Sullo zelo amaro / Una risposta a Paolo Gulisano

di Fabio Battiston

Ho letto più volte il contributo di Paolo Gulisano (che ho sovente apprezzato nei suoi interventi sul blog) dal titolo Zelo amaro. Come rimediare, pubblicato su Duc in altum il 21 febbraio scorso. Alla fine mi sono deciso a dire la mia – senza alcun intento di voler avviare un dibattito polemicamente sterile – con l’obiettivo di sottolineare alcuni aspetti che mi pare doveroso riprendere criticamente.

Sgombro subito il campo da un sospetto che qualche lettore del blog – magari abituato alle mie considerazioni talvolta tranchant sull’attuale ministero petrino – può adombrare. Non mi sono sentito “toccato” dalle considerazioni (e direi anche dalle accuse) espresse da Gulisano nel suo contributo. Quelle che ora cercherò di argomentare sono valutazioni di chi vorrebbe continuare a sentirsi un fedele “normale” ma che, suo malgrado, una forza dirompente ha inteso gettare in un versante, sarebbe meglio dire in un ghetto, per poter in quell’ambito meglio giudicarlo e condannarlo.  Ma veniamo ai temi.

Ciò che da subito non ho condiviso nell’articolo è l’aver individuato e, di fatto, aver messo sullo stesso piano, due “fenomeni” completamente diversi per genesi ed entità: Chiesa modernista e tradizionalismo. Purtuttavia essi, sul piano degli aspetti negativi, sono all’inizio trattati paritariamente da Gulisano, che però poi sottolinea in modo univoco i gravi errori della sola parte conservatrice. Cercherò di dimostrare che le cose non stanno proprio in questi termini. Ma, prima di tutto, analizziamo chi sono i soggetti in gioco.

Il primo protagonista è il generatore di tutto lo scenario, è l’elemento “rivoluzionario” per usare antiche terminologie. La Chiesa temporale modernista. Questo, nell’analisi complessiva della situazione, non può e non deve essere dimenticato. Il secondo soggetto è la diretta conseguenza del primo, è la “reazione” ma sarebbe meglio definirla “contro-rivoluzione”. Tre secoli di interpretazioni a senso unico ci hanno ormai abituato a dare a questi due termini un significato negativo, dispregiativo. Quanti di noi sarebbero contenti di essere indicati come reazionari? Fortunatamente il grande Plinio Correa de Oliveira nella sua famosa opera Rivoluzione e contro-rivoluzione, del 1959, ha saputo dare dignità a una posizione di grande nobiltà religiosa, etica e politica. La tradizione e il conservatorismo di de Oliveira erano tanto più forti e convinti quanto più la minaccia rivoluzionaria si manifestava in tutta la sua forza e pervasività. Ed eccoci all’oggi; la rivoluzione modernista nella Chiesa – alla quale Jorge Mario Bergoglio sta dando un’evidente accelerazione ma della quale non è certo il primo ispiratore – si qualifica per la sua imponente pervasività e penetrazione. Appare decisamente maggioritaria in tutti i livelli del clero e potentemente sostenuta da larga parte del laicato cattolico ormai cooptato alla causa di una Chiesa grande ospedale sociale da campo. Una causa mondialmente promossa da un apparato di comunicazione massmediale di cui i canali “ecclesiastici” rappresentano solo una minima parte.

A tutto questo si contrappone una realtà conservatrice e tradizionalista che – seppur quantitativamente e qualitativamente cresciuta in questi ultimi anni a causa dell’esplosione rivoluzionaria – appare da sempre oggettivamente minoritaria. Riflettiamo anche su un altro aspetto: quanti fedeli “normali” si sono ritrovati da cinquant’anni a questa parte – essi sì – gettati in un ghetto, una vera e propria geenna terrena insieme al loro altrettanto normale “essere Chiesa” (fatto di sacramenti, preghiera, liturgie ed insegnamenti dottrinali)?

Gulisano, nel suo contributo, parla di “zelo buono” declinando questo condivisibile concetto in atteggiamenti, comportamenti e modi di essere che dovrebbero caratterizzare, specialmente in un tempo di tempesta, le azioni e le decisioni di un buon cristiano. Ecco allora la pazienza, il non scandalizzarsi degli errori, l’amare il prossimo così come si manifesta ed infine, l’aiuto reciproco. Come non essere d’accordo con tutto ciò?

Tuttavia non posso non domandarmi: chi sta fattivamente dimostrando uno scarso se non nullo zelo buono nel cercare di convivere con questa situazione per governarla con saggezza e spirito cristiano? Una situazione che – ribadisco ancora una volta – non è stata creata dal cosiddetto tradizionalismo cattolico.

Da un lato la “rivoluzione” della Chiesa modernista declina se stessa in svariate modalità; tra esse:

lo stravolgimento (strumentale) della lettera e dello spirito dei documenti conciliari;

l’attacco nei confronti della plurisecolare tradizione liturgica, finalizzato alla sua definitiva eliminazione;

gli abusi sull’Eucaristia;

il commissariamento di confraternite ed ordini conventuali invisi all’attuale ministero petrino (con condanne e punizioni di vario genere comminate, “in spirito di carità”, verso frati e suore coinvolte);

l’attentato all’unicità della Chiesa cattolica mediante:

l’esaltazione/sopravvalutazione della sinodalità e della collegialità nelle decisioni ecclesiastiche;

la liberalizzazione totale (al netto della distruzione del Vetus ordo) nella celebrazione indiscriminatamente creativa della liturgia;

l’accettazione, di fatto, di realtà ecclesiali diversificate nell’ambito di una medesima origine culturale, dottrinale e storica. Gli esempi della Chiesa tedesca, di quelle sudamericane ancora preda di una teologia della liberazione mai doma e della Chiesa francese sono sotto gli occhi di tutti;

le accuse di divisione, ostentazione, conservatorismo e clericalismo verso chiunque (clero e laici) cerchi di mantenere viva Tradizione, Dottrina e liturgia mai abrogate nella Chiesa cattolica;

l’insensibilità, il silenzio e l’indifferenza verso tutte le forme di dissenso o di semplice richiesta di confronto sulle decisioni prese (Dubia e simili);

la derisione e l’umiliazione – spesso pubbliche – di ogni atteggiamento ed espressione del cattolicesimo tradizionale;

l’attacco sistematico a qualsiasi tipo di opposizione, con l’uso spregiudicato sia dei mezzi di informazione cattolici (stampa, radio, televisione e web) che di quelli generalisti, da tempo gestiti dai detentori del pensiero unico ateo/relativista alleato con il mainstream catholically correct;

l’amore, il rispetto e la carità più incondizionate, manifestate verso qualsiasi entità dei regni animale, vegetale e minerale ad eccezione, nella barca di Pietro, di tutte quelle definibili come “tradizionali”; per esse esiste solo l’isolamento e la condanna senza appello.

Quanta carità, quanta pazienza ed amore per il prossimo sta da anni dimostrando la Chiesa cattolica temporale di quest’inizio di ventunesimo secolo. E che aiuto reciproco per individuare, capire e correggere – insieme – dove alberghi l’errante e dove sia l’errore!

Di fronte a ciò che, quotidianamente, la rivoluzionaria cattolicità modernista dimostra di essere e di volere, il cattolico reazionario (o contro-rivoluzionario) esprime così il suo gravissimo e condannabile “zelo amaro”:

ostenta la propria volontà di inginocchiarsi e prendere la comunione in bocca e, per tale motivo, viene platealmente rimproverato ed esposto al pubblico ludibrio nelle Chiese;

partecipa domenicalmente, suo malgrado, a riti dal sapore sovente neopagano e panteista poiché impossibilitato a percorrere duecento chilometri, andata e ritorno, per recarsi nelle sempre più sparute chiese ove assistere alla Santa Messa Vetus ordo;

cerca di esprimere il proprio disagio tramite i pochi canali informativi realmente “liberi” che, quasi esclusivamente sul web, consentono di render vivo uno stato d’animo che per molti cattolici è vera disperazione (se mi mandate un elenco di grandi quotidiani cartacei e reti radiotelevisive broadcast, non carbonare, ove sia possibile dar voce al dissenso cattolico, ve ne sarò grato);

prende atto con rassegnazione che, talvolta, quei canali di libertà di cui sopra vengono brutalmente silenziati ed oscurati proprio per le loro posizioni giudicate “non conformi” ai dettami del pensiero unico cattolicamente corretto;

accetta tristemente di non capire più quale accidente di dottrina viene insegnata ai loro figli nel catechismo di preparazione alla prima comunione;

rifiuta di chiamare “fratello” il Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib, i seguaci di Dianetics, un devoto di Zoroastro ma anche un cattolico che si inginocchia adorante davanti alla statua della pachamama chiamandola “madre”;

ostenta, di tanto in tanto, la propria partecipazione ad una molto divisiva recita del Santo Rosario a Santa Maria Maggiore per invocare l’aiuto di Maria Immacolata contro l’apostasia imperante.

Questo sarebbe lo zelo amaro? Quello zelo cattivo che separa da Dio e conduce all’inferno? No, caro Gulisano – lo dico con pieno rispetto per le sue posizioni alle quali tuttavia intendo con forza controbattere – non posso accettarlo. La difesa della tradizione espressa da una realtà viva (seppur minoritaria) di cattolici non può essere giudicata con queste sue parole: “Ancora oggi si riscontra questo zelo amaro, parente stretto dell’ipocrisia, nell’atteggiamento astioso e superbo di chi condanna senza pietà”. Qui non c’è nessun astio, nessuna superbia. Semmai c’è un Golia che, da anni, non solo sta prendendo a calci e pugni un Davide ma che, addirittura, lo ammonisce a non azzardarsi a reagire poiché questo non sarebbe fraternamente cattolico ma solo la dimostrazione di essere un sepolcro imbiancato. Siamo entrambi credenti ma a questa sua rappresentazione della realtà proprio non mi sento di aderire.

E ancora. Perché, di fronte alle giuste reazioni espresse dalla grande maggioranza di questa generazione di cattolici emarginati, si vogliono invece sottolineare gli esempi – quasi sempre confinati nella fetida palude di certa comunicazione social – nei quali una giusta rivendicazione della propria identità di fedeli “normali” scade, purtroppo, in un’inutile e astiosa contrapposizione o, peggio, nell’insulto? Si guardi alla luna e non al dito.

Non è corretto, a mio parere, instradare una questione così delicata e importante – come la temperie che sta attualmente coinvolgendo la Chiesa cattolica – nella logica di quelli che una volta venivano indicati come “gli opposti estremismi”. Siamo invece di fronte a un nuovo Magistero e ad un diverso impianto dottrinale (per non parlare della pastorale) che non costituisce una delle due polarità del sistema ma rappresenta, semplicemente e tristemente, il tentativo di realizzare un grande progetto. La Nuova Chiesa Universale che dal tempo di Lutero, passando per le diverse “Rivoluzioni” laiche succedutesi dal 1789 in poi, è stato il sogno di un mondo che vuole liberarsi dall’impiccio del Dio trinitario. Contro questo disegno, mi permetta, non si stanno schierando gli zeloti della purezza canonica che non esitano a collocare motu proprio all’inferno chi sgarra dai binari dottrinali. I motu proprio devastanti li lasciamo volentieri a qualcun altro (e vorremmo tanto che costui ne scrivesse altri da poter invece apprezzare insieme).

Quanto alla citazione sul Giansenismo, ritengo piuttosto incauto averla presentata quasi come termine di paragone rispetto all’attuale contrapposizione tra tradizionalismo cattolico e Chiesa modernista. Si è inteso confrontare due fenomeni talmente diversi come genesi, caratteristiche e contrasti (per non parlare degli elementi teologico-dottrinali oggetto del contendere) da rendere impraticabile qualsiasi loro relazione. Se poi, con questo esempio, l’autore intendesse acclarare – mutatis mutandis – una possibile liceità (forse un auspicio?) di drastici provvedimenti che la Chiesa di Roma potrebbe prendere nei confronti del mondo cattolico tradizionale, fino ad arrivare alle estreme conseguenze, bè sarebbe veramente il colmo! Ma chissà, da ipocriti zeloti ad eretici da mettere al rogo, il passo potrebbe anche essere breve. Mettendo da parte l’ironia, non credo proprio che Gulisano volesse arrivare a tanto; in ogni caso le mie perplessità sulla sua citazione permangono più forti che mai.

Mi avvio alla conclusione, con un messaggio a tutti coloro (e sono molti) che paventano nei pensieri, parole ed opere dei credenti non allineati col modernismo – oggi imperante nella barca di Pietro – un pericolo per la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica e per la loro stessa salvezza. Affido questo messaggio alle parole che un giovane sacerdote, don Mattia Tanel, ha avuto la bontà e la carità di scrivermi in una sua edificante lettera. Il tema è quello dell’obbedienza di noi cattolici di fronte alla rivoluzione modernista e, per conseguenza, della nostra fedeltà alla Chiesa temporale cattolica. Eccone un breve ma significativo stralcio.

Mi riferisco all’alternativa secca che lei a volte sembra prospettare tra “obbedienza, obbedienza, obbedienza” e la ricerca di altre strade, altri luoghi dove vivere la fede, luoghi diversi da “questa Chiesa cattolica temporale”.

Lei sa bene che la teologia cattolica prevede la disobbedienza lecita, o meglio il rifiuto del peccato di “oboedientia indiscreta” (san Tommaso), anche nei confronti del Romano Pontefice. La disobbedienza materiale (che non è il peccato di disobbedienza, né di scisma: san Tommaso distingue bene queste fattispecie) è una risorsa lecita e, secondo il cardinale Torquemada, san Roberto Bellarmino e altri, persino doverosa quando i Pastori della Chiesa deviassero gravemente dalla fede e si trasformassero in aggressori spirituali del gregge loro affidato. È ciò che avviene oggi.

In sintesi, non ci sono due scelte possibili, ma tre: obbedienza servile, obbedienza soprannaturale (= disobbedienza materiale) e apostasia.

Ebbene, ciò che chiedono molti dei tanto vituperati cattolici tradizionali è di poter esprimere la propria disobbedienza soprannaturale. È la strada che questa minoranza sta cercando di percorrere da diversi anni a questa parte – nei modi che le sono consentiti – senza prevaricare chicchessia. Questo modo di vivere il proprio essere cristiano (non il solo, certo) non può essere definito apostasia né, tanto meno, eresia.  Esso vuole dare sostanza ad un atteggiamento in cui l’adesione alla fede non prevede la rinuncia alla ragione. Come diceva Chesterton, “Quando si entra in chiesa ci si toglie il cappello, non la testa”.

Se poi la Chiesa temporale vorrà continuare a demonizzare un dissenso che, col passare del tempo, è assai probabile divenga sempre più diffuso, allora le conseguenze potrebbero essere imprevedibili. Voglio dire che non potremo sorprenderci se decisioni sofferte e difficili come quelle operate da Alessandro Gnocchi (al quale ribadisco la mia più totale solidarietà per gli attacchi ricevuti) si moltiplichino, trasformandosi in una piena inarrestabile.

Voglio però chiudere questa mio contributo con un auspicio di concordia, condividendo con lei caro Gulisano, la parte finale del suo scritto.

Oggi il Depositum Fidei non va semplicemente conservato, ma custodito. L’azione del custodire ha in sé un valore di amorevolezza, di trepidazione, come quello di Maria che serbava il Verbo di Dio «custodendolo nel suo cuore». E in un cuore in cui c’è tale presenza divina non c’è posto per la cattiveria e per lo zelo amaro.

Con sempre viva stima e cordialità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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