Golpe nella Chiesa. Cronache dalla sovversione

Esce in questi giorni il libro Golpe nella Chiesa. Documenti e cronache sulla sovversione: dalle prime macchinazioni al papato di transizione, dal Gruppo del Reno fino al presente (Edizioni Radio Spada, 306 pagine, 25 euro). L’autore è don Andrea Mancinella, la prefazione di don Curzio Nitoglia, la postfazione di Aldo Maria Valli.

Il piano inclinato della sovversione, il vero e proprio golpe perpetrato nella Chiesa, è spiegato nei dettagli, con un poderoso apparato di note. Dall’esultanza massonica per le tappe della rivoluzione all’inquadramento delle idee eterodosse, dai documenti che smascherano l’impostura fino all’analisi dei suoi frutti velenosi, il libro di don Mancinella fornisce un esame chiaro, inoppugnabile e a tratti stupefacente di ciò che da tempo succede nel cuore della Cristianità. Questo «ottimo libro» – così lo definisce don Curzio Nitoglia nella prefazione – lascia ammutoliti per la precisione dello sviluppo logico e per l’ineludibilità delle conclusioni.

Qui vi propongo stralci della postfazione.

***

di Aldo Maria Valli

Qualche volta mia moglie ed io, a causa di alcuni acciacchi, dobbiamo rinunciare alla messa vetus ordo. Nella nostra città la messa apostolica non è celebrata. Per andarci dobbiamo metterci in viaggio in auto, ma alla nostra età succede di non poter guidare, e così ripieghiamo sul novus ordo, celebrato nella chiesa poco distante da casa. È una soluzione? No: è un problema.

Non sto a elencare tutto ciò che nella messa riformata ci disturba e ci rattrista, né faccio l’elenco delle scempiaggini che sentiamo pronunciare da sacerdoti cattolici ormai solo di nome. Ne ho parlato tante volte e certamente il lettore di queste pagine non ha bisogno di tornarci sopra. Dico solo che ogni volta usciamo dalla chiesa ponendoci la stessa domanda: come è stato possibile ridurci così? Come ha fatto la nostra santa madre Chiesa cattolica a trasformarsi in questa cosa che non si sa più che cosa sia, un po’ brutta copia del protestantesimo, un po’ ONG umanitaria, un po’ luogo di celebrazioni melense, un po’ spacciatrice di misericordia contraffatta?

Come tutto ciò sia successo lo spiegano bene le preziose pagine che precedono queste mie noterelle. Ci sono i nomi e i cognomi. Ci sono le date e le circostanze. Ci sono le responsabilità. E ci sono anche i nomi di quelli che coraggiosamente si sono opposti. È una storia che, alla luce della situazione odierna, mette una tristezza infinita, ma va conosciuta. Anche per evitare certi abbagli.

Jorge Mario Bergoglio ha responsabilità enormi, e il suo pontificato passerà alla storia come uno dei più sciagurati. Dirò tra poco in che cosa questo pontificato è unico. Ma prima occorre ricordare che il papa argentino non è il solo artefice della disfatta. È piuttosto l’ultimo (per ora) anello di una lunga catena. Attribuirgli tutte le colpe, magari sostenendo che non è papa, significa non riconoscere la realtà per quella che è e rifugiarsi nella fantasia. Francesco certamente ha dato un’accelerata, ma la direzione di marcia nasce ben prima di lui.

Il sottoscritto ha aperto gli occhi abbastanza di recente. La svolta decisiva avvenne nel 2016, dopo la lettura di Amoris laetitia. Lettura che dovetti ripetere perché il modernismo sa come camuffarsi e quindi il testo a un primo sguardo, tutto sommato, mi procurò solo un vago senso di disagio. Fu a un secondo esame che il dato di fatto mi balzò agli occhi: il papa stava dicendo in sostanza che Dio ha il dovere di perdonarci e noi abbiamo il diritto di essere perdonati.

Per me quello fu un periodo un po’ complicato. Lavoravo ancora al Tg1, parlavo del papa quasi ogni giorno a milioni di telespettatori e lo facevo, come sempre, da cronista, senza lasciar trapelare le mie riflessioni. Ma cuore e anima erano in subbuglio. Il papa giustificava il peccato e proponeva un’idea distorta della misericordia divina. Nel mio blog Duc in altum esternai ciò che pensavo: scrissi che papa Francesco è un relativista. E le mie riflessioni non passarono inosservate.

[…]

Quando, come succede in Amoris laetitia, emerge la tendenza a mettere al centro non Dio e la sua Verità oggettiva, ma l’uomo con le sue esigenze e i condizionamenti a cui è sottoposto, non si aiuta l’uomo a essere più libero: lo si illude di esserlo. Quando viene spiegato che l’importante non è tanto il contenuto della norma, quanto il modo in cui una determinata situazione è vissuta, in coscienza, dall’individuo, rischiamo di lasciare campo aperto al dilagare del soggettivismo e del relativismo. Non abbiamo più l’uomo in ascolto di Dio, perché consapevole che Dio è Verità e che tale Verità è oggettivamente buona. Abbiamo Dio adattato alla soggettività umana. Non abbiamo più i diritti di Dio e i doveri dell’uomo, ma i diritti dell’uomo e i doveri di Dio.

Ebbene, dirà qualcuno, dov’è il problema? Il problema, rispondo, è che questo è il ribaltamento della nostra fede cattolica. E non è la strada della liberazione, ma la strada della schiavitù: perché lungo questa via l’uomo diventa irrimediabilmente schiavo di sé stesso.

Il dramma della modernità è tutto in questo ribaltamento. E il dramma della Chiesa è di aver fatto proprio il ribaltamento attraverso l’accettazione delle tesi moderniste. L’uomo come Dio. Anzi, l’idolo di sé stesso. Che è il metodo sicuro per condannarsi alla schiavitù e quindi all’infelicità. Quando non c’è più la libertà di seguire il vero bene, ma solo la libertà di interpretare le circostanze a seconda dei propri bisogni e di ciò che è bene in base a una valutazione soggettiva, semplicemente non c’è alcuna libertà. E se non c’è la libertà c’è la schiavitù. E se c’è la schiavitù non c’è la felicità.

Stupisce che uomini di Dio mostrino la tendenza a considerare la legge divina, nella sua oggettività e chiarezza, come un ostacolo sulla strada che porta a Dio, quando invece la legge oggettiva e chiara è l’unico strumento che permette la scelta responsabile e quindi l’autentica libertà. Eppure è quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi.

[…]

Colpa e castigo, si obietta, sono categorie troppo nette. Lungi da essere legislatore e giudice, Dio al più può essere un amico che accompagna. Di qui la fine degli assoluti. Di qui il giustificazionismo, che si nutre di concetti vaghi e indeterminati. Non si sa più quale sia lo spazio della responsabilità, e al posto di un Dio misericordioso che perdona chi si converte mettiamo un Dio comprensivo che giustifica sempre e comunque.

[…]

Ora mi chiedo: in quanto battezzato nella Chiesa cattolica, di quale Dio sono chiamato a essere testimone? Di un Dio genericamente comprensivo o di un Dio autenticamente misericordioso? Di un Dio che cancella la colpa dell’uomo o di un Dio che la assume in Gesù, suo mediatore e mio redentore? Di un Dio che mi offre una consolazione superficiale o di un Dio che mi libera dal peccato? Di un Dio che per amore si è fatto uomo o di un uomo che per presunzione vuole farsi Dio?

[…]

Dobbiamo avere pazienza e non stancarci di tenere la posizione. Se il Signore ci manda questa prova è per il nostro sommo bene. Ecco perché, in modo paradossale ma non troppo, ringrazio il papa argentino. Con lui tutti i nodi sono venuti al pettine, tutte le contraddizioni si sono manifestate. Ora il quadro è chiaro e abbiamo la possibilità di scegliere da che parte stare.

Siccome da tempo vado dicendo e scrivendo che nella Chiesa cattolica si è infilato un pensiero e addirittura un magistero che non sono cattolici, per alcuni sono diventato improvvisamente un tradizionalista. Ci sono amici che, dandosi di gomito, mi guardano pieni di tristezza e dicono: «Poverino. Era una così brava persona, e ora è tradizionalista». Come se mi fossi preso una brutta malattia.

L’etichetta di «tradizionalista» non mi infastidisce. Ma sarei più contento se dicessero che sono tradizionale. Anche perché penso che non si possa essere cattolici senza essere tradizionali. Tradizione viene dal bellissimo verbo latino tradere, consegnare, trasmettere. E quando ricevi un dono così immensamente bello come la fede non puoi fare altro che desiderare di trasmetterla. Possibilmente integra. Magari ci riesci, magari no, ma non puoi rinunciarci.

La voglia di etichettare va in genere di pari passo con l’incapacità di argomentare. Le etichette sono comode, perché evitano la fatica di pensare. Ma questo è proprio il tempo in cui occorre tornare a pensare, perché la crisi della fede e della ragione vanno di pari passo e si influenzano reciprocamente.

Come «Chiesa in uscita», anche «segni dei tempi» è un’espressione che suona bene. E infatti i paladini del Concilio Vaticano II l’hanno eretta a loro vessillo. Ma abbiamo visto dove ci ha portati la richiesta di cogliere i segni dei tempi: la Chiesa a rimorchio del mondo, come se il mondo avesse da insegnare qualcosa alla Chiesa e non viceversa. Ebbene, ora è il momento di tornare a cogliere i segni di Dio.

Clive Staples Lewis raccomandava: quando ci rivolgiamo al buon Dio non confondiamo la richiesta di perdono con la richiesta di essere scusati. «Un uomo – scrive Chesterton in Ortodossia –  ha diritto di dubitare di sé stesso, non della verità», ma noi questa proposizione l’abbiamo rovesciata. Ecco così che «ognuno crede esattamente in quella parte dell’uomo in cui dovrebbe non credere, sé stesso, e dubita esattamente in quella parte in cui non dovrebbe dubitare: la ragione divina».

Dicevo che Francesco è solo l’ultimo anello di una catena, ed è vero. Ma è un anello che ha sue caratteristiche proprie, e ne dobbiamo essere consapevoli. Quando parlo dell’attuale crisi della Chiesa e nella Chiesa alcuni amici cercano di consolarmi sostenendo che di crisi in passato ce ne sono state tante e la Chiesa ne è sempre uscita. Indubitabile. Ma la crisi attuale è un unicum. Non ci sono precedenti perché questa, in effetti, non è l’ennesima crisi. Questo vuole essere l’assalto finale. Qui siamo di fronte a un papa che, su incarico dei poteri che l’hanno sostenuto, fin dall’inizio del suo mandato ha attuato un piano voluto per destabilizzare e rovesciare. Non crisi, dunque, ma rivoluzione. Un capitolo nuovo, e rivelatore, della guerra modernista alla Chiesa cattolica.

Diciamolo ancor più chiaramente: con il pontificato di Bergoglio vediamo pienamente all’opera il tentativo di far nascere una nuova religione che dovrà sostituire il cattolicesimo.

In quest’ottica rivoluzionaria c’è uno strumento che ha un ruolo speciale: il sinodo. L’ideologia democratica, spacciata come forma di misericordia, è funzionale al relativismo. Una volta fatto proprio il principio democratico, non è più possibile proclamare una verità assoluta.

Poiché quasi mai giunge a vere e proprie conclusioni sulle singole questioni, il sinodo può apparire, tutto sommato, uno strumento inoffensivo, un’arma spuntata. Non è così. Il sinodo è metodo ed è anche contenuto.

Nicolaj Berdjaev (1874 – 1948), il grande filosofo e scrittore russo, dissidente anticomunista perseguitato dai bolscevichi, scrisse: «Questo tentativo di accostare cristianesimo e democrazia è la grande menzogna del nostro tempo, una ripugnante sostituzione. Il cristianesimo è gerarchico. La rivelazione cristiana del valore infinito dell’anima umana, dell’identico valore di tutte le anime umane davanti a Dio, non è una rivelazione democratica, non è l’uguaglianza democratica. La fratellanza cristiana non è l’uguaglianza democratica. Nel cristianesimo tutto è qualitativo, tutto è irrepetibilmente individuale, tutto è unico, tutto è legato alla persona e quindi è gerarchico».

Non è per caso che, a fronte del golpe in corso nella Chiesa, si avverte la necessità di recuperare il pensiero controrivoluzionario. Davanti a una sovversione, di un rovesciamento, occorre imbottirsi di anticorpi.

Anche l’uscita della Laudate Deum è funzionale al progetto rivoluzionario. L’ecologismo è il nuovo contenuto della nuova religione. Nei documenti di questo tipo, a dispetto del titolo, Dio sparisce e Gesù non è più nemmeno un corollario. E possono forse mancare gli utili idioti? Certo che no. Infatti nelle diocesi si tengono cerimonie per piantare alberi, mentre croce e crocifisso vanno in soffitta.

Nel frattempo, in Vaticano vengono ricevuti e riveriti tutti i rappresentanti del globalismo. Un pellegrinaggio che ci dà anche un’idea visiva di come la rivoluzione sia in atto. La Chiesa e la fede smantellate pezzo a pezzo. Al loro posto, il processo di assemblaggio di un’altra Chiesa, di un’altra fede.

[…]

Solo pochi anni fa tutto ciò che stiamo vedendo poteva configurarsi come una distopia. Nel mio sarcastico racconto fantareligioso Come la Chiesa finì (la prima edizione è del 2017) immaginavo una sequenza piuttosto serrata di tappe che avrebbero coinvolto svariati papi. Nella realtà tutto è avvenuto ancora più in fretta. E con aspetti grotteschi, se si pensa, per esempio, alla promozione di un Tucho Fernández a capo di quello che fu il Sant’Uffizio.

In questa fase l’imperativo è custodire il seme e tenerlo vivo. Sarà il Signore, sollecitato dalle nostre preghiere, a indicarci la strada. Intanto rispondiamo colpo su colpo.

Ti parlano dell’importanza dell’ascolto reciproco e del dibattito? Tu rispondi che l’importante è coltivare la vita spirituale nell’ascolto di Dio.

Ti dicono che l’importante non è giudicare ma accompagnare? Tu rispondi che occorre precisare il fine, altrimenti ci si mette al servizio delle passioni umane.

Ti dicono che il metodo dell’ascolto reciproco è funzionale alla giustizia? Tu rispondi che se l’uomo non ascolta di Dio cade fatalmente nell’ingiustizia.

Ti vogliono convincere che non è più tempo di gerarchie e che bisogna rivolgersi al popolo? Tu rispondi che questa è la via della divinizzazione dell’uomo e che il gregge senza pastore va incontro al disastro.

Ti dicono che in campo morale non bisogna essere rigidi e che vanno considerate le attenuanti? Rispondi che quando la Chiesa condanna non lo fa per il gusto di stroncare, ma perché riconosce il valore unico dell’anima ed ha a cuore il suo destino eterno.

Ti spingono a ragionare in termini collettivi? Sforzati di pensare e giudicare in termini personali.

Ti dicono che giustizia e verità sono custodite dal popolo? Rispondi che giustizia e verità vengono da Dio e non hanno nulla a che fare con criteri quantitativi.

E se ancora coltivi qualche speranza di poter gestire il cambiamento all’insegna di fumose ermeneutiche della continuità, ricorda quanto sosteneva quel grande controrivoluzionario che fu Joseph Marie de Maistre (1753 – 1821): «Non sono gli uomini che guidano la rivoluzione, è la rivoluzione che guida gli uomini».

Qualcuno potrà darmi dell’esagerato e dire che parlare di rivoluzione, nel caso del pontificato di Francesco, è uno sproposito.

Lascio rispondere lo stesso Francesco, che nella Ad theologiam promovendam, lettera apostolica in forma di motu proprio con la quale vengono approvati i nuovi statuti della Pontificia accademia di teologia, scrive testualmente: «La riflessione teologica è perciò chiamata a una svolta, a un cambio di paradigma, a una coraggiosa rivoluzione culturale». E lo stesso concetto era stato usato nella Laudato si’, l’enciclica «sulla cura della casa comune».

Dobbiamo ammettere che la parola rivoluzione sulla bocca e negli scritti di un papa suona alquanto sorprendente, per non dire inverosimile. Eppure Francesco l’ha fatta propria, svelando il suo proposito.

La conseguenza di tutto ciò è piuttosto evidente. Come ho già detto in qualche occasione, se vogliamo essere cattolici, oggi, dobbiamo essere controrivoluzionari. Forse questa affermazione può suonare un po’ come uno slogan, ma ciò che mi interessa è il concetto. Essere controrivoluzionari significa battersi, ciascuno nel proprio ambito e secondo il proprio ruolo, per ristabilire l’ordine violato.

Ritengo che questa prospettiva vada indagata a fondo, anche attraverso lo studio dei movimenti antirivoluzionari che si sono manifestati lungo la storia.

Come ebbe a osservare un grande controrivoluzionario quale Juan Donoso Cortés (1809 – 1853), in questa battaglia dobbiamo sapere che ogni parola pronunciata è ispirata o da Dio o dal mondo e proclama la gloria o dell’uno o dell’altro. Si tratta di scegliere da che parte stare e quale linguaggio adottare. Non è possibile astenersi o tentare mediazioni. È una guerra in cui tutti siamo coinvolti: tutti arruolati per ristabilire l’ordine.

Quindi se ti dicono «indietrista» prendilo come un complimento. E combatti ancora più coraggiosamente.

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