri nel corpo eppure anime elette, oggi dicasi l’opposto, con prelati che al dignitosissimo aspetto fan corrispondere mostruosità profonde da fare paura. La storia della sua vita, composta da un monaco di nome Bertoldo, venne trovata, nei primi del Novecento, in un’intercapedine delle mura medievali dell’Università di Oxford, e senza di quella nulla di lui oggi sapremmo. I monaci lo accolsero che aveva sette anni e se ne presero cura con pazienza. Ermanno andava seguito nel mangiare, nel vestire, nel lavarsi, nel muoversi, e così sarebbe stato per tutta la vita. Se il corpo trovava ostacoli immensi nel compiere gli atti più quotidiani, la sua mente – si accorsero – non solo sapeva rispondere agli stimoli ma era sorprendentemente attiva. Gli fu insegnato a leggere sul libro dei Salmi, a fare di conto sull’abaco, a scrivere sulle sentenze di Catone. Dunque, come previsto dal sistema scolastico dell’epoca, imparò le tre arti del Trivium (Grammatica, Retorica, Filosofia) e del Quadrivium (Aritmetica, Geometria, Astronomia, Musica). Trentenne, ricevette l’ordinazione presso il monastero benedettino di Reichenau, che sorge su un’isola di quel lago di Costanza chiamato dai locali Mare di Svevia. “Le sue mura ospitavano dotti famosi ed una scuola di pittura”. Vi sarebbe rimasto fino alla morte. Vi avrebbe anche esercitato da insegnante, all’epoca in cui l’istruzione era eccellenza e prerogativa di ogni centro monastico europeo. Se si hanno dubbi su come potesse farlo, pensate al professor Hawking. Come il fisico inglese, anche Ermanno doveva essere trasportato su quella che l’estro pratico dei monaci rese l’antesignana della sedia a rotelle. E là dove la parola stentava, probabilmente si aiutava scrivendo, come il Christy Brown de Il mio piede sinistro.

“Piacevole, amichevole, conversevole; sempre ridente; tollerante; gaio; sforzandosi in ogni occasione di essere galantuomo con tutti”, riportò il docente gesuita Cyril Martindale (1879–1963), che ne diffuse la biografia. Conosceva sette lingue, fra cui l’arabo. Fu matematico, storico, filosofo, astronomo, compositore, e la nomea di genio non poté restarsene all’isola di Reichenau. “Sulla strada maestra, sulla riva di fronte, transitavano continuamente viaggiatori italiani, greci, irlandesi e islandesi”.

Il nome di Hermannus Contractus toccò i confini d’Europa. Così, il sapere che egli portava con sé divenne, più che motivo di gioie, di aggiuntive sofferenze alla condizione esistenziale. Richiesto insistentemente dagli altri monasteri, quel monacello che “stentava perfino a star seduto nella sedia che era stata fatta appositamente per lui”, scomodo e dolorante anche sdraiato sul letto, fu costretto a intraprendere ripetuti viaggi, a tenere lezioni in lungo e in largo, per voto d’obbedienza alla veste che portava. Non tardò che anche i potenti della terra ne restassero affascinati. Imperatore e Papa, come nuovi Magi, vennero a colui che era, al contempo, tanto il Cristo indifeso della culla quanto il Cristo piagato della croce: l’omino detto da tutti Miraculum saeculi. Appellativo che l’umiltà di benedettino non avrebbe mai accettato.

“Ermanno, l’infimo dei poveretti di Cristo e dei filosofi dilettanti, il seguace più lento di un ciuco, anzi, di una lumaca”. Così si presentava, nella prefazione del De mensura astrolabii che, assieme al De utilitatibus astrolabii, argomenta su quello strumento astronomico, complesso come un orologio, che egli stesso si dedicò a costruire e perfezionare. Diversi saggi gli si attribuiscono. Il De musica, il De monchordo, l’Opuscula musica, in cui inventò un nuovo sistema di scrittura per le note musicali edi loro intervalli. Il De octo vitiis principalibus, testo didattico-poetico. La Cronaca della Svevia, sulle gesta di Corrado II il Salico ed Enrico III il Nero. Il Chronicon, saggio storiografico a coprire la storia del mondo dalla nascita di Gesù Cristo fino ai suoi giorni, che poté scrivere avendo accesso a biblioteche più avanti distrutte dall’odio o dall’oblio. E potremo anche non aver letto alcuno di questi scritti, eppure conoscerne l’opera, la quale vanta testi e musiche di inni religiosi che ancora risuonano nelle nostre chiese. E magari intonare ogni giorno il Salve Regina, ignari che questa preghiera, melodia in canto fermo placida come ninna-nanna materna, tonante come inno di battaglia, capolavoro inattaccabile dal taglia e cuci modernista, proprio da lui venne composta. E come Michelangelo scalpellò il nome sulla Pietà, troppo bella affinché se ne dimenticasse lo scultore, così fece Ermanno nel Salve Regina, ponendo la firma tra le righe… “Ad te suspiramus / gementes et flentes / in hac lacrimarum valle”. Poiché fino ad allora nessuno aveva così esattamente reso i dolori della condizione umana. Poiché nient’altro che questo, una valle di lacrime, fu l’esistenza del genio di Reichenau.

Aveva raggiunto i quarantuno anni quando, alla fine dell’estate 1054, si ammalò di pleurite e “trascorse quasi dieci giorni in continue e forti tribolazioni”. Racconta il biografo Bertoldo: “Alfine un giorno, nelle prime ore del mattino, subito dopo la Santa Messa, io, che egli considerava il suo più intimo amico, mi recai da lui e gli chiesi se si sentisse un poco meglio”. A queste parole replicava che “il mondo futuro, che non avrà termine, e quella vita eterna, sono divenuti indicibilmente desiderabili e cari, così che io considero tutte queste cose passeggere non più dell’impalpabile calugine del cardo”. Aggiungendo: “Sono stanco di vivere”. La disperazione di Bertoldo lo meravigliò, lo fece arrabbiare. Da uomo medievale vero, Ermanno rimbrottò il confratello: “Ricordando ogni giorno che anche tu dovrai morire – gli disse prima di spirare – preparati con ogni energia per intraprendere lo stesso viaggio. Poiché, in un giorno e in un’ora che tu non sai, verrai con me, con me, il tuo caro, caro amico”.

Le spoglie furono seppellite ad Altshausen, nelle terre di quell’insigne casato “di gentiluomini e di alti prelati” cui egli apparteneva. “Eppure – rimarca una nota biografica – di nessuno di costoro si è serbata durevole memoria, salvo che del piccolo essere che venne al mondo orribilmente deforme”. E oggi, 24 settembre, lo ricordiamo nella celebrazione che la Chiesa di Roma ne fa, quale Beato.

 

 

 

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