Come essere figli della Chiesa in un tempo di prova. Una lezione più che mai attuale

Patientia pauperum non peribit in finem

Salmo 9

di Aldo Maria Valli

“Sarebbe inutile cercare di nasconderci il fatto che la Chiesa è sottoposta dal suo Signore a una prova molto dura; una prova del tutto nuova perché i nemici che le fanno la guerra sono nascosti nel suo seno”.

Correva l’anno 1975 quando padre Roger-Thomas Calmel (1914-1975), domenicano francese e filosofo tomista che diede un immenso contributo alla lotta per la Tradizione cattolica, annotava queste osservazioni (sulla rivista Itinéraires), oggi più attuali che mai.

Padre Calmel citava Paolo VI (“La Chiesa attraversa, oggi, un momento di inquietudine. Taluni si esercitano nell’autocritica, si direbbe perfino nell’autodemolizione”, come disse agli studenti del Pontificio seminario lombardo, ricevuti in udienza a Roma il 7 dicembre 1968) e commentava: “Dell’espressione usata da Maritain in Le Paysan de la Garonne, ‘apostasia immanente’, verifichiamo ogni giorno la terribile esattezza. Sono innumerevoli i fatti che ci fanno avvertire le carenze dell’autorità gerarchica, il sorprendente potere delle autorità parallele, i sacrilegi nel culto, le eresie nell’insegnamento dottrinale”.

E su queste osservazioni, che fotografano quanto stiamo vedendo anche noi oggi, innestava la riflessione riguardante la questione dell’obbedienza: “Di fronte a questa prova molti sacerdoti e fedeli si sono messi dalla parte di quella che chiamano obbedienza. In realtà non obbediscono davvero, perché non eseguono veri ordini che offrirebbero piene garanzie giuridiche […]. La sfortuna, la grande sfortuna, è che, anche senza volerlo, la loro condotta fa il gioco della sovversione. Hanno ceduto a innovazioni disastrose; innovazioni introdotte da nemici nascosti, trasformazioni equivoche e versatili, che non hanno altro scopo effettivo se non quello di minare una certa e solida tradizione, debilitarla e infine, senza dare l’allarme, cambiare la religione a poco a poco”

È il fenomeno dell’auto-adeguamento, non condiviso però da tutti. Infatti, “ci sono fedeli, sacerdoti secolari e regolari, suore, rari vescovi, che avendo capito, più o meno rapidamente, più o meno profondamente, che le innumerevoli innovazioni procedevano dall’intenzione rivoluzionaria del nemico, e di un nemico che opera sul posto, hanno deciso, per attaccamento alla Chiesa, di mantenere ciò che era praticato, ciò che era insegnato prima del periodo molto amaro e molto pericoloso dell’autodemolizione. Per la Messa si attengono al rito, alla lingua, al formulario della Messa tradizionale cattolica, latina e gregoriana; se devono recitare il breviario usano sempre quello che era in uso universale prima di Giovanni XXIII; mantengono la versione millenaria dei salmi, che precede la ridicola revisione gesuitica del cardinale Bea; continuano a dire il Padre nostro e l’Ave Maria come è stato loro insegnato; indossano ancora la tonaca del loro stato clericale o la tunica della loro professione religiosa; insegnano il catechismo di san Pio X; e come nella loro predicazione non confondono la vita di grazia con lo sviluppo economico, così nello studio dottrinale non si lasciano fuorviare dalla chimera di una riconciliazione dell’insegnamento della Chiesa con le filosofie moderne. Infine, ritengono che nell’ordine sociale e politico la Chiesa approvi e favorisca solo una città conforme alla morale naturale e riconosca i diritti di Dio e del suo Cristo; sono certi che la Chiesa non mette e non metterà mai sullo stesso piano una società e delle leggi rivoluzionarie da un lato, e una società conforme alla legge naturale e cristiana dall’altro. La Chiesa condanna la Rivoluzione e la condannerà sempre, che si chiami liberalismo o socialismo”.

Ripeto: era il 1975, solo dieci anni dopo la fine del Concilio. Ma tutto era chiaro per chi voleva vedere. E padre Calmel aggiungeva: “I cristiani che sono consapevoli dell’ambiguità delle recenti innovazioni e delle intenzioni perverse che le sottendono, e che le hanno rifiutate per attaccamento alla fede e alla Chiesa, li dobbiamo accusare di disobbedienza?… Comprendiamo piuttosto che di fronte all’angosciante mancanza di autorità, di fronte alla spaventosa incertezza delle direttive e alla non plausibile molteplicità dei cambiamenti, lungi dal porsi come arbitri, si attengono, per così dire, a un arbitrato, a un insieme di leggi e consuetudini che si sono perpetuate fino a Giovanni XXIII, accolte pacificamente ancora una quindicina di anni fa, che non possono che essere del tutto sicure, essendoci in esse la forza della tradizione in eodem sensu et eodem sententia [secondo lo stesso significato e lo stesso giudizio, NdR]. I cristiani di cui parlo pregano con tutta l’anima Cristo nostro Signore, che è il nostro capo e re invisibile, di far sentire la potenza e la santità del suo governo sul corpo mistico attraverso un capo visibile, un pontefice romano che, anziché lamentarsi dell’autodemolizione, eserciti il suo supremo ufficio con chiarezza e soavità, e confermi la tradizione”.

“Nell’attesa di questo giorno – scriveva ancora il domenicano –, non vedo cosa possa autorizzare certi cristiani ad accusare di disobbedienza i fedeli o i sacerdoti che mantengono la tradizione, e ancor meno vedo cosa possa permettere di accusarli di non essere più figli della Chiesa”.

Padre Calmel fotografa anche la situazione in cui si trovano oggi tanti fedeli attaccati alla tradizione: “La posizione di questi fedeli è a dir poco scomoda. Si rifiutano di scendere a compromessi; si rifiutano di colludere con una Rivoluzione che è certamente modernista. Sociologicamente sono tenuti a bada. A prescindere dai loro meriti, le posizioni di responsabilità importanti non fanno per loro. Non se ne lamentano, sapendo di non poter testimoniare senza essere esposti, a seconda del luogo e della persona, a biasimo, sospetto e segregazione. Non si lamentano di pagare questo prezzo per rimanere figli della Chiesa. Se esitate a seguirli, almeno non tirate loro le pietre”.

Questi cristiani che custodiscono la tradizione e non cedono alla Rivoluzione, spiegava il padre Calmel, non si comportano così per il gusto del settarismo né dell’ostentazione. Stando al loro posto, cercano di conservare ciò che la Chiesa ha trasmesso loro, poiché sono sicuri che nulla di ciò che è fondamentale può essere revocato. Gli scopi sono evidenti: la gloria di Dio e la salvezza delle anime.

“È per amore di Dio e per il bene delle anime, prima di tutto delle nostre anime, e non per uno spirito di contesa o di zelo amaro, che cerchiamo di conservare. Così facendo non dubitiamo di essere figli della Chiesa. Non siamo affatto una piccola setta marginale; siamo dell’unica Chiesa cattolica, apostolica e romana. Ci stiamo preparando al meglio per il giorno benedetto in cui l’autorità si troverà in piena luce e la Chiesa sarà finalmente liberata dalla nebbia soffocante della prova attuale. Anche se quel giorno è ancora molto lontano, cerchiamo di non venir meno al dovere essenziale di santificarci; lo facciamo mantenendo la tradizione con lo stesso spirito con cui l’abbiamo ricevuta, uno spirito di santità”.

I modernisti vogliono che noi tradizionali ci sentiamo “meno Chiesa”, ma non è affatto così. “Non c’è nulla di scismatico nella scelta tra riti, preghiere e predicazione, perché la Chiesa stessa ci ha insegnato a fare questa scelta”.

Calmel ricorda le parole sconsolate di un amico (anno 1969), Lous Daménie: “Fino a poco tempo fa andavo a Messa quasi ogni giorno e all’ora che meglio si adattava ai miei movimenti. Ero sicuro della Messa che avrei trovato, indipendentemente dalla chiesa in cui andavo. Ma ora vedo così tante variazioni e differenze, e soffro così tanto per questi riti di comunione casuali e persino sacrileghi, questi riti sviliti, contrari alla fede nella Presenza Reale, contrari alla funzione riservata al sacerdote. In una parola, trovo dappertutto e così spesso Messe protestanti, Messe che non portano né il carattere della fede né quello della pietà. E così sono costretto ad astenermi. Dopo tutto, è la Chiesa che mi ha insegnato a fare quello che faccio: a non fare un patto con ciò che distrugge la fede. Vado a Messa solo molto raramente durante la settimana. Chi oserebbe dire che il cristiano di esemplare lealtà che ha preso questa dolorosissima decisione ha cessato di essere un figlio della Chiesa? In realtà ha fatto questa scelta proprio perché amava la Chiesa come un figlio; perché sapevo che la nostra Madre Chiesa considera abominevoli i riti ambigui. Una Chiesa la cui liturgia è ambigua fa un torto al suo Sposo, il Sommo Sacerdote, ed espone i suoi fedeli a un pericolo mortale. Vorrei che tutti i nostri fratelli cattolici che potrebbero essere tentati di attribuire le nostre scelte a qualche passione settaria, a qualche attrazione per lo scisma, considerassero che è proprio per evitare una rottura della disciplina e un decadimento della fede, è per rimanere nel cuore della santa Chiesa, che confermiamo ciò che la tradizione ha mantenuto”.

Daménie aggiungeva: “Se le nostre scelte sui riti della Messa, i catechismi, le sepolture o i battesimi aprissero una breccia scismatica o procedessero da una radice diabolica di ribellione, sarebbe opportuno che fossimo colpiti e condannati giuridicamente. Invece non lo siamo. È vero che siamo guardati con sospetto, spesso in modo sgarbato, ridicolizzati o disprezzati; ma questo non ha nulla a che fare con le sanzioni legali”.

Osservasse la situazione oggi, Daménie vedrebbe che ormai siamo arrivati alle proibizioni “legali” e alle sanzioni.

Calmel dichiarava: “È perché siamo Chiesa, è per rimanere suoi figli docili e amorevoli, che abbiamo scelto di non camminare nella direzione di tutte queste innovazioni, ben sapendo che il loro obiettivo non dichiarato ma certo è la demolizione, l’autodemolizione. Innovazioni che si moltiplicano senza misura e senza freno, e non sono tenute sotto controllo dalle autorità ecclesiastiche”.

Le conclusioni del padre Calmel sono all’insegna della speranza cristiana: “Tutto ciò che crediamo della Chiesa e della sua stabilità vivente ci persuade che, senza troppi indugi e in modo chiaro, approverà il nostro atteggiamento e lo consacrerà con la sua autorità. Non pensiamo, non diciamo, che rifiuterà ogni adattamento, benedirà la sclerosi, canonizzerà l’intorpidimento; al contrario, diciamo che, per effetto della sua santa volontà di far valere la tradizione per ciò che realmente è, rifiuterà con grande chiarezza le ambigue innovazioni che la fanno sbandare, che esauriscono e distruggono la tradizione con il pretesto di ripristinare la sua purezza primitiva o la sua ampiezza missionaria. Come se, nonostante la debolezza degli uomini di Chiesa, ci fosse un’antinomia tra vita e tradizione, tra tradizione e zelo, tra tradizione e vita evangelica. Speriamo in pace, e non nel sonno ma in attenta fedeltà, che la Chiesa, senza troppi indugi, alzi la sua voce potente e porti decreti efficaci per far sapere che non appoggia catechismi dubbi, Messe protestanti, l’abolizione pratica del latino nella liturgia, né la soppressione pratica del canone romano tradizionale latino, che non appoggia quel rito tendenzioso della comunione che vanifica subdolamente la fede nell’Eucaristia e nel sacerdozio. E non parleremo qui dell’indisciplina religiosa e dell’anarchia clericale che sono un oltraggio al sacerdozio e un insulto ai santi fondatori”.

Di nuovo, colpisce la chiarezza con cui Calmel fotografa ciò che noi oggi tocchiamo con mano. Ma egli non aveva ancora visto il pontificato di Francesco, non aveva letto, per esempio, Amoris laetitia o Traditionis custodes. In un certo senso, in lui lo spazio della speranza poteva essere più grande rispetto alla nostra situazione odierna. Scriveva: verrà il giorno in cui la Chiesa, che oggi è sotto l’occupazione nemica, condannerà apertamente le innovazioni moderniste e le cancellerà, svelando il disegno delle “autorità occulte che, dalle profondità di qualche covo massonico, tirano abilmente i fili e introducono nella pratica la religione anticristica dell’uomo in evoluzione”. La fede ci dice che sarà così, ma i modernisti sono andati molto avanti nell’opera di distruzione.

Nel frattempo, coraggio e coerenza. Le “misure ambigue”, il “rito mutevole”, il “catechismo informe”, la “morale senza precetti”, la “disciplina religiosa senza obblighi”, l’autorità gerarchica “spersonalizzata” (come non pensare al sinodo?): nulla di tutto ciò “appartiene veramente alla Chiesa”. Di conseguenza non dobbiamo obbedirvi, “perché siamo figli della Chiesa e intendiamo rimanere tali”. Dunque, “manteniamo la tradizione con pazienza”. Dobbiamo esserne certi: “Le forze moderniste occupanti non potranno imbavagliare le sacre labbra di nostra Madre ancora per molto”.

Preghiamo perché sia così. E ringraziamo i testimoni, come il padre Calmel, che subito dopo il Concilio Vaticano II videro con lucidità a che cosa stava andando incontro la Chiesa e ci suggerirono subito il comportamento da tenere.

 

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