“La mia debolezza e la mano di Dio”

di Rita Bettaglio

Ho iniziato a recitare interamente l’Ufficio Divino monastico. Sono pochi giorni e per ora sono travolta dalla sua bellezza e complessità. In quest’impresa tocco per mano la mia debolezza e vedo all’opera la mano di Dio.

Ho fatto un po’ di conti e ho deciso di provare ad alzarmi alle quattro la mattina per il Mattutino: non so di preciso quanto durino gli uffici e poi c’è la lectio.

Mi alzo alla mattina alle quattro: tutto è buio e sono sola. In monastero, almeno, ci sono le altre monache e, solo a vederle, danno coraggio. Il sonno nei lineamenti degli altri tranquillizza e ci si sente subito meglio, si ha il senso di essere povere creature ma, come dice il capitolo di sesta, alter alterius onera portate. E poi in coro c’è sempre qualcuno che ci appare messo peggio di noi e scatta lo spirito di appartenenza e di protezione: cerco di cantare anche per quella sorella.

Ma qui sono sola e il primo pensiero, uscita brutalmente dalle tiepide brume del sonno, istintivamente è cercare se ci sia al mondo un motivo per ritornarvi. Ma non c’è e, per di più, ho deciso io di recitare l’Ufficio. Quindi…

Il Mattutino è lungo e ancora misterioso per me. Lo recito ad alta voce per combattere il sonno che non vuole saperne di lasciarmi. Oggi, feria, ci ho messo cinquanta minuti; ieri, domenica, oltre un’ora perché ci sono tre notturni e il bellissimo Te Deum che, da solo, vale tutto l’ufficio. Emergono dolci ricordi di parecchi decenni fa.

Il sonno è passato ma il corpo mugugna: vorrebbe muoversi e, invece, deve stare lì, senza sfogo, e pazientare. Morde il freno come un cavallo bizzoso. È un ottimo esercizio per lui, ma impegnativo.

Il Mattutino finisce ed è l’ora della lectio. In casa non c’è coro né scriptorium, bisogna arrangiarsi. D’altra parte anche san Benedetto nella grotta di Subiaco doveva stare un po’ alla spera in Dio.

Un’ora di lectio: bellissima, ma così abbondante che mi supera da tutti i lati e mi travolge. Ogni parola apre subitaneamente mille pertugi e vicoli dell’anima. Sono come i nostri caruggi: non finiscono mai.

Ci avrebbero travolti acque impetuose, dice il salmo. Sono le acque della passione, dell’uomo vecchio, carnale, che di fronte a tanta bellezza vorrebbe accaparrarsela tutta, trattenerla, possederla. Il monaco, invece, accetta che essa scorra dentro e su di lui, senza controllo, senza afferrarla con voluttà. A poco a poco ne è dilavato: dalla Parola di Dio e dall’Ufficio Divino.

Lui deve crescere e io diminuire, disse il Battista, il più grande tra i nati di donna. Ed egli era profeta e monaco. Io invece mi arrabatto e a ogni lettura del testo (se ne consigliano due o tre, lente) non riesco ad andare avanti liscia, ma m’inciampo di continuo e mi fermo, di fiore in fiore. Ho bisogno di disciplina. Tanta.

La purificazione del monaco dura tutta la vita, mi ha detto ieri il confessore. Deve avere pazienza. Mi faccio un po’ di caffè perché il mio corpo lo reclama.

Lodi: s’annuncia l’aurora. Aurora cursus provehit, aurora totus prodeat, in Patre totus Filius et totus in Verbo Pater. L’aurora procede nella sua corsa: si mostri tutto aurora, tutto il Figlio nel Padre e tutto il Padre nel Verbo, canta l’inno di sant’Ambrogio. Il Signore viene con potenza, sul carro alato e porta la luce: oriens ex alto.

Sistemo la camera e poi recito Prima. Il sole ha già preso possesso del cielo, segno che anche per oggi Dio ci concede il suo calore e la sua benevolenza.

Cognovit figmentum nostrum: sa che non potremmo vivere sempre nel buio della notte e ci usa misericordia.

Esco per salire al monastero per terza e la Santa Messa: l’aria è tersa e pungente. Il respiro mi si apre e ringrazio Dio di questa giornata, iniziata nell’intimità della notte e che prosegue ora alla luce del sorriso dell’Altissimo.

Bene omnia fecit, surdos fecit audire et mutos loqui. Ha fatto bene ogni cosa: ha fatto udire i sordi e parlare i muti.

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