Sul film “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti

di Nicolò Raggi

Caro Valli,
nei giorni scorsi ho visto al cinema parrocchiale Il sol dell’avvenire, il film di Giovanni Moretti, detto Nanni.
Tra i più recenti avevo apprezzato Habemus papam, del 2011, dal quale – mi sono accorto poi – Sorrentino ha ampiamente tratto spunto per la serie di The Young Pope.
Quest’ultimo film però è decisamente migliore sotto ogni punto di vista e, a differenza dell’altro che potremmo tutt’al più definire introspettivo, è un film religioso in senso stretto, legato al trascendente.
Diversamente da quanto sostiene Bergoglio, io non credo affatto in un generale avvantaggiamento dell’ateo sul credente, penso però che se un vantaggio ce l’ha è quello di poter raccontare le dinamiche della fede senza la contaminazione del fideismo.
Questo punto di vista produce spesso un impatto con la Verità inaspettato e più immediato, un po’ come il frate che scopre, attraverso la porta socchiusa, Marcellino a parlare col Crocifisso: nulla era stato preparato, predisposto o artefatto e il risultato è di timor et tremor!
Il film è una matrioska al cui interno si gira un film e ha la struttura di una biografia, di un testamento e della confessione che segue al pentimento.
C’è una diffusa domanda di senso che riguarda le parole e le immagini, quello di cui è fatto un film, mentre è formalmente assente quella sul senso della vita. Anche il tema della morte è toccato solo di sfuggita, ma in maniera curiosa: il protagonista, Moretti che finge di essere se stesso nella fiction, invoca la madre: “Mamma, aiutami tu” e, al perplesso collaboratore che lo interroga su cosa stia facendo, risponde con pacifica ineluttabilità: “Invoco mia madre, morta dodici anni fa”.
È un’ammissione forte: in questa finzione che è la vita, perché priva di senso e di scopo, non posso fare a meno di credere in ciò di cui mi professo scettico!
C’è una richiesta di senso estetica: le immagini e le parole di cui quest’arte è composta hanno significato solo se sono veicoli di bellezza, ma mancando chi possa identificare e indicare il bello si ricorre a un patetico autoritarismo basato sul consenso, per cui Renzo Piano diventa l’autorità morale indiscussa da consultare in diretta nel film.
C’è un’ammissione di colpa fatta di ricostruzioni di dialoghi della giovinezza e una richiesta di perdono straziante nei confronti della moglie che lo lascia mentre lui non ha ancora capito il perché, ma ha capito che è questo di cui chiedere maggiormente perdono!
Insomma un film sull’amore, sulla speranza e sul perdono, potremmo dire tranquillamente un Calvario a cui manca ancora la Risurrezione, sostituita dall’utopia marxista e da chi ci crede ancora.

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