La Messa apostolica, un convegno del 2010 e tante domande

di Rita Bettaglio

Nel dicembre 2010, esattamente dal 16 al 18, a due passi dal colonnato del Bernini si tenne un convegno sul Concilio Vaticano II, organizzato dai Francescani dell’Immacolata, istituto allora fiorentissimo e ricco di acuti intelletti, guidato da padre Stefano Manelli. Al convegno parteciparono in qualità di relatori i migliori ingegni teologici dell’epoca: monsignor Brunero Gherardini, monsignor Negri, monsignor Schneider, padre Manelli, padre Siano, padre Lanzetta e molti altri relatori importanti; tra il pubblico illustri prelati quali il cardinal Brandmüller.

Questo convegno fu e resta importantissimo non solo per il suo contenuto ma perché è la fotografia, l’icona, della primavera – questa volta veramente primavera – fiorita durante il pontificato di Benedetto XVI. Nel 2007, solo tre anni prima, era stato promulgato il motu proprio Summorum Pontificum che aveva finalmente ristabilito la giustizia, riconoscendo due forme del rito romano, quella del messale del 1962, la Messa cosiddetta tridentina, che in realtà si potrebbe (meglio) chiamare apostolica, e il rito riformato del 1969, noto come Novus Ordo Missae. Fu un atto di pace liturgica, auspicato da molti, che Benedetto XVI finalmente compì e le cui ragioni solo Dio, che vede nelle anime, conosce. Quel Dio che ispirò a Benedetto XVI la felice espressione: “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”, contenuta nella lettera ai vescovi in occasione del Summorum Pontificum.

Quest’atto avvierà una nuova primavera seppure il motu proprio abbia incontrato molti ostacoli e resistenze nella sua applicazione, che rimase parziale. Ci domandiamo, da semplici fedeli: ora che questo motu proprio è stato stralciato e buttato come il foglio vecchio di un calendario, se Papa Benedetto non avrebbe potuto dare al suo atto giusto e benedetto da Dio (“Dai frutti li riconoscerete”) un valore perenne, scrivendolo in modo che nessuno lo potesse poi stralciare maldestramente, com’è avvenuto. Lo domandiamo ai canonisti perché noi non siamo in grado di rispondere.

Ebbene, il motu proprio che concedeva a ogni sacerdote cattolico la facoltà di celebrare in entrambe le forme del rito romano, pur dato timidamente e senza la forza di assicurarne l’applicazione, fu foriero di grandi frutti. Un solo punto a noi sembra mostri le difficoltà insite e soggiacenti a questa disposizione: il riconoscimento di due forme all’interno del Rito romano portava con sé, senza alcun dubbio, la necessità che entrambe fossero insegnate ai chierici nei seminari diocesani. Questo non fu fatto, tranne rare eccezioni, fra cui la diocesi di Albenga (e il suo vescovo ne fece pesantemente le spese).

Il mancato insegnamento di entrambe le forme del rito romano della Santa Messa nei seminari diocesani e nelle facoltà teologiche, così come il rifiuto ad accogliere vocazioni interessate alla Tradizione, non fu senza conseguenze: i seminari diocesani, già in crisi, si svuotarono ulteriormente e oggi vediamo che sono veramente ridotti al lumicino.

Ma ritorniamo a quella assise del 2010: il pensiero corre alle persone che intervennero, alla brillantezza delle loro relazioni e dei loro ingegni, alla vastità della loro preparazione teologica e alla loro fede viva e solida.

Domandiamoci: nel 2023, a poche settimane dalla morte di Benedetto XVI, un anno e mezzo dopo la promulgazione del motu proprio Traditionis custodes da parte di Papa Francesco, cosa resta di quella primavera?

Noi vediamo i frutti, perché quella primavera nel frattempo divenne estate e diede risultati: vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa maschile e femminile, famiglie cattoliche aperte al dono della vita, scuole realmente cattoliche e molto altro. Pur se la semina fu contrastata dal nemico che gettava via di nascosto il buon seme, i frutti dei centri di Messa antica ci furono e ci sono. Non in tutti i paesi è stato uguale. L’Italia resta forse un po’ fanalino di coda per molte ragioni, non ultimo il fatto che la struttura territoriale delle parrocchie ancora tiene (sempre meno) e noi italiani abbiamo mandato giù qualunque cosa per amore delle nostre parrocchie.

Il Signore nella Sua Provvidenza ci ha portato via molti tra gli ingegni più brillanti della Chiesa. In questi anni ha chiamato a Sè molti Suoi devoti servitori: monsignor Gherardini, monsignor Negri, monsignor Livi, il cardinal Caffarra, il cardinale Castrillón Hoyos, il cardinale Pell, per dire solo quelli che mi sovvengono per primi. Essi facevano da punto di riferimento, col loro insegnamento erano un porto sicuro per i fedeli smarriti in questo periglioso pelago e per i sacerdoti che silenziosamente resistevano all’onda distruttrice delle idee mondane e moderniste, incubo tossico e cancro della Chiesa.

Perché, Signore? Perché hai abbattuto la cinta della tua vigna e ogni viandante ne fa vendemmia? Non ne conosciamo il motivo.

Tutto ciò che Dio permette, lo sappiamo per certo, è per la nostra correzione e santificazione, attraverso una purificazione talvolta dolorosa. Non perdiamo certo la speranza anche se il cielo è ogni giorno più cupo. Se il Signore ci ha tolto il sostegno di tanti validi uomini di fede e di Chiesa ed ha lasciato la sua Sposa in mano a personaggi mediocri, ignoranti, mondani, talora senza scrupoli, un motivo ci sarà. Non lo conosciamo e non ci diamo pace a vedere il Corpo Mistico di Cristo svilito e svenduto al mondo che con soddisfazione lo divora.

“Cosa resterà di questi Anni Ottanta, afferrati e già scivolati via?”, cantava Raf nel lontano 1989.

A noi resta il buon seme della Tradizione cattolica e i suoi frutti copiosi, la Santa Messa dei Santi, la promessa di Nostro Signore: non praevalebunt. Tanto basta.

 

 

 

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