Manomissioni, revisionismo teologico, luoghi comuni e abusi liturgici nel nuovo rito della Santa Messa

di Luciano Pranzetti

Il Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962 – 8 dicembre 1965), pensato già da Pio XI e da Pio XII come dogmatico, voluto e realizzato da Giovanni XXIII, connotato invece come “pastorale” e portato a termine da Papa Paolo VI, si pone, per metafora, come una porta che chiude un ambiente – la storia della Chiesa cattolica preconciliare – e si apre a uno nuovo – la Chiesa postconciliare. La portata di questa assemblea “ecumenica”, cioè dell’ecumene – comunità universale dei fedeli – lungi dall’aver suscitato una seconda Pentecoste, come Giovanni XXIII sperava che fosse, ha – per ammissione dello stesso Paolo VI – provocato delle crepe, delle fessure attraverso le quali “sembra che il fumo di Satana sia entrato nel tempio di Dio”. Sensazione errata poiché, come dimostrerà la successiva storia, il fumo luciferino non è entrato dall’esterno ma è uscito dall’interno del tempio.

Non è nell’economia di questo nostro studio trattare del CVII, disponibili essendocene ottimi e approfonditi tra i quali segnaliamo Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, di Roberto de Mattei, e Aspetti critici del Concilio Vaticano II. Conversazioni con don Ennio Innocenti.

Nostro intento è quello di indagare e render noto un particolare della complessiva rovina che – causa le novità che il CVII presumeva di recare, due fra tutte, e cioè: l’antropocentrismo e l’apertura della Chiesa allo spirito del tempo, vale a dire alla cultura moderna – s’è abbattuta, con esiti difficilmente riparabili, sopra il centro focale del cattolicesimo: il mistero eucaristico della Santa Messa.

La cosiddetta riforma del Vetus Ordo Missae – vecchio ordinamento della Messa, id est: rito tridentino – voluta da Papa Paolo VI è l’argomento su cui abbiam pensato di soffermarci onde evidenziarne gli stravolgimenti liturgici, le sostituzioni terminologiche di taluni passi della Scrittura, le infiltrazioni della cultura massonica che, sottilmente, hanno determinato un capovolgimento dei valori nella coscienza dei fedeli tale da determinare il trionfo del relativismo teologico, morale, liturgico, ermeneutico.

Il 3 aprile del 1969, Papa Paolo VI, con la Costituzione apostolica Missale Romanum, riformava il rito tridentino della Santa Messa rimovendo il latino con l’imporre le lingue nazionali, cancellando rubriche e inserendo novità rituali. L’intera operazione, diretta da mons. Annibale Bugnini – in lezzo di massoneria (23/4/1963, matricola di loggia 1365/75, BUAN, cfr. OP 12 settembre 1978)  e con la illegittima e inquinante partecipazione di sei “esperti” protestanti – ha deformato l’identità della Messa riducendola a “sinassi” del popolo di Dio, cioè come assemblea del popolo, smentendone il vero e unico significato di sacrificio, e facendo dell’assemblea stessa il referente privilegiato al punto che molti sacerdoti rinunciano alla celebrazione del sacro rito quando si verifica l’assenza di pubblico.

Prima di passare in rassegna le voci in tema, è necessario definire il concetto e la dinamica del termine liturgia, onde evitare fraintendimenti e inesattezze.

Leiturghìa: dal greco leiton, luogo di affari pubblici (derivato a sua volta da laos, popolo) e ergon, opera, che nell’edizione biblica dei LXX assume il significato di “servizio al tempio’” È il complesso tradizionale delle norme che scandiscono i tempi, le formule, i gesti, i simboli, i paramenti di un rito religioso officiato da un celebrante legittimato a rivestire dignità di sacerdote, intermediario tra Dio e l’uomo e stabilisce, in termini inequivocabili, ciò che spetta di competenza all’officiante e ciò che pertiene alla comunità dei fedeli che vi assiste.

Il documento che analizza in profondità e altezza una parte della riforma liturgica conciliare è,senz’altro il Breve esame critico del Novus Ordo Missae presentato al Pontefice Paolo VI dai cardinali Ottaviani e Bacci il giorno della festività di Corpus Domini 1969. Ritenendolo di stretta competenza specialistica ne abbiamo, per buona catechesi, estratto il succo a beneficio di quanti non possono apprenderne le argomentazioni e, pertanto, abbiamo fatto nostri taluni aspetti non compresi nel predetto documento ma individuati per propria personale riflessione certi di aver fornito uno strumento atto a comprendere quanto esposto. Vediamo, allora, quanti e quali luoghi comuni e quali errori essi arrecano nella vigente liturgia cattolica riferita al rito della Santa Messa riformata.

Confesso a Dio onnipotente

Nel Vetus Ordo Missae – il rito tradizionale – l’officiante, nella parte iniziale della celebrazione, invitava i fedeli a riconoscere i proprî peccati recitando, in latino, il “Confiteor Deo Omnipotenti”, cioè “Confesso a Dio Onnipotente”, col percuotersi con il pugno tre volte il petto, corrispondente al triplice “Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”, per mia colpa, mia colpa, mia massima colpa. Tale rituale, sbianchettati, con la devastante riforma di Paolo VI, i nomi della Beata Vergine Maria, di san Michele Arcangelo e di altri santi a cui ci si rivolgeva allo scopo di ottenerne intercessione e perdono, è, seppur mutilo e in lingua volgare, rimasto al suo posto.

Sennonché, al momento di percuotersi il petto, i fedeli dell’odierno “popolo di Dio”, così come il celebrante, non più si battono col pugno in segno di accusa e di dolore , ma, pacatamente e con morbida noncuranza, portano tre volte al petto la mano aperta che, chiaramente, niente ha a che vedere col suggerito invito a percuotersi dacché simile gesto reca seco significati altri da quello richiesto, quasi fosse attestazione di una una coscienza a posto, o espressione di pace e serenità o volteggio di  leggiadra carezza.

Insomma, si è capito che il “cristiano adulto”, nato dal Concilio Vaticano II, può permettersi un’autostima tale da considerarsi, davanti a Dio, immune da colpe gravi per le quali non è il caso di percuotersi, analogamente al fariseo della parabola, ritto davanti all’altare e lieto di ritenersi senza peccato (Lc. 18, 11/12). Eppure, il salmo 142, 2 – parola del Signore – afferma che “nessun vivente è giustificato al cospetto di Dio”. Ora, se non basta percuotersi il petto col pugno per sentirsi giustificati, figuriamoci un tocco leggero del palmo della mano.

La verità è che i segni sacri, tali perché univoci, e su cui è fondata e articolata la liturgìa, sono evaporati a vantaggio di un simbolismo polisemico “fai-da-te” che di sacro nulla possiede e niente esprime.

Banalità, banalità, banalità.

Gloria

Narra san Luca che, alla nascita di Gesù, a Bethleem, il cielo sfavillò di luce e una miriade di angeli lodò Dio, cantando “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (Lc. 2, 13/14). Orbene, i novatori della moderna esegesi biblica hanno messo sotto critica la dizione “di buona volontà’” ritenuta fuorviante dacché Dio dona la sua pace a tutti. Ed ecco, allora, apparire la nuova versione che così recita: “Gloria… e pace in terra agli uomini che Egli ama” (I quattro Vangeli, Mondolibri, pag. 76). I soliti correttori della parola di Dio, coloro che ritengono un errore dell’evangelista, arzigogolano che il Signore non può discriminare le sue creature concedendo la sua pace ai soli uomini di buona volontà, ma la dà tutti perché tutti sono suoi figli. C’è, in questa fregola di revisionismo biblico-teologico, la convinzione che i quattro sacri scribi abbiano, talora, riportato a orecchio e, perciò, modificandole, parole ben altre proferite da Cristo e, in questo caso, dagli angeli.

Ora, stando al Magistero cattolico, la Sacra Scrittura, quale Parola del Signore, gode del privilegio dell’infallibilità e dell’inerranza, categorie che trovano fondamento nell’affermazione di Gesù: “Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno “(Mt. 24, 35). Su tale fondamento viene chiarito chi debba essere considerato figlio di Dio, secondo quanto scrive san Giovanni nel prologo: “A quanti l’hanno accolto (Gesù) ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv. 1, 12). Tale ultima espressione spiega perché gli angeli abbiano augurato la pace ai soli uomini di buona volontà, a quelli cioè che avrebbero accolto Cristo come il Salvatore. Il testo greco recita: “Dòxa en ypsìstois Theò, kài epì ghès eirène en anthròpois eudokìas” laddove il termine eudokìa reca seco il significato primario di buona volontà, e poi consenso, approvazione, favore, piacere, delizia (Franco Montanari, Vocabolario della lingua greca, pag. 1089, ad vocem). San Girolamo, quando redasse la sua Vulgata, giustamente la voltò in latino secondo la nota lezione: “Gloria in altissimis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis, che in italiano suona: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Versione canonica che – ripetiamo – gode, come ogni pericope della Sacra Scrittura, del privilegio della inerranza. Ma c’è sempre qualcuno che ne sa più del Signore.

Consacrazione

È il momento trascendente, e centrale, del rito in cui si compie il mistero della Transustanziazione per la quale il pane e il vino, pur mantenendo apparenza di specie, diventano vero Corpo e vero Sangue di Cristo. Perché si realizzi tale mistero, il sacerdote celebrante prega il Signore Dio di santificare “questi doni con la rugiada del tuo Spirito” perché diventino il Corpo e il Sangue del Figlio e, successivamente pronuncia la formula che dice: “Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, offerto per voi in sacrificio/Questo è il calice del mio Sangue sparso per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di Me”. Subito dopo, il celebrante intona “Mistero della fede” a cui i fedeli rispondono “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione, in attesa della tua venuta”.

Figurano, in questo tratto del rito, quattro deprecabili luoghi, e cioè: un’ambiguità oscura e pericolosa, uno stravolgimento della Parola di Cristo, un abuso e un’eresia. Vediamoli:

a – Il Liber mutus è un testo della tradizione ermetica fatto proprio dalla massoneria. Pubblicato nel 1667 – successivo alla Atalanta fugiens di Michael Maier del 1617 – si compone di quindici tavole, con commento, che illustrano le fasi della Grande Opera (Opus Magnum) attraverso le quali, dallo stato Nero, si passa al Bianco per giungere al Rosso ove il piombo – materia spuria, opaca – diventa oro. Si tratta, naturalmente, di un codice simbolico per indicare la trasformazione dell’uomo materiale in una realtà spirituale. Nella terza tavola si osservano un uomo e una donna che di mattina strizzano cinque lenzuoli, stesi nella notte, per raccogliere, in una bacinella, la rugiada e le tavole successive ne illustrano gli stadi della cottura, della distillazione e della evaporazione. Il resto è un prolisso processo metamorfico entrato nella liturgia massonica e gnostica a indicare, nella rugiada, le grandi acque dell’universo, origine della vita.

Con sì fatti elementi, l’aver inserito nell’epiclesi – la preghiera con cui si chiede la trasformazione sostanziale del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù – questa sezione alchemica, è aver mescolato alla santità del rito cattolico una parte della luciferina dottrina massonica e, con ciò, aver volontariamente contaminato il cuore stesso del mistero eucaristico. Anche perché la così detta “rugiada del tuo Spirito” è un prodotto dello Spirito, mentre, con la precedente locuzione “effusione del tuo Spirito” si ha che è lo stesso Spirito, e non un suo derivato, a intervenire nel mistero della Transustanziazione. Si è insinuata, in tal modo, l’impressione che tutto il complesso della Consacrazione altro non sia che un rito magico, teurgico, così come l’intende la massoneria.

Il sospetto che la mano della “Fratellanza tre puntini” abbia gestito l’intera operazione revisionistica non è, poi, così peregrino visti gli ultimi contatti intercorsi tra la Gerarchia cattolica e il Goi (Grande Oriente d’Italia) resi pubblici nella lettera del cardinale Ravasi Cari fratelli massoni del 14 febbraio 2016.  E che dire, d’altronde, di Papa Francesco Bergoglio, iscritto quale socio onorario al Rotary Club, ramo della massoneria nordamericana?

b – Il testo originale greco non dice “per tutti”, ma “per molti, perì pollòn (Mt. 26, 28), ypér pollòn (Mc. 14, 24) prevedendo, Cristo, che da questo Sacramento non tutti gli uomini avrebbero, per propria volontà, tratto profitto. Ma la “nuova teologia”, sorta dall’eretico Concilio Vaticano II e confermata dai Papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco I, stabilisce che tutti gli uomini sono stati giustificati, e salvati gratuitamente senza pagar dazio, dalla morte di Gesù, compresi i seguaci delle altre religioni che Giovanni Paolo II afferma essere incluse nel mistero dell’Incarnazione di Cristo quando scrive: “Il Verbo Incarnato è dunque il compimento dell’anelito presente in tutte le religioni dell’umanità” (Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, 10 novembre 1994, n. 6). Pertanto, sfacciatamente si corregge il Verbo di Dio – Via, Verità, Vita – il quale aveva affermato: “Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mt. 24, 35).

Ma Colui che è Parola di Dio – Verbum Dei – non aveva fatto i conti con gli aggiornati dragomanni correttori di bozze conciliari che, sapendone più di Lui, vi hanno tirato un frego svaporando quella verità divina per sostituirla con una accezione di esclusivo dominio antropologico. Una menzogna, un tradimento, un sacrilegio oltre che una crassa ignoranza del costrutto semantico dacché se fosse stata intenzione di Gesù estendere a tutti il beneficio dell’Eucaristia non sarebbe stato necessario premettere per voi in quanto gli Apostoli erano già compresi nel tutti.

A conferma di quanto sosteniamo, c’è la Parola di Gesù che, in altra occasione, adotta lo stesso modulo, come quando afferma: “Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti(Mc. 10, 45) dove il testo greco recita “antì pollòn che san Girolamo traduce con “pro multis“.

E ancora: “Egli è qui per la rovina e la resurrezione di molti in Israele” rivela Simeone (Lc. 2, 33). Il testo canonico, in lingua greca, così recita: “idù kéitai eis ptòsin kai anàstasin pollòn en to Israel”, che san Girolamo traduce con: “Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionm multorum in Israel”. Ulteriore prova ci viene da questa altra affermazione di Gesù: “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Mt. 22, 14) che, come si legge nella versione greca – unica ritenuta canonica, ripetiamo – così dice: “Pollòi gar èisin kletòi, olìgoi de eklektòi” e resa in latino con: “Multi enim sunt vocati, pauci vero electi”. Potremmo continuare ad escutere altre pericopi in cui, chiaramente e con forza, si afferma la salvezza e i mezzi per conseguirla – vedi l’Eucaristìa – non per tutti ma soltanto per molti.

Nell’orazione V – Preghiere di santa Brigida (per un anno) – si legge: “Rammentati, o Gesù, specchio di eterna chiarezza, dell’afflizione che avesti quando, veduta la predestinazione di quelli eletti che, mediante la tua Passione, dovevano salvarsi, prevedesti ancora che molti non ne avrebbero profittato”. Da ciò si deduce che, evidentemente, il Figlio di Dio, distinguendo i destinatari del Sacramento in voi e in molti, intendeva dire ciò che disse, ma per la truppa degli ermeneuti vaticansecondisti, gonfi di scienza e di presunzione, non sapeva ciò che diceva.

E che dire del participio passato “sparso” che, isolato e autonomo, dà l’idea di un fatto trascorso mentre la dizione greca “ekchynnòmenon” e la latina “effundetur” indicano un futuro semplice passivo, cioè “sarà sparso”? Certamente, tale pasticcio non inficia il significato ultimo di quanto Nostro Signore Gesù intende ma resta tuttavia quale prova di una sprovveduta – o subdola? – manovra lessicale.

c – La liturgia – come sopra s’è scritto – è scienza che regola parole, tempi, gesti, paramenti del rito in rapporto alla divinità, e stabilisce precise e nette norme che descrivono il ruolo del celebrante e della comunità dei fedeli che assistono al mistero. Fra le varie competenze ascritte al celebrante v’è – in forza del sacerdozio ministeriale sancito dal sacramento dell’Ordine – quella, sola, esclusiva ed inalienabile di pronunciare le formule della Consacrazione. Ma, sull’onda della predetta ‘nuova teologìa’ che fa del fedele un ‘partecipante’ e non, invece, un adorante che ‘vi assiste’, non sono pochi coloro che accompagnano il celebrante pronunciando, sotto voce ma udibili, le parole della ‘epiclési’, della preghiera, o invocazione, con cui si chiede allo Spirito di Dio di trasformare il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Un abuso vero e proprio consumato con sottostante atteggiamento di superbia presumendo di rivestire il ruolo attivo del legittimo celebrante, un’indebita appropriazione di funzione. Obbligo del fedele è, invece, osservare un raccolto silenzio – esteriore/interiore – nell’adorazione del Cristo presente nelle specie eucaristiche, col divieto di sconfinare in aree a lui interdette poiché è più che palese l’inefficacia delle parole abusivamente pronunciate.

E come recita l’aureo brocardo giustinianeo: “Unicuique suum”, a ciascuno il proprio compito.

d – Dopo lo stravolgimento della Parola di Dio e un abuso liturgico, ecco una vera e palese eresia annidata nella formula recitata subito dopo l’avvenuta Transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Il sacerdote annuncia: “Mistero della fede” a cui segue la risposta dei fedeli che così suona: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione in attesa della tua venuta”. Nella parte della formula, riportata in neretto, si annida il sottile dubbio sulla reale presenza di Cristo nelle Sacre Specie non tenendo conto che Cristo è, da qualche attimo prima, venuto trai suoi. A che mira, infatti, simile aggiunta se non a dubitare della vera e reale presenza di Cristo di cui, pur essendo più che presente, si attende tuttavia la venuta? Strisciante eppur concreta v’è sottesa la dottrina protestante che riduce il dogma cattolico di Gesù Eucaristico in presenza simbolica così come chiaramente annotarono i cardinali Ottaviani e Bacci nel Breve esame critico del Novus Ordo Missae (Corpus Domini 1969): “L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc. donec venias, introduce, travestita da escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare, quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta”. Ad essere corretti è da precisare che son gli Ebrei che attendono la venuta del Messia mentre i cattolici aspettano il ritorno di Cristo (Mt. 24, 30/31), cosa assai diversa. Un’eresia, non c’è dubbio, questa venuta che si palesa come orientamento dottrinario impresso e concordato proprio con i sei miscredenti ‘periti’ luterani e anglicani – notoriamente legati alla massoneria – nominati da Paolo VI quali membri della commissione deputata a riformare (?) la Santa Messa di san Pio V.

Che cosa avessero a che fare degli scismatici con la liturgia cattolica non è chiaro. Chiaro, però, è il proposito dello stesso Pontefice, e del massone mons. Annibale Bugnini, di desacralizzarla. Ed ecco, allora, introdurre il verme nella mela, il dubbio nella Verità.

Nota: la variante della “rugiada”, di cui al punto a, non è stata introdotta dalla Commissione di mons. Bugnini, ma è frutto malsano della cultura (?) teologica di Papa Francesco Bergoglio.

Post consacrazione

Ricordati dei nostri fratelli e sorelle che si sono addormentati nella speranza della resurrezione”, così recita il celebrante nel “memento defunctorum”. Apparentemente tutto sembra ovvio, canonico e ortodosso, solo che, soffermandoci un poco ad analizzare il periodo nella categoria teologica, si nota una sottile ma reale diluizione del dogma della resurrezione che, ovviamente, diventa eresia. Perché?

Si consideri la virtù teologale della speranza. Ora, senza avvalerci dei grandi teologi ma ricorrendo al Catechismo della Chiesa cattolica (Lev 2003, pag. 502) sappiamo che questa virtù teologale si caratterizza dall’essere espressione di un forte desiderio, di un’aspirazione alla felicità “che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; le salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna”.

Quanto alla speranza, intesa in senso laico, essa è definita come “Sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione presente o futura di quanto si desidera” (Vocabolario Treccani, vol. V pag. 202, 1997), definizione  che non si discosta di molto da quella rilasciata dal Catechismo.

Sperare è attendere qualcosa che potrebbe anche non arrivare. La speranza della guarigione, ad esempio, è l’attesa di questa, sentita come possibile ma non certa. Dante, nella sua Commedia, rispondendo a san Giacomo circa l’essenza della speranza, così parla: “Spene – diss’io – è uno attender certo / della gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto” (Par. XXV, 67-69) laddove certo sta per risoluto, energico, saldo, tenace, termini aggettanti sul territorio della consistenza, della tensione e non su quello della certezza del risultato. La speranza, cioè, è l’attesa fiduciosa, più o meno giustificata, ma non certa, di un evento gradito o favorevole.

Sperare nella risurrezione è dubitare che questo evento si verifichi. Ora, dato che la risurrezione è un dogma di fede (Mt. 25, 31-45), suona assai strano che si preghi il Signore perché si ricordi dei suoi fedeli che si sono addormentati nella speranza della risurrezione dal momento che essa è avvenimento futuro certo, tanto per i giusti che per i malvagi. Pertanto è tassativo rettificare con: “… nella certezza della resurrezione” o mantenere la formula con la seguente integrazione: “… nella speranza della resurrezione in/con Cristo”.

Ecco, allora, un’altra ambiguità, che indebolisce la dottrina cattolica, inserita nel Novus Ordo Missae dalla Commissione, delegata alla riforma liturgica di Paolo VI, presieduta dal massone mons. Annibale Bugnini con la “consulenza” di sei “esperti” protestanti: luterani e anglicani.

Padre nostro

Uno solo è il luogo comune che, probabilmente, renderà la preghiera, insegnata da Cristo stesso, inficiata sotto il doppio versante teologico/semantico per via di un’irriverente, arrogante, distorta e ridicola correzione della Parola di Cristo, similmente a quanto esposto sopra alla voce Consacrazione, lettera a.

Nell’intervista al cardinal Giuseppe Betori (Avvenire, 10 luglio 2017) si ha conferma di una imminente correzione del testo evangelico, così come voluta dal Papa Francesco I, d’intesa con i più dotti biblisti in circolazione. “Un Lavoro di squadra”, osserva compiaciuto il presule fiorentino, che ha stabilito essere il passo di Matteo 6, 13 “E non ci indurre in tentazione” del tutto inaccettabile poiché – ragionano Papa Francesco, il cardinal Betori e la squadra dei biblisti – Dio, che è somma bontà e infinita misericordia, non può mai indurre in tentazione. Pertanto, posta tale “verità, il verbo incriminato va sostituito con altro più corrispondente alle predette divine bontà e misericordia.

Ed ecco, allora, uscire dal cilindro del vocabolario conciliare la magica soluzione sostitutiva: “Non ci abbandonare alla tentazione”, formula che, dalla prima domenica di Avvento 2020, è stata recitata ufficialmente. Una formula, come abbiam detto sopra, che determina una doppia nefasta deriva: teologica e semantica e di cui ci apprestiamo a rendere conto e ragione.

Il N. T., come si sa, è scritto in lingua greca che, pur diversa dall’aramaico parlato da Gesù, è testo canonico su cui si fondano l’intera Rivelazione e il Depositum fidei. Ciò per dire che, greca o aramaica la versione, niente cambia ai fini della inerranza della Parola di Dio fattosi uomo.

Cosa dice, allora, Gesù (Mt. 6, 13)? Dice testualmente “kài mè eisenègkes hemàs èis peirasmòn, allà rysai hemàs apò tù ponerù”, corrispondente al latino della Vulgata di san Girolamo “et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo”, cioè, “E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”.

Papa, cardinal Betori e squadra di biblisti affermano che Dio non induce in tentazione. Bene, ci dicano allora, che cosa vogliono significare le tante prove – vere e proprie induzioni in tentazione – a cui, come racconta il V. T., il Signore sottopone i progenitori nell’Eden, Israele, i profeti, Abramo, Giobbe 2, 10 (Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?), così come recita il salmo 138, 1 e come si legge nel N. T. – vangelo di Matteo 4, 1/11 – lo stesso Gesù essere indotto in tentazione, messo alla prova come espressamente recita il testo greco “Tóte o Iesùs anèchthe éis tèn érmon ypò tù Pnèumatos peirasthènai ypò tù diabólu” , Tunc Iesus ductus est in desertum a Spiritu, ut tentaretur a diabolo. Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito (Santo) perché fosse tentato dal diavolo.

Insomma: da quanto sopra esposto ne vien fuori che il Signore Iddio Padre – come attesta la parola di Gesù – ci può, sì, indurre in tentazione ma mai in peccato, nel qual caso sarebbe veramente da pensare a una correzione, eccome! Ma le cose non stanno in questi termini ché il Figlio di Dio conosce bene le parole essendo Egli stesso Verbum Dei, la Parola di Dio.

Non c’è, pertanto, ragione per dilungarci a dimostrare quanto presuntuosa e offensiva sia la decisione di cancellare il verbo indurre per abbandonare, in quanto sono chiarissimi e incontestabili il potere e  la volontà che Dio ha di imporre prove, cioè, indurre in tentazione, così come bene recita il salmista.

Gravissimo atto di protervia culturale e di ribellione, pertanto, è sotto l’aspetto teologico siffatto tentativo di correggere il Verbo di Dio ritenuto non al passo dei tempi. Eresia, non v’è dubbio.

Ora, se con la sostituzione di indurre con abbandonare si sono compiute, riferite al versante teologico, un’azione eretica e un’offesa a Colui che è Verità, sotto quello semantico s’è raggiunto il massimo del ridicolo. I soloni, che pretendono di rettificare Cristo, sono naufragati nel mare del comico peggiorando ancora il criticato indurre. Noi, pertanto, con l’ausilio della sola analisi etimo/logico/semantica dei due verbi (indurre/abbandonare) dimostreremo come l’adozione del secondo realizzi una visione palesemente più forte del primo, addirittura sacrilega. Vediamoli.

aIndurre. Verbo che ricalca il latino in-ducere – condurre verso – e che, nelle varie e molteplici circostanze in cui viene flesso, sta a significare un dinamismo con cui un soggetto spinge e/o viene spinto a comportamenti, gesti per lo più negativi come: indurre in errore, indurre a delinquere… Ora, considerando l’etimo e la semantica, si può notare come nel composto in-durre sia presente un iniziale moto a cui il soggetto collegato non viene necessariamente coartato a cedere, tanto che l’indurre in tentazione altro non è che un tentativo, operazione che sollecita a compiere un alcunché ma non necessariamente a condurlo a termine. Abbiam detto sopra che Dio mette alla prova sì come appare, fra i numerosi, dagli esempî di Giobbe e di Gesù, due che, in modo diverso, seppero respingere l’induzione dandoci il modello per come si possa superare un momento critico.

Fatto, pertanto, chiaro che l’indurre del Padre nostro esprime la volontà di Dio secondo la quale Egli mette alla prova, non è automatico che l’uomo debba cadere nel peccato in quanto il suo libero arbitrio, illuminato e ammaestrato dalla Legge divina, gli permette la conoscenza del Bene e del male e, quindi, la volontà di resistere e vincere. Da notare, infatti, che dopo la richiesta di non essere indotti in tentazione, è lo stesso Gesù che ci dice di chiedere la liberazione dal male.

Colui che pratica sport estremi, l’acrobata, il rocciatore, mette sé stesso alla prova, si induce nel rischio non perché debba sicuramente fallire ché non avrebbe senso alcuno sfidare il proprio limite se non venisse posta a priori la volontà di superare la linea che segna le due aree: la sconfitta e la vittoria.

bAbbandonare. Verbo di etimologia varia che gli specialisti riconducono a un antico francese à ban donner – dare in balìa di – o a un a bando dare – proscrivere, lasciare definitivamente. Comunque lo si usi, mantiene un significato di larga univocità, e cioè: lasciare qualcuno/qualcosa senza aiuto, senza protezione, dimenticare – volontariamente o non – qualcuno/qualcosa. Insomma, il concetto che ne vien fuori dice come l’abbandonare valga azione che, riferita alla nuova formula del rivisitato Padre nostro, farebbe di Dio un Essere perfido o scordarello che, caduto l’uomo in tentazione, ve lo lascia senza aiuto, senza possibilità di recupero, senza mezzi di riscatto, disinteressandosi di lui. Ora, sarebbe paradossale che nella preghiera insegnataci da Cristo stesso si chiedesse al Padre di non abbandonarci alla tentazione, di non lasciarci soli e privi del suo aiuto ché tale è il significato del complemento di moto per il quale si raffigura il Signore che ci getta in braccio alla tentazione ivi lasciandoci soli e abbandonati.

E se i soloni avessero letto bene le parole di Gesù, avrebbero compreso che il Padre celeste non ci induce al peccato ma alla tentazione, cioè ci mette alla prova, come è dimostrato dagli esempi sopra riportati. Cosicché, la revisione operata dagli “esperti” si è rivelata una toppa, come ben si avverte, peggiore del buco che si vorrebbe rammendare, a gloria del Pontefice, del cardinal Betori e della squadra degli acculturati biblisti. E ancora:

nella parte ove si recita “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”, quella messa in neretto, si avverte una traduzione del latino “sicut et nos” erronea e, pertanto, fuorviante. Non staremo, intanto, a chiosare l’errore di san Girolamo che, nella sua Vulgata, modificò il perfetto greco os  kai hemèis aphèkamen = così come noi rimettemmo – in dimittimus = rimettiamo. Nostra premura è ben altra ché la nuova locuzione “come anche” esprime un’affermazione come consequenziale alla precedente invocazione “rimetti a noi i nostri debiti”. Mentre, cioè, il latino sicut et, tradotto nella forma ortodossa “così come”, dice che noi avremo rimessi i nostri debiti nella misura in cui li rimettiamo, la nuova versione “come anche” dice che avremo rimessi i nostri debiti in quanto – al pari del Signore – anche noi, chiaramente, li rimettiamo. Si comprende come “anche” – congiunzione coordinativa che rafforza il rapporto copulativo con il precedente periodo – tradisca l’originale significato condizionale (nella misura in cui) affermandone uno assertivo (del pari).

Non si attribuisca a noi questa riflessione dal momento che è lo stesso Gesù a sottolinearla quando, dopo aver proferito l’ultima richiesta – ma liberaci dal male – precisa le condizioni che consentono di rimetterci i debiti, col dire: “Se voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt. 6, 14/15). Altro che “come anche” della versione modernista! Gesù premette il “se” condizionale che richiede il modo indicativo con ciò significando una sola cosa: nella misura in cui perdoneremo/non perdonereremo, il Padre celeste rimetterà/non rimetterà i nostri debiti.

Conclusione: con la versione modernista il fedele si definisce meritevole di essere perdonato in quanto, come il Signore Dio, anche egli perdona. Vi si legge, pertanto, un atteggiamento di vellutata superbia che cancella l’originario modulo con cui si chiedeva umilmente la remissione dei peccati subordinata e corrispondente alla nostra dimostrata disposizione a rimettere. Ma a smentire siffatta falsa interpretazione sta – come sopra riportato – l’autentica, quella stabilita da Cristo.

Non ci resta, allora, che congratularci con i correttori della parola di Dio per simili esiti con cui si realizza l’antropocentrismo – dogmatico, morale e liturgico – predicato dal CVII e da Paolo VI, mettendo all’angolo il primato del Signore.

Noi ci sentiamo in dovere di consigliare costoro, in piena e turgida fregola revisionistica, a non avventurarsi in conflitti con la Parola di Cristo ché la sconfitta, così come la figuraccia, è sicura, oltre che lo scotto da pagare.

Cosicché, appare chiaro come la sostituzione di indurre con abbandonare renda un pessimo servigio alla Verità e riveli la smania revisionistica della neo-Chiesa che, per modellare una pastorale a sola caratura umana, fa la pesa alla Parola di Dio. Ma la rivoluzione bergogliana, che gronda misericordia da ogni artiglio (cfr. azzeramento Ordine Frati dell’Immacolata e Piccole Sorelle di Maria Madre del Redentore, disprezzo per i quattro cardinali autori dei Dubia…), va avanti inarrestabile fidando sulla parola (!) di padre Arturo Sosa, attuale “papa nero”, il gesuita che afferma come, per essere bravi cristiani di oggi, sia necessario contestualizzare storicamente, cioè secondo l’hegeliano zeitgeist, lo spirito del tempo, la Parola di Cristo il quale, lo si dica chiaro e schietto e lo si sappia, non disponeva di registratori vocali, per cui – come si dice in tali casi – Verba (Christi) volant, le parole (di Cristo) volano sicché il dubbio e la revisione sono legittimi.

Iniziata, così, l’opera di demolizione nei confronti della Sacra Scrittura, non è lontano il timore che ben altri passi del Vangelo potrebbero essere soppressi o sbianchettati – vedi Marco 10, 1-12 “l matrimonio” – o alcune pericopi di san Paolo – vedi I Corinti, 6, 7-11 – perché non allineati alla nuova pastorale bergogliana. Stìano, però attenti i sabotatori del Verbo divino ché “vendetta di Dio non teme suppe” (Pg. XXXIII, 36), e non credano di stare al sicuro per essere, loro, uomini consacrati perché proprio tale supposta garanzìa sarà motivo di maggior rigore. San Pio da Pietrelcina ebbe in visione “Gesù tutto malconcio e sfigurato. Egli mi mostrò una grande moltitudine di sacerdoti, regolari e secolari, fra i quali diversi dignitari ecclesiastici; di questi, chi stava celebrando, chi si stava parando e chi stava svestendosi delle sacre vesti. La vista di Gesù in angustie mi dava molta pena, perciò volli domandargli perché soffrisse tanto . . . osservai due lagrime che gli solcavano le gote. Si allontanò da quella turba di sacerdoti con una grande espressione di disgusto sul volto, gridando: Macellai! E rivolto a me disse: figlio mio, non credere che la mia agonìa sia stata di tre ore, no; io sarò, per cagione delle anime da me più beneficate, in agonia sino alla fine del mondo.” (Luigi Peroni, Padre Pio da Pietrelcina, Borla 2002, pag. 150). Dove pensate siano andati i macellai?

Anche nella recita del Padre nostro si verifica un’indebita appropriazione di ruolo. Parliamo di quei fedeli che lo recitano a braccia aperte, imitando il sacerdote il quale è, invece, il solo autorizzato a simile rituale, a somiglianza di Mosè che, nella battaglia contro Amalek (Es. 17, 11/13), teneva, lui soltanto, le braccia sollevate consentendo, così, a Israele di prevalere. E poi, è maniera diffusa assai, ad opera soprattutto di gruppi organizzati – Carismatici, Neocatecumenali, Focolarini, Scautismo cattolico (Agesci), Comunione e liberazione ecc. – recitare il Padre nostro tenendosi per mano. Siffatta scenografia si agguaglia a quella “catena che, negli antichi misteri, gli adepti formavano per destare le energie uraniche e telluriche onde sollecitare la possessione collettiva da parte del dàimon, così come i circoli satanisti la realizzano, durante le loro sedute spiritiche, per evocare, tramite la supposta, reciproca trasmissione delle individuali energie, le larve dei trapassati o suscitare le forze ctonie, sotterranee cioè, infernali. Una dissacrante gestualità segnata dal sigillo del paganesimo.

Scambiatevi un segno di pace

Al termine del Padre nostro, il celebrante, rivolto ai fedeli, porge loro l’invito a scambiarsi “un segno di pace. E subito dopo si scatena la caccia alla mano da stringere. Eh sì, perché nonostante l’esortazione parli di un segno – vale a dire uno, tra i tanti, non ben identificato – quello della stretta di mano è diventato il segno unico ed esclusivo. Per il quale va ricordato il ruolo che, nella riforma – o deforma – della Santa Messa ebbe il sopra citato massone, mons. Annibale Bugnini, il quale, in forza del suo incarico di presidente di Commissione, inserì questo gesto non senza una sottile e reale intenzione di inquinare il significato della vera pace di Cristo. Un elemento totalmente dissacratorio che ci apprestiamo a spiegare.

Alla più parte dei fedeli sfugge che la stretta di mano è uno dei segni di riconoscimento che i “fratelli tre puntini – i massoni – includono nel loro ermetico cerimoniale. Chi possiede, sia pur superficiali, nozioni circa la massoneria e il suo rituale, sa che la stretta di mano, col pollice di una che preme, due o più volte, sull’altra nella concavità molle, sita tra pollice/indice e contigua alla così detta “tabacchiera anatomica”, è un espediente di per sé nulla significante per chi, massone non essendo, non ne avverte il messaggio cifrato, diversamente da altro che, massone coperto, lo riceve pronto a ricambiarlo.

Sfugge, abbiamo detto, alla totalità dei fedeli dacché la stretta di mano è sempre stata, e lo è, segno di amicizia, di concordia, apertura a nuovi rapporti umani, sigillo a un patto e, pertanto, intrinsecamente positivo. Con questa apparente connotazione di affermata positività, che fa velo all’occulta ma reale significanza, buon gioco ha avuto lo scaltro massone mons. Bugnini a inserire, così, un perverso simbolo nel rituale della Santa Messa.

Ma è da sottolineare che, al di là della sottigliezza massonica, la stretta di mano resta un gesto laico che niente ha da spartire col segno di pace che caratterizza la dimensione cristiana definita nel complesso del sacro rito della Messa intesa quale ripetizione incruenta del sacrifico della Croce.

Noi, per siffatta ragione, rifiutiamo di stringer la mano che qualche fedele protende verso di noi e ciò desta sorpresa – spesso irritazione – nell’altro che, a fine rito, ci chiede spiegazione. E noi, allora, volentieri illustriamo l’arcano, così, come in appresso.

Narra Eusebio di Cesarea (263-339 d. C.) che, alcun tempo prima della battaglia a Ponte Milvio – 28 ottobre 312 – l’imperatore Costantino, ebbe in sogno una visione in cui gli appariva una Croce con la scritta greca “En tuto nike”, in questo la vittoria, tradotta in latino “in hoc signo vinces”: in questo segno vincerai. Dopo di che dette ordine di apporlo su scudi e labari. È il segno che consacrò i crociati nella difesa della Terra Santa, che protesse i Franchi dai musulmani nella battaglia vittoriosa di Poitiers (732), che accompagnò la flotta cristiana a Lepanto (1571) contro l’Impero Ottomano, che fu baluardo e vittoria sui Turchi nell’assedio di Vienna (1683); è il segno con cui si rappresenta e si adora Dio Trinità; che splende e lampeggia nel cielo dei martiri, così come lo vide e descrisse Dante nella sua Divina commedia (Par. XIV, 94/105); che adorna il logo di tutti gli Ordini religiosi; che apre e chiude l’amministrazione di ogni sacramento; che apre la vita del cristiano nel battesimo e la chiude nell’estrema unzione; che apre l’ufficio delle ore, da mattutino a compieta; che apre e chiude il rito sacrificale della Santa Messa; che apre e chiude la recita del santo Rosario; che apre e chiude la giornata del buon cristiano; che dà conforto nei momenti di pericolo; che pende dalla catenina quale testimone di fede e di difesa; che santifica il pasto ; che spicca sui campanili, irradia pace nei cimiteri e consolazione negli ospedali.

Ciò vuol dire che l’unico e il solo segno che distingue e rende riconoscibile il cristiano è quello della santa Croce, riassuntivo dell’intera storia della salvezza, delle virtù teologali – Fede, Speranza, Carità – ma soprattutto esclusivo segno di pace, sì, perché sulla/nella/con la Croce s’è ristabilita l’armonia, l’amicizia fra cielo e terra, fra l’uomo e Dio (rappacificare con il sangue della sua croce, gli esseri della terra e quelli del cielo, Col. 1, 20), e segno della potenza di Cristo secondo quanto è scritto: “Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria” (Mt. 24, 30). La Croce, pertanto, si rappresenta segno con il quale chiediamo e auguriamo la pace e, nello stesso tempo, proclamiamo la potenza e la gloria del Figlio di Dio fattosi uomo.

Ma, nonostante siffatta alta significanza, si cerca e si dà la pace barattandola con una banale stretta di mano la cui scenografia rappresenta quanto di più avvilente, penoso e deplorevole si possa immaginare: mani sudaticce, molli, sfuggenti, pendule, flosce che si offrono a mani callose, forti, ossute, asciutte, grasse, tatuate, unghiute, mani che hanno, un momento prima, esplorato le narici attardandosi, poi, a prolungate e vibranti oscillazioni o sbrigandosi in un sol breve contatto delle dita. Una ridda di braccia che roteano, si incrociano, un viavai rumoroso di fedeli che attraversano l’intera navata per stabilire il primato di mani agguantate. Una vergognosa e dissacrante messinscena con cui il santissimo, trinitario segno della Croce viene cancellato a favore di un gesto massonico, di marca luciferina abilmente occultato dal suo ideatore, mons. Bugnini, sotto l’apparente patina della cordialità e dell’amicizia.

E vi pare un’ottima scelta?

E ancora: la situazione creatasi con la pandemia Covid 19 ha costretto le autorità ecclesiastiche a vietare contatti fisici ragion per cui la massonica stretta di mano è stata sostituita da un altro… segno di pace del tutto inespressivo e banale: un cenno della testa che tanto somiglia a una ciondolante testa di un asino.

Caro Papa e cari vescovi: ma vi costa così tanto prescrivere il santo segno della croce?

Buona giornata / domenica a tutti

A fine Messa, il celebrante impartisce ai fedeli presenti la benedizione con la seguente formula: “Vi benedica Dio onnipotente: Padre, Figlio e Spirito Santo. La Messa è finita, andate in pace”, a cui l’assemblea risponde: “Rendiamo grazie a Dio”. Dovrebbe, quindi, a questo punto, aver compimento il santo rito. Ma non è così, perché da qualche anno sta andando di moda assai un’appendice che, a dirla schietta, sotto la velatura salottiera e cortese di bonario e fraterno galateo, smentisce e depotenzia la citata benedizione trinitaria mettendone in forte dubbio, sottilmente e tuttavia realmente, l’infinita e sicura efficacia.

Il sacerdote, infatti, alla risposta dei fedeli appone, confidenzialmente sorridendo, un laico beneaugurante “buona giornata/domenica a tutti” quale rinforzino di cui l’onnipotente Santissima Trinità – non si sa mai – potrebbe aver bisogno. Un puntello umano in soccorso alla debolezza del divino.

Luogo comune, inopportuno per la sacralità del luogo senz’altro, ma, per il significato sotteso, sconveniente e sacrilego, addirittura, che trova sponda in quel mondano, estraneo e orrendo “buona sera” con cui il neoeletto Papa, Francesco I Bergoglio – 13 marzo 2013, h. 19,20 circa – salutò l’ecumene cattolica radunata in piazza San Pietro, omettendo, volutamente, di porgere l’unico, solo ed esclusivo “Sia lodato Gesù Cristo” noto essendo che il Papa della Chiesa cattolica è Vicario del suo Padrone, Successore di san Pietro e Vescovo di Roma, e non, invece, il presidente di una delle tante associazioni cultural-sportive o come il condomino contiguo di pianerottolo. Un astuto espediente di “captatio benevolentiae” che dice quanto Papa Bergoglio tenga più ai buoni rapporti con l’uomo che non a quelli con Dio. Eccessiva critica? No, verità conclamata come dimostrano due, fra le molte, circostanze: 1) Bergoglio non si inginocchia mai davanti al Santissimo Sacramento Eucaristico, 2) mentre striscia a terra (11 aprile 2019) per baciare i piedi a tre politici sudanesi musulmani ai quali chiede di farsi promotori di pace. Vergogna e teatralità!

Dello stesso registro casareccio, è quel banale e fuori luogo “buon pranzo” che amministra, o ammannisce, a fine di ogni udienza pubblica, congedando i fedeli che, raccolti in piazza San Pietro per ascoltare la Parola di Dio, sono scambiati per turisti in bivacco a piazza di Spagna o a Villa Borghese, o per escursionisti sui Pratoni del Vivaro. Come dire: Cristo non abita in Vaticano. Ne è stato sfrattato.

Postilla 1

Riguardo alle variazioni del Gloria e del Padre nostro – come sopra riportato – noi dichiariamo obbedienza al Vangelo, parola infallibile e indefettibile di Cristo, continuando a pronunciare, durante la Santa Messa e in altri ambiti, la storica dizione “agli uomini di buona volontà° relativamente al Gloria e “non ci indurre in tentazione” al Padre nostro. Ciò vale netta e consapevole disobbedienza all’attuale magistero, di cui non riconosciamo l’arbitraria autorità a manomettere pericopi evangeliche che, in quanto espresse da Gesù e riportate dai fedeli evangelisti, portano il sigillo della Verità e, perciò, non errano.

Se Papa Francesco, e i suoi biblisti, sono così sicuri di avere operato con discernimento, giustizia e scienza, decidano di proclamare ‘ex cathedra’ definendo dogmi di fede le nuove lezioni e noi, fedeli figli della Chiesa Cattolica, consapevoli che siffatto Magistero è assistito dallo Spirito Santo, obbediremo.

A difesa della nostra decisione portiamo le parole dell’apostolo che categoricamente afferma: “Miror quod sic tam cito trasferimini ab eo, qui vos vocavit in gratiam Christi in aliud evangelium, quod non est aliud, nisi sunt aliqui, qui vos conturbant et volunt convertere evangelium Christi. Sed licet nos aut angelus de caelo evangelizet vobis praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit. Sicut praediximus, et nunc iterum dico: si quis vobis evangelizaverit praeter id, quod accepistis, anathema sit” (Gal. 1, 1/9) – Mi meraviglio che voi, in sì breve tempo, vi lasciate indurre ad abbandonare (Dio Padre) chi vi ha chiamati nella grazia di Cristo, per passare ad un altro Vangelo. Non esiste un altro Vangelo perché non ce ne è un altro mentre vi sono soltanto alcuni che vi turbano e vogliono pervertire il Vangelo di Cristo. Ma quand’anche noi stessi o un angelo disceso dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia scomunicato! Come ve l’abbiamo già detto, ma ve lo ripeto di nuovo: se qualcuno vi predicherà un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia scomunicato.

Questo per quanto riguarda gli autori della nefasta ed eretica operazione. Quanto a noi, credenti nella Verità del Verbo divino, portiamo, a difesa della deliberata nostra disobbedienza e di quella che altri vorranno attuare, quanto Pietro proclamò al Sinedrio di Gerusalemme: “Oboedire oportet Deo magis quam hominibus” (Atti, 5, 29) – È necessario obbedire a Dio più che agli uomini.

E mai come in questo caso è necessario attendere alla parola di Dio e disobbedire ai falsi evangelizzatori.

Ma ciò che addolora e indigna è il silenzio di quanti, per dignità, scienza e competenza dovrebbero, invece, levare alta la voce in difesa della Verità. A costoro sarà chiesto conto della propria viltà.

Postilla 2

Mentre nella celebrazione della Messa, condotta in lingua volgare, si recita, per il Gloria, la scorretta lezione “Pace in terra agli uomini amati da Dio”, sostitutiva della canonica e autentica “Pace in terra agli uomini di buona volontà” e per il Padre nostro la parimenti scorretta lezione “Non abbandonarci alla tentazione” sostitutiva della canonica e autentica “Non ci indurre in tentazione”, nella Messa solenne, celebrata in latino, nei due luoghi esaminati è d’uso la giusta lezione “Pax in terra hominibus bonae voluntatis” rispettivamente al Gloria e “Ne nos inducas in tentationem” al Padre nostro.

Ci sia permesso di chiedere una spiegazione a siffatta disparità liturgica.

Postilla 3

È usanza della regìa di Tv200, così come di quella di altre emittenti, allorché trasmette la Santa Messa, di mandare le coordinate del luogo unitamente alla segnalazione del sacerdote officiante. C’è qualcosa di non ortodosso nei titoli che scorrono sul teleschermo, esattamente laddove appare la dicitura: “Santa Messa presieduta da…”.  Il verbo presiedere reca seco il significato di un’azione diretta su un evento in cui si configuri un insieme di persone – un’assemblea – che è sottoposta, nell’articolazione dinamica, all’autorità di un presidente. Tale lezione vale per tutte le circostanze in cui, ad esempio, si presenta la necessità di un moderatore, di un regista, di una personalità investita del mandato di coordinare lo svolgimento degli interventi. Ora, tornando al tema formulato all’inizio, c’è da verificare se la Santa Messa sia “sinassi”, cioè, assemblea del popolo di Dio – come l’ha definita Papa Paolo VI – e quindi, necessariamente “presieduta da” o diversamente si rappresenti quale “mistero” altrettanto necessariamente “celebrato da”, perché sta proprio in siffatta differenza la motivazione del nostro intervento.

E senza farla troppo lunga diciamo essere, la Santa Messa, un “mistero” in cui si offre a Dio un vero e proprio sacrificio istituito da Gesù Cristo. È di fede. mediante la transustanziazione delle specie del pane e del vino, Cristo si incarna per diventare cibo spirituale e, nel contempo, si commemora la sua Passione-Morte-Resurrezione. È il mistero eucaristico e un mistero va celebrato e non presieduto. Non è forse questa la volontà di Nostro Signore Gesù Cristo, quale si manifesta nel momento precedente la Transustanziazione, quando l’officiante prega Dio Padre di santificare i doni del pane e del vino perché “diventino il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore che ci ha comandato di celebrare questi misteri?”

Celebrare, non presiedere.

E allora, perché ignorare la volontà di Cristo?

* * * * * * * * * *

A proposito del nuovo Padre nostro ricordiamo il libro Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro” (Chorabooks), curato da Aldo Maria Valli con contributi di monsignor Nicola Bux, dom Giulio Meiattini, don Alberto Strumia e Silvio Brachetta. 

Non più “non ci indurre in tentazione” bensì “non ci abbandonare alla tentazione”. Questo il cambiamento deciso dai vescovi italiani per la preghiera del Padre nostro. Ma perché la nuova traduzione? In controtendenza rispetto alla spiegazione che va per la maggiore, e cioè che in questo modo il testo sarebbe più in linea con il contenuto evangelico, il libro Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro”, a cura di Aldo Maria Valli, sostiene che il cambiamento ha origine da un indebito ammorbidimento delle parole che Gesù stesso ha insegnato ai discepoli. La nuova traduzione nasce nel clima di buonismo e misericordismo a cui si ispira la Chiesa in questa fase, ignorando però che Dio, nella Sacra Scrittura, mette più volte alla prova le persone per verificare la loro fede e che Gesù stesso, durante la permanenza nel deserto, fu esposto alle tentazioni. La smania di cambiamento è espressione del “cambio di paradigma”, o “rivoluzione culturale” che si vuole attuare nella Chiesa odierna, in nome di un “ecclesialmente corretto” che non deve disturbare la sensibilità moderna. I contributi raccolti nel libro sono di monsignor Nicola Bux, dom Giulio Meiattini, don Alberto Strumia e Silvio Brachetta.

 

 

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