Le crisi internazionali e le tre illusioni dell’Occidente. La dura realtà

di Jakub Grygiel*

Alcune crisi simultanee minacciano la stabilità globale e stanno mettendo a dura prova l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti, sotto il profilo sia del potere effettivo sia della capacità di analizzare la situazione.

La guerra della Russia in Ucraina, l’aggressione di Hamas e dell’Iran contro Israele e le minacce della Cina nel Pacifico hanno qualcosa in comune: sono tutti prodotti delle grandi ambizioni di efferati regimi di stampo imperiale.

Ci sono illusioni che l’Occidente ha coltivato a lungo, permettendo l’aumento di queste minacce e lasciandolo impreparato. Tre illusioni, in particolare, sono profondamente radicate nella mentalità americana ed europea.

La prima illusione è che solo i leader siano responsabili delle guerre e che questi Paesi siano rivali dell’Occidente solo a causa della cattiva leadership cui sono sottoposti. Al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nel settembre 2022, il segretario di Stato americano Antony Blinken disse a proposito dell’invasione dell’Ucraina: “Un uomo ha scelto questa guerra. E un solo uomo può porvi fine”.

Non è così. La guerra non è solo di Vladimir Putin; è la guerra della Russia. In un sondaggio del giugno 2022, il 75% dei russi appoggiava decisamente l’azione delle forze militari di Mosca. Un intervistato sosteneva che “la guerra è la locomotiva della storia” e che per la Russia era giunto il momento di affermare la propria indipendenza. Da parte sua, la Chiesa ortodossa russa è un’istigatrice della guerra e ha dato un forte contributo nella formazione di una profonda cultura nazionalista, secondo un’idea di diritto imperiale che si estende ben oltre le stanze del Cremlino. Il risultato è che la Russia può subire perdite massicce – circa mille al giorno, secondo alcune stime – senza che ci sia un forte contraccolpo politico.

L’ostilità nei confronti dell’Occidente da parte di Russia, Iran, Cina e persino di Hamas ha profonde radici culturali e un altrettanto profondo sostegno popolare, ed è questo appoggio che consente agli attori di impegnarsi a lungo nei conflitti, anche se devastanti. Ecco perché la rimozione di un cattivo leader o di un regime non necessariamente trasforma un nemico dell’Occidente in un attore responsabile e affidabile.

La seconda illusione coltivata dall’Occidente è che le organizzazioni internazionali e la governance globale possano superare le controversie politiche nazionali e regionali. Poiché per molti politici occidentali queste istituzioni sono le fonti dell’ordine internazionale, l’obiettivo primario delle loro diplomazie è portare il maggior numero possibile di Stati, che siano democrazie o meno, sotto l’ombrello pacificatore della governance globale. Il presidente Franklin D. Roosevelt sperava che l’Unione Sovietica si sarebbe comportata meglio una volta entrata a far parte delle Nazioni Unite e fu disposto a rimandare i duri negoziati con Mosca per farla partecipare alla fondazione dell’Onu. Allo stesso modo, si è pensato che la Cina sarebbe diventata un attore responsabile nell’ordine globale una volta entrata nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e diventata membro di istituzioni come l’Organizzazione mondiale del commercio. Ma esattamente come la Russia, membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Cina non è diventata un attore geopolitico amichevole verso l’Occidente dopo aver partecipato per più di due decenni all’Omc. Nella percezione occidentale il potere formativo delle istituzioni internazionali è stato esagerato e la grande strategia basata su di esse ha lasciato l’Occidente impreparato ad affrontare una dura concorrenza che comprende anche il ricorso alla guerra, come stiamo vedendo.

La terza illusione dell’Occidente è che maggiori scambi e ricchezza producano automaticamente pace. Per decenni la politica estera tedesca ha seguito il principio del “cambiamento attraverso il commercio”. Berlino pensava che il commercio con la Russia, la Cina e altri attori problematici avrebbe attenuato la loro ostilità e li avrebbe trasformati in partner affidabili. Allo stesso modo, gli Stati Uniti pensavano che il commercio con Cina avrebbe gradualmente modificato le priorità di Pechino creando una classe media amante della pace e legami diplomatici più profondi.

Anche questa scommessa dell’Occidente si è rivelata sbagliata. L’espansione degli scambi commerciali non ha superato le differenze ideologiche e le rivalità politiche. La verità è che quando gli Stati si impegnano nel commercio lo fanno per diventare più ricchi e competitivi, non per la pace. Anzi, ci sono Stati che spesso vogliono diventare più ricchi per poter meglio attaccare i loro nemici e dominare sugli altri. Come la Russia si è comportata con l’Europa dai tempi di Pietro il Grande, oggi la Cina sta cercando di intensificare gli scambi con gli Stati Uniti e l’Occidente non per amore della pace, ma per ottenere un vantaggio sui suoi partner commerciale.

Il commercio può favorire il desiderio di potere. Molti Stati che hanno commerciato e sono cresciuti economicamente hanno contemporaneamente sviluppato grandi capacità di proiezione di potenza, il più delle volte attraverso le attività marittime. Venezia nell’XI secolo, la Gran Bretagna nel XVII, la Germania e gli Stati Uniti a cavallo del XX secolo: tutte queste potenze hanno sostenuto i propri commerci con potenti flotte che hanno portato a grandi scontri.

Vediamo che la potenza militare, non l’interdipendenza, dà agli Stati la capacità di agire nel loro migliore interesse senza vincoli imposti da altre potenze. I rivali dell’Occidente si sono armati mentre noi, soprattutto l’Europa, eravamo legati alla speranza che il commercio avrebbe reso inutile le altrui risorse militari.

In definitiva, le profonde inimicizie etniche, ideologiche e politiche non possono essere superate attraverso né cambi di leadership, né organizzazioni internazionali né scambi commerciali. Possono essere controllate, e quando necessario sconfitte, solo attraverso il potere militare.

*docente di Studi politici all’Università Cattolica d’America, consigliere senior della Marathon Initiative, visiting fellow della Catholic University of America e della Hoover Institution

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Fonte: The Wall Street Journal

Illustrazione di Martin Kolzlowski

 

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