Dare a Silvio quel che è di Silvio

di Fabio Battiston

Caro Aldo Maria,

ho letto ed ascoltato, come sempre con grande interesse e rispetto, le tue considerazioni “in morte di Silvio Berlusconi”, riportate sia sul blog che nel dibattito su Triarii TV. Questa volta però – come raramente accade da quando frequento Duc in altum – non mi sento di condividere la tua disamina. Il mio disaccordo non nasce tanto su punti specifici delle tue affermazioni quanto piuttosto su ciò che, a mio avviso, manca del tutto nella tua peraltro serissima analisi. Premetto che nei quasi trent’anni che ci separano ormai da quel 1994, la mia posizione/valutazione nei riguardi della politica del Cavaliere è necessariamente cambiata, direi in modo quasi sinusoidale, in relazione alle diverse fasi che hanno connotato il suo percorso, dentro e fuori dalle istituzioni. Posso tuttavia affermare che, quasi sempre, sono stato una voce fuori dal coro rispetto sia agli odiatori di professione (politici, giornalisti, giudici e intellettuali) ma anche nei confronti di chi ha sempre considerato vita, pensiero e opere di Berlusconi in modo quasi agiografico. È quindi nello spirito di un dibattito proficuo che cercherò ora di illustrare il mio pensiero e ciò che mi rende distante dalla tua analisi.

Dicevo prima di taluni aspetti che, sorprendentemente, non ho trovato nelle tue considerazioni. Il mio, ovviamente, è il punto di vista di chi ha sempre appartenuto – sia pure con accenti diversi – all’alveo di un conservatorismo controrivoluzionario assai poco moderato. Detto ciò, ecco di che si tratta.

Punto primo. Non vi è il minimo accenno sul fatto, ritengo indiscutibile, che la discesa in campo di Berlusconi e la sua vittoria elettorale del 1994 abbiano evitato all’Italia l’instaurazione di un vero e proprio regìme “democraticamente autoritario” di stampo radical-progressista. Un regime che la gioiosa macchina da guerra occhettiana aveva abilmente apparecchiato con l’appoggio nefasto della Magistratura nazionale. Negli anni precedenti, infatti, tutto ciò che operava al di fuori del mondo politico sinistrese post-comunista era stato scientificamente fatto a pezzi dal pool milanese e dai suoi accoliti. “Mani pulite” rappresentava una forma, peraltro non nuova, di vero e proprio colpo di stato. Un putsch mascherato dall’etica di un mostruoso giustizialismo giacobino. L’obiettivo? Togliere di mezzo qualunque potenziale avversario additandolo come nemico del popolo agli occhi di un’opinione pubblica già allora vittima predestinata di un’informazione massmediale partigiana e corrotta. L’episodio dell’Hotel Raphael, versione fin de siècle di Piazzale Loreto, rese plasticamente evidente quale futuro “democratico” avrebbe arriso all’Italia in caso di vittoria della sinistra. Arrivò invece il Cavaliere al quale, io credo, la quota di italiani non progressisti (Montanelli compreso) doveva almeno riconoscere il merito di un esito elettorale fino a pochi mesi prima assolutamente impensabile. Su quest’ultimo aspetto non mi sento di condividere, caro Aldo, la tua convinzione – espressa nel dibattito televisivo – che anche senza Berlusconi, l’Italia fosse già in qualche modo pronta a respingere l’attacco post-comunista grazie, in particolare, all’impetuoso vento leghista che da qualche anno stava soffiando nel paese. La frammentazione politica e le divisioni programmatiche dell’Italia conservatrice pre-berlusconiana erano infatti di tutta evidenza. Inoltre, col nuovo sistema maggioritario, esse avrebbero portato a sconfitta certa anche in caso di successo di singoli partiti non coalizzati.

Punto secondo. La vicenda giudiziaria di cui è stato protagonista/oggetto (si può dire anche vittima?) Silvio Berlusconi non appare nelle tue analisi e questo, con franchezza e onestà, mi ha molto sorpreso. Forse anche tu condividi l’opinione corrente dei suoi detrattori per la quale egli scese in politica per salvare le sue aziende, e se stesso, da decenni di patrie galere? Io ho sempre pensato e sostenuto il contrario. Fu proprio quella sua scelta a condannarlo agli occhi del potere politico progressista. Un potere che gli avrebbe invece fatto ponti d’oro se solo fosse rimasto nell’alveo del suo impero mediatico-imprenditoriale, senza disturbare quelli che avrebbero voluto essere – per decenni – i manovratori della vita del nostro Paese. Tra il 1995 ed il 1998 ebbi modo di lavorare in un’azienda milanese guidata da una persona molto vicina al Cavaliere e alla sua famiglia. Una persona di grandissima dirittura morale e imprenditoriale, senza dubbio non tacciabile di servilismo sia perché estranea agli interessi aziendali di Berlusconi, nonchè simpatizzante del partito dalemiano. Durante un incontro privato questa persona mi confermò, su mia esplicita domanda, che l’azione della Magistratura nei confronti del Cavaliere aveva finalità eminentemente politiche. Quanto alle vere o presunte leggi ad personam di cui è stato spesso definito l’ispiratore, dovremmo tutti ricordare come Berlusconi fu il primo (e forse resterà l’unico) politico italiano colpito da una legge contra personam; una legge che, mostruosità delle mostruosità, fu applicata per lui in modo retroattivo col solo scopo di eliminarlo per anni dalla scena politica nazionale ed internazionale. Sto parlando, per chi non lo avesse capito, della famigerata Legge Severino. D’altra parte quello che la Magistratura ha attuato durante i trent’anni di presenza berlusconiana nella realtà politico-imprenditoriale nazionale ebbe un precedente che, seppur in dimensioni temporalmente più limitate, può essere considerato come una sorta di preparazione per quello di cui si rese capace con il Cavaliere. Mi riferisco al caso Tortora, un pezzo di storia d’Italia che resterà per sempre a dimostrare quanto un’istituzione – che si vorrebbe prestigiosa, indipendente, autonoma ed inattaccabile – possa invece divenire l’emblema della peggiore corruzione etica. Non a caso ho finora parlato di Magistratura e non di singoli magistrati. Se un sistema e la sua governance deragliano o, peggio, funzionano al contrario la colpa non è soltanto di chi agisce consapevolmente contro le regole. La responsabilità, non certo minore, è anche dell’ignavia e della codardia di tutti coloro che, conoscendo dall’interno il marcio dell’istituzione, non lo combattono e non lo denunciano. Per chi volesse deliziarsi con le crudeltà cui fu sottoposto il povero Enzo Tortora dai sacerdoti della Legge è uguale per tutti sarà sufficiente accedere agli archivi multimediali di Radio Radicale; i file di quel processo sono il resoconto completo e dettagliato di quella tortura e di cosa è stata (ed è spesso tutt’ora) la Magistratura Italiana. Ma torniamo ora al Cavaliere.

Il terzo punto che vorrei trattare, e su cui mi trovo parzialmente in disaccordo con te caro Aldo, riguarda il ruolo del Berlusconi imprenditore televisivo – e di quello delle sue televisioni – in rapporto al costume, le abitudini e lo sviluppo/degrado della società italiana sul piano culturale, sociale e politico. Qui il discorso è, a mio avviso, piuttosto articolato e non può essere liquidato (non mi riferisco a te) con generici e semplicistici richiami a conflitti di interesse, televisione spazzatura, condizionamento sulle scelte politiche e così via. Vorrei in questo caso esprimere il mio pensiero con due specifici statements:

  • La televisione berlusconiana – con il supporto di alcuni importanti interventi legislativi, certo, come la Legge Mammì – ha dato la spallata definitiva a un regìme radiotelevisivo massmediale che, pur con innegabili meriti, rappresentava sul piano socio-politico un sistema rigidamente ed esclusivamente controllato dal duopolio Dc-Pci. Si è trattato, indubbiamente, di una spinta al pluralismo. Un pluralismo e una obiettività che sul piano della comunicazione politica – al netto delle talvolta patetiche agiografie del TG4 di Emilio Fede – le reti berlusconiane hanno sempre garantito. Importanti anchor man e giornalisti apertamente schierati a sinistra, come Maurizio Costanzo ed Enrico Mentana, hanno più volte confermato questa realtà.
  • La diffusione della televisione commerciale su scala nazionale ha sicuramente prodotto un oggettivo decadimento socio-culturale. Uno dei suoi effetti più nefasti è stato quello di aver dilatato l’importazione di modelli d’intrattenimento (ma anche di informazione) tipici del mondo anglosassone e, in particolare, di quello nordamericano. Se la società italiana è oggi intrisa di fenomeni e stili comportamentali a essa totalmente estranei sino a qualche decennio fa, lo dobbiamo ai risultati di un martellamento quotidiano fatto di pubblicità indiscriminate, serial televisivi, nuovi format di entertainment e così via. Il gender fluid ed Halloween ad esempio, costituiscono due fenomeni che, pur se di diverso impatto, sono in gran parte ascrivibili a modelli introdotti con il decisivo apporto delle televisioni Fininvest. Tuttavia, se quanto ora descritto è certamente riprovevole, stiamo pur sempre descrivendo un’iniziativa che un soggetto privato viene messo in condizione di fare e che realizza a proprio rischio e con propri investimenti. Il vero problema è invece rappresentato da quella che è stata la risposta data, con qualsiasi governo al potere, dalla televisione pubblica. Essa in questi trent’anni, e con soldi nostri si badi bene, non ha mai rappresentato un argine al decadimento culturale e morale indotto dalle televisioni berlusconiane; al contrario. La beneamata Rai ha sperperato ingentissime risorse perseguendo due unici obiettivi: da un lato inseguire la Fininvest nel peggio del peggio dell’intrattenimento televisivo (azzerando progressivamente tutto ciò che nel servizio pubblico odorava di cultura, arte e formazione “alta”); dall’altro, vomitando il proprio odio politico quotidiano contro Berlusconi per tramite dei suoi opinion leader ed intrattenitori pseudo-culturali presenti in ogni dove sulle varie reti di Viale Mazzini (in barba all’etica di un’informazione pluralista ipocritamente sbandierata e mai realmente applicata).

Concludo questo mio contributo con alcune personali e non benevole considerazioni sul Berlusconi politico, in particolare su quello che è stato il suo ruolo (anche nel periodo di forzato allontanamento dalle istituzioni) nel contribuire, purtroppo, al consolidamento di una triste realtà. Quella di una nazione ormai quasi completamente priva di sovranità, di identità religiosa, culturale e – di fatto – ubbidiente e ossequiosa di fronte a tutti quei poteri sovranazionali (politici, economici, etici e sociali) che stanno da anni costruendo ciò che noi, in questo blog e in altri consessi simili, chiamiamo deep state e great reset.

Io penso che Silvio Berlusconi esaurì la sua reale carica propulsiva “rivoluzionaria” (per il conservatorismo nazionale e per l’intera Italia) già pochi anni dopo i trionfi del 1994 e del 2001. Il suo è stato un progressivo, inesorabile processo di “istituzionalizzazione” che – forse comprensibile in una prima fase – sta oggi arrivando a maturazione con nefaste conseguenze per l’intera coalizione. A rischio neutralizzazione non è tanto Forza Italia (più che altro un comitato elettorale del quale, credo, vedremo presto la dissoluzione in mille rivoli) quanto le due forze “di destra” dell’alleanza. Il Berlusconi statista illuminato, guarda caso rivalutato in questi ultimi anni dal progressismo, stava diventando sempre più il cavallo di troia con il quale trasformare la destra italiana con ciò che piacerebbe immensamente all’establishment italiano e internazionale. Una forza moderata, assolutamente non in grado di interferire con le scelte e le politiche “indiscutibili” dettate in contesti sovranazionali da organismi mondialisti (Onu, G7, G20, Wef, Banca mondiale, Oms, ecc.); un utile idiota messo lì a dimostrare, democraticamente, una rappresentanza politica (fittizia) di una parte non banale della società italiana. Che accadrà ora senza più l’ispiratore di questo disegno? Vedremo. Il Berlusconi istituzionale, come dicevo, lo avevamo iniziato a vedere già diversi anni fa. Il Cavaliere ad esempio, e ne fece sempre motivo di vanto personale, fu il padre putativo di due tra i più lugubri personaggi della politica italiana di questi ultimi quindici anni: Mario Monti e Mario Draghi. Il primo, nominato Commissario europeo nel 1994 proprio dal Cavaliere, fu il Quisling nostrano che operando sotto le direttive dei Gauleiter franco-tedeschi, rese possibile il Colpo di Stato col quale l’Unione europea decise il cambio di governo in Italia chiudendo, sotto le cannonate dello spread, il Berlusconi IV nel 2011. Quel Mario Monti che, anche col plauso berlusconiano, fu presentato come colui che evitò all’Italia l’arrivo della famigerata troika dell’Ue. I risultati furono però i medesimi con il condimento del pianto ipocrita della signora Fornero. E che dire di Mario Draghi, nominato da Berlusconi nel 2005 governatore della Banca d’Italia. Il Draghi della dittatura pandemica, l’assassino di diritti costituzionali al grido di “se non ti vaccini ti ammali e se ti ammali muori”, il servo ubbidiente di Bruxelles e di Strasburgo. Il Draghi alla cui politica e decisioni ha tristemente fatto riferimento la signora Meloni rivendicando la giustezza di certe sue scelte di fronte all’opposizione. E ancora, Berlusconi e il Partito popolare europeo; il suo pluriennale abbraccio mefitico con i socialisti continentali, la difesa ad oltranza dell’Ue e dei suoi disvalori: negazione delle radici greco-giudaico-cristiane dell’Europa, eutanasia, aborto, green economy, gender e compagnia cantando. Poco prima di morire il suo ultimo disegno: l’alleanza del Ppe con le “destre moderate” di cui ho accennato in precedenza, l’istituzionalizzazione definitiva di ciò che resta di politicamente non progressista per renderlo accettabile e funzionale alla dittatura del pensiero unico imposta dalle oligarchie franco-tedesche e dal becero radicalismo lib-dem d’oltreoceano. Al tempo stesso ottenere l’isolamento di ogni forma di reale alternativa antieuropea mettendo all’angolo forze importanti come la Lega, gli spagnoli di Vox e il Rassemblement National di Marine Le Pen. L’assenza di Fratelli d’Italia in questo elenco non è casuale; la sua leader, infatti, sta ormai traghettando il partito verso il “mare della tranquillità”, altro che sovranismo patriottico. I peana che la signora sta ricevendo a piè sospinto da Washington a Bruxelles e da Berlino a Strasburgo lo stanno ampiamente dimostrando.

E chi ci sarà allora, in duomo, a rendere omaggio alla salma del Cavaliere? Un presidente della Repubblica e un presidente del Consiglio mai così politicamente uniti ed omogenei l’uno all’altra. Vicini come non mai all’adorata Unione europea e alla sua sacerdotessa Von der Leyen; abbracciati al neonazista Zelens’kyj dentro un semovente PzH 2000 gentilmente offerto dal nostro esercito; ansiosi di dissanguare le finanze delle famiglie italiane con la green economy ecosostenibile; uniti nel denunciare le colpe dell’uomo nel riscaldamento climatico; solidali nel condannare chi osa criticare il Gay Pride. E che la benedizione di Silvio discenda su di loro e con loro rimanga sempre!

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Caro Fabio,

grazie per avermi scritto. Con il mio veloce articolo scritto a caldo subito dopo la morte di Berlusconi non pretendevo certamente di esaurire le infinite questioni legate a una figura tanto complessa. Mi sono limitato ad alcune pennellate, dedicate più che altro a contestare l’idea assai diffusa secondo cui con la morte di Berlusconi sia finita un’epoca (la mia tesi è che i germi del berlusconismo, sotto altri nomi, siano ancora in circolazione). Quanto al dibattito ospitato da Triarii Tv, ho preferito cercare qualche spunto di riflessione un pochino più originale piuttosto che tornare sulla questione del conflitto tra Berlusconi e i magistrati.

Proprio a proposito del dibattito, non ho mai sostenuto, come tu invece mi fai dire, che “anche senza Berlusconi l’Italia fosse già in qualche modo pronta a respingere l’attacco post-comunista grazie, in particolare, all’impetuoso vento leghista che da qualche anno stava soffiando nel paese”. Ho detto invece che Bossi, volendo fare a ogni costo della Lega un soggetto nazionale, tradì l’idea originaria del federalismo e così tradì tutti quelli che, come il professor Gianfranco Miglio, speravano che l’Italia potesse imboccare la strada della riforma in senso federale.

Secondo punto: l’idea che Berlusconi abbia fatto da argine al comunismo. Ne siamo proprio sicuri?  All’epoca la gioiosa macchina da guerra di occhettiana memoria fu sconfitta sul piano elettorale, ma l’indecente macchina del divertimento messa su dal Cavaliere fece dilagare a sua volta una visione materialista della vita, del tutto estranea alla visione cristiana. Sul piano culturale non ci fu argine. Direi che ci fu una paradossale convergenza.

Tu poi dici che “la vicenda giudiziaria di cui è stato protagonista/oggetto (si può dire anche vittima?) Silvio Berlusconi” non appare nelle mie analisi. Ma quando io parlo del “peccato originale” di Silvio, cioè dell’essere sceso sul terreno della politica senza disfarsi delle sue aziende e dei suoi interessi commerciali, parlo proprio di questo. Come aveva profetizzato Montanelli, la pretesa di Berlusconi – fare politica e puntare a Palazzo Chigi restando a capo delle sue imprese (con l’aggravante che erano imprese nel campo dei mass media e quindi del consenso) – avrebbe portato a un’infinità di equivoci, sospetti e conflitti, rispetto ai quali i magistrati non avrebbero potuto restare estranei. E così è puntualmente avvenuto.

A.M.V.

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