La Chiesa e quella “gravità spirituale” che combatte l’apostasia dei vertici

di Rita Bettaglio

Vivo nella Chiesa e vedo da quali fremiti è attualmente percorsa e dilacerata. Di conseguenza mi domando: quante chiese, ormai, ci sono all’interno della stessa Chiesa cattolica?

Una, nessuna o forse centomila? In alcuni momenti, specie oggi, essa ci appare emulare il Vitangelo Moscarda di pirandelliana memoria che vuole ricostruirsi un’esistenza svincolata dai condizionamenti imposti dalla natura. Gengè vuole disperatamente affermare sé stesso, scavalcare la propria ombra, ma finisce per dissolversi in un gender ante litteram.

Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo, conclude il Moscarda.

Un ecclesiastico delirio onanistico (e per sua natura sterile) esita in fastosi e tautologici sinodi sulla sinodalità. Una spirituale applicazione della teoria del gender: la chiesa sempre nuova, sempre in cammino, sempre mutante.

Nel frattempo assistiamo, eziandio, a un fenomeno inatteso.

Una sorta di benedetta “gravità spirituale” fa in modo che i vertici della Chiesa cattolica accelerino verso l’abisso ma nasca una resistenza sempre crescente man mano che si scende nella gerarchia fino ad arrivare al popolo.

Più Francesco e l’alta gerarchia adulante flirtano col mondo, corrompono la dottrina e vilipendono la fede dei piccoli, più una sorda e muta resistenza cresce dove meno lo si aspetterebbe.

Sempre più sacerdoti (e vescovi), pur ancora nel nascondimento, stanno facendo i conti con quella sensazione di sano fastidio, di prurito ingravescente, davanti allo smantellamento pezzo a pezzo della dottrina e della fede cattolica.

L’attacco al sacerdozio cattolico è stato digerito da tutti finché era mascherato e adombrato, inzuccherato e inzaccherato da paroline dolci. Ma ora che è palese, ora che i seminari sono vuoti (e tali devono restare) e i preti (e i vescovi) ancora credenti si trovano in una situazione drammatica, sempre di più sono quelli che, finalmente, sussultano.

Che l’attacco al sacerdozio sia in realtà un attacco alla Santa Messa è ogni giorno più evidente. Quest’ultimo passo, questo decisivo gradino, che al principe di questo mondo pareva cosa fatta, sta diventando indigesto a molti.

Molti sacerdoti stanno riscoprendo il loro sacerdozio, proprio perché si tenta di privarli di esso. Diceva, in camera caritatis, un sacerdote diocesano novello: “Tentano d’insegnarci che il sacerdozio non è importante, ma noi sentiamo, sappiamo che non è così”. Certo, perché l’ordine è un sacramento che imprime un carattere e nessun teologo, nessun uomo o angelo, potrà mai cancellarlo.

Il tempo degli avvelenatori di pozzi è contato. La gente coglie istintivamente le note sempre più stonate. Piazza san Pietro è sempre più vuota.

Il sensus fidei fa girare sui tacchi anche chi non pensava neppure di averlo.

Cercano laici a cui affidare le parrocchie, perché così sono gli ordini apicali. Ma i laici disertano perché, pur flagellati da decenni di cattiva pastorale e catechesi, sanno da sé che la Messa è la Messa e ci vuole uno straccio di prete per dirla.

E poi hanno altro da fare che scimmiottare il prete a costo zero.

Hanno pensato, gli intelligentoni che auspicano di dare le parrocchie ai laici, che ogni operaio è degno della sua mercede? Che questi laici andranno pagati e che coi laici non si può far valere alcun peloso principio di autorità per farli lavorare gratis?

La distanza tra i capi e il popolo, sempre più disperso e confuso, s’ingigantisce d’ora in ora.

Deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo (Ef 4, 23), incita l’Apostolo. Lasciate giù, come un peso estenuante, la menzogna, e parlate secondo verità, ciascuno al proprio prossimo.

E la verità è che la Chiesa è una, santa e cattolica; che è il corpo mistico di Cristo e che nemmeno uno iota passerà di ciò che essa insegna infallibilmente.

Quelli che erano scappati coi birocci e coi camion avevano raggiunto gli altri disgraziati accampati con le bestie e la roba salvata nei paesi vicini e tutti, lasciati i ragazzi a guardare i carri, s’erano buttati verso il paese con birocci, moto e biciclette e si erano ritrovati sulla strada dell’argine davanti al loro paese oramai allagato.

Guardavano muti il paese che era lì sotto, a mezzo miglio e ognun vedeva la sua casa anche se non la vedeva. Nessuno parlava: le vecchie piangevano senza strepito. Stavano lì a veder morire il loro paese, e lo vedevano già morto.

“Non c’è un Dio!”, disse con voce cupa un vecchio.

In quel momento suonarono le campane. Suonarono le loro campane, non c’era da sbagliarsi, anche se i rintocchi avevano qualcosa di diverso.

Tutti gli occhi adesso guardavano soltanto il campanile” (Giovannino Guareschi, La campana).

Voi suonerete le vostre trombe, e noi suoneremo le nostre campane…

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