Sull’insensatezza di quel “non abbandonarci alla tentazione”

di Piergiorgio Cesario

A distanza ormai di più di due anni dall’introduzione della frase “Non ci abbandonare alla tentazione” mi chiedo ancora come sia stato possibile arrivare al punto di cambiare le parole di Nostro Signore, e addirittura in ciò che di più grande ci ha consegnato: il Pater noster.

Sono un docente di matematica e, come tale, amo la logica, il ragionamento rigoroso e la precisione. Se da un canto una lingua non è una formula di matematica, è pur vero che le regole della grammatica hanno un loro grado di precisione e i termini e i verbi un loro chiaro significato.

Nemmeno un mediocre studente di greco di un qualsiasi liceo classico d’Italia si sognerebbe di tradurre il verbo eisenenkai (da eisferein, che vuol dire letteralmente portare, condurre dentro) con “abbandonare”. Sarebbe un errore da evidenziare con la matita blu, come i professori facevano in un tempo ormai lontano.

Trattandosi di un verbo di movimento, la traduzione corretta è “Fa’ che non entriamo nella tentazione”, che potrebbe essere reso meglio dicendo “Fa’ che non cadiamo nella tentazione”.

Ci vogliono due minuti per spiegare ai fedeli in un’omelia questo significato dell’espressione “non indurci in tentazione”, con la quale generazioni di fedeli hanno pregato il Pater. Né occorrono conferenze per far comprendere che in greco, latino e anche ebraico esistono verbi dotati di senso causativo-fattivo o permissivo i quali, tradotti, necessitano di due parole anziché una. Caesar pontem fecit, per esempio, non significa “Cesare fece il ponte” ma Cesare fece fare il ponte.

Ora una breve riflessione sulla sfumatura del verbo di movimento “entrare”. Nel linguaggio semitico la condizione morale dell’uomo era vista e descritta come un luogo, infatti quando ci si riferiva al peccato si usava l’espressione “tenda del peccato” in contrapposizione alla “tenda dei giusti”. Ovvio che si trattava di una  metafora. Pertanto aderire al peccato, acconsentire alla tentazione, veniva reso anche con un verbo di movimento, “entrare nel peccato”, e del resto anche noi usiamo l’espressione “cadere in peccato”.

In conclusione “non ci indurre in tentazione” esprime esattamente il significato descritto, ovvero “non permettere che entriamo dentro la tentazione”, in quanto non indurre significa “non permettere che entriamo” o, come detto prima, in modo più breve “fa’ che non cadiamo”. Per cui, se proprio si voleva cambiare il testo, bisognava usare un’espressione magari più precisa e non, come arbitrariamente è stato fatto, stravolgere il senso e il significato della richiesta di Gesù a Dio Padre!

Come possiamo dire a Dio “non abbandonarci”? Come pensare che sia possibile che il Signore ci lasci soli e ci abbandoni, andando così contro la sua stessa parola che in decine di passi ci assicura che non ci abbandona mai e mai lo farà? “Non si addormenterà il tuo custode, non prenderà sonno… il Signore è il tuo custode, è come ombra che ti copre, e sta alla tua destra…il Signore veglierà su di te quando esci e quando entri da ora e per sempre” (salmo 121). “Io non ti lascerò e non ti abbandonerò” (Ebrei 13,5).

La prova definitiva e incontrovertibile di quanto affermo la troviamo in un testo che dovrebbe essere la guida sicura non solo dei fedeli ma anche dei ministri e dei pastori, ma che da molti anni sembra totalmente dimenticato. Parlo del Catechismo della Chiesa cattolica, che ai numeri 2846 e 2847 chiarisce in modo limpidissimo la questione.

… i nostri peccati sono frutto del consenso alla tentazione. Noi chiediamo al Padre nostro di non «indurci» in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa «non permettere di entrare in», «non lasciarci soccombere alla tentazione». «Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta «tra la carne e lo Spirito». Questa domanda implora lo Spirito di discernimento e di fortezza [n. 2846].

Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria alla crescita dell’uomo interiore 134 in vista di una «virtù provata», e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte. Dobbiamo anche distinguere tra «essere tentati» e «consentire» alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è «buono, gradito agli occhi e desiderabile» (Gn 3,6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte.

Dio non vuole costringere al bene: vuole persone libere […]. La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all’infuori di Dio, ignorano ciò che l’anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere [n. 2847].

Notiamo: è quasi come se il Padre ci “accompagnasse” verso la prova; del resto lo Spirito Santo condusse Gesù nel deserto “per essere tentato dal diavolo”, cioè esattamente per essere sottoposto alla prova, cioè alla triplice tentazione (Mt. 4, 1-11).

Tutta la tradizione della Chiesa insegna che è dovere di ogni cristiano affrontare la tentazione, combatterla e vincerla con la Grazia di Dio. Questo non è un mio pensiero, ma lo dice chiaramente la Parola di Dio in molti passi.

«Perché tu eri accetto a Dio bisognava che ti provasse la tentazione» (Tobia, 12, 13).

«Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione, non ti smarrire nel tempo della prova» (Siracide 2; 1,3).

La Chiesa ha sempre insegnato che la tentazione ha una sua utilità, come afferma e spiega chiaramente il numero 2847 del Catechismo e come possiamo ascoltare dalla voce dei santi e dei padri della Chiesa.

Ascoltiamo sant’Agostino:

«La nostra vita in questo luogo di esilio non può essere senza tentazioni perché il nostro avanzamento avviene soltanto per la tentazione. Nessuno può arrivare a conoscere sé stesso finché non è tentato, né essere coronato senza aver vinto, né può vincere senza combattere; ma il combattimento presuppone un nemico, una prova, una tentazione».

In un altro bellissimo passo tratto dal Commento ai salmi ascoltiamo che cosa ci dice parlando delle tentazioni di Gesù nel deserto, parole da rileggere e meditare:

«Cristo fu tentato dal diavolo, ma in Cristo eri tentato anche tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione, da sé la tua gloria, dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria.

Se siamo stati tentai in Lui, sarà proprio in Lui che vinceremo il diavolo. Cristo avrebbe potuto tenere lontano il diavolo; ma, se non si fosse lasciato tentare, non ti avrebbe insegnato a vincere, quando sei tentato.”

Ascoltiamo San Leone Magno “Non si danno opere di virtù senza le prove della tentazione, né lotta senza avversari, né vittoria senza combattimento, se vogliamo trionfare dobbiamo venire alla lotta” (Primo discorso sulla quaresima)».

Concludo con quanto scrive la mistica Maria Valtorta. Pur non potendo avere la certezza che la donna abbia scritto sotto dettatura di Gesù, l’opera gigantesca della mistica casertana è una fonte di spiritualità apprezzata in tutto il mondo e la Chiesa non vi ha trovato il minimo errore dottrinale e teologico. Va sottolineata dunque l’assoluta concordanza di quanto scrive con quello che è affermatone nel Catechismo della Chiesa cattolica. Giudicate voi stessi: ecco il brano in cui Gesù, commentando frase per frase la preghiera del Padre nostro, arriva al “non indurci in tentazione”:

Dio Padre il male lo permette ma non lo crea, Egli è il Bene da cui sgorga ogni bene, ma il male c’è, ci fu dal momento in cui Lucifero si ribellò contro Dio, sta a voi fare del male un bene vincendolo e, implorando dal Padre la forza per vincerlo; ecco cosa chiedete con l’ultima petizione che Dio vi dia tanta forza da saper resistere alla tentazione; senza il Suo aiuto la tentazione vi piegherebbe perché essa è astuta e forte e voi siete ottusi e deboli ma la Luce del Padre vi illumina, ma la Potenza del Padre vi fortifica, ma l’Amore del Padre vi protegge onde il male muore e voi ne rimanete liberati (Gesù a Maria Valtorta, dai Quaderni del 1943. Dettato del 7 luglio).

Rivolgiamoci dunque tutti insieme con fede a Dio Padre e supplichiamolo pregando: «Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen».

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A proposito del nuovo Padre nostro ricordiamo il libro Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro” (Chorabooks), curato da Aldo Maria Valli con contributi di monsignor Nicola Bux, dom Giulio Meiattini, don Alberto Strumia e Silvio Brachetta. 

Non più “non ci indurre in tentazione” bensì “non ci abbandonare alla tentazione”. Questo il cambiamento deciso dai vescovi italiani per la preghiera del Padre nostro. Ma perché la nuova traduzione? In controtendenza rispetto alla spiegazione che va per la maggiore, e cioè che in questo modo il testo sarebbe più in linea con il contenuto evangelico, il libro Non abbandonarci alla tentazione? Riflessioni sulla nuova traduzione del “Padre nostro”, a cura di Aldo Maria Valli, sostiene che il cambiamento ha origine da un indebito ammorbidimento delle parole che Gesù stesso ha insegnato ai discepoli. La nuova traduzione nasce nel clima di buonismo e misericordismo a cui si ispira la Chiesa in questa fase, ignorando però che Dio, nella Sacra Scrittura, mette più volte alla prova le persone per verificare la loro fede e che Gesù stesso, durante la permanenza nel deserto, fu esposto alle tentazioni. La smania di cambiamento è espressione del “cambio di paradigma”, o “rivoluzione culturale” che si vuole attuare nella Chiesa odierna, in nome di un “ecclesialmente corretto” che non deve disturbare la sensibilità moderna. I contributi raccolti nel libro sono di monsignor Nicola Bux, dom Giulio Meiattini, don Alberto Strumia e Silvio Brachetta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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