Su Rupnik e la giustizia vaticana

di Vincenzo Rizza

Caro Valli,

la recente decisione del Papa di derogare alla prescrizione per consentire lo svolgimento di un processo nei confronti di Rupnik è stata accolta con entusiasmo dai mass media (qui, per esempio). Il gesto del Pontefice è stato visto con favore, segno dell’attenzione verso gli abusi e le loro vittime.

Non intendo entrare nel merito delle responsabilità del prelato e delle coperture che sembrerebbe aver avuto negli anni e di recente anche dai più alti vertici vaticani e delle ragioni che hanno spinto Papa Francesco alla deroga. Mi interessa di più esaminare sotto il profilo tecnico questa scelta, che ritengo contraria ad ogni principio di civiltà giuridica e pura espressione del potere autoritario del Pontefice.

La prescrizione è un istituto che determina l’estinzione del reato in ragione del trascorrere del tempo. Lo Stato, infatti, quando è passato un tempo ritenuto eccessivamente lungo in relazione alla gravità del reato, rinuncia a perseguire il suo autore; e ciò sia per motivi di economia processuale, sia perché il trascorrere del tempo rende socialmente meno sentita l’esigenza della tutela penale (anche nell’ottica rieducativa della pena) e più difficile per l’imputato l’esercizio del diritto di difesa.

In italia vige il principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole al reo. Evidenti le ragioni: non si può punire un comportamento per un fatto che, al momento della sua commissione, non era sancito come reato da alcuna legge preesistente. Allo stesso modo non si può, dopo la commissione del fatto, inasprire le pene previste o modificare in pejus le circostanze che determinano l’estinzione del reato (quali la prescrizione): ciascuno ha diritto di sapere con anticipo non solo quali sono le conseguenze del suo agire, ma anche quale il tempo entro cui lo Stato potrà esercitare le sue prerogative, incluso l’esercizio dell’azione penale. In mancanza si rientra nell’arbitrio con il serio rischio che lo Stato possa esercitare l’uso della forza in modo autoritario e persecutorio.

La scelta del Papa di modificare le norme in corsa (peraltro non la prima, se solo si considerano i numerosi rescripta pontifici emessi nel processo al cardinale Becciu, volti a modificare il giudice naturale e ad agevolare il compito dell’accusa), pur costituendo legittimo esercizio del potere autoritario che compete al Pontefice, appare in evidente contraddizione non solo con principi giuridici consolidati e universalmente riconosciuti nei Paesi democratici e liberali, ma anche con le recenti riforme volute dallo stesso Pontefice per (almeno a parole) adeguare la giustizia vaticana alle esigenze di giustizia sostanziale e ai parametri sviluppati dalla comunità internazionale.

Il problema, allora, non è difendere o no un prelato dalle accuse di abuso ma difendere la credibilità della giustizia vaticana che dovrebbe costituire esempio per tutti i Paesi, democratici e non, di sana applicazione dei principi del giusto processo. La giustizia divina non è neppure avvicinabile dalla giustizia terrena, ma uno sforzo andrebbe comunque fatto.

Quanto a Rupnik, la punizione più gravosa (ove fosse confermata la sua colpevolezza) potrebbe essere non il carcere, ma la rimozione delle sue opere; non perché scandalose, ma perché, come ho scritto in passato, semplicemente brutte. Non c’è peggior punizione per un artista (o presunto tale) che relegare i suoi (sempre presunti) capolavori nel dimenticatoio. Parafrasando Flaiano, il dramma del genio compreso è niente se paragonato al disappunto dell’artista mediocre compreso (nella sua mediocrità).

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