Inno alla scuola. Quella vera

di Marco Radaelli

Caro Valli,

di recente ho pubblicato un libro, dal titolo Educare insegnando, che considero il frutto del lavoro di insegnante che da quasi un ventennio svolgo nella scuola superiore. Si tratta in sostanza di ciò che ho potuto scoprire e comprendere negli anni grazie all’incontro con grandi maestri ma in special modo con grandi ragazzi, alunni e alunne, con i quali ho avuto la grazia di poter lavorare. Ed è proprio a cinque di loro, che io chiamo gioielli, che per gratitudine è dedicato questo libro, cercando di mettere in evidenza l’altezza e la profondità cui un lavoro scolastico ben fatto – da parte degli studenti ma anche da parte degli insegnanti – può giungere. Un inno alla scuola come per me dovrebbe essere.

Però… c’è un però. Scriverlo ha prodotto in me un effetto collaterale non desiderato: chiarendo a me stesso quali frutti meravigliosi possa portare un lavoro scolastico ben fatto, in cui studenti e insegnanti sono impegnati nell’avventura del sapere con serietà, desiderio e costanza, sono diventato del tutto insofferente al modo in cui la scuola viene considerata oggi da molte famiglie, da molti studenti, da molti dirigenti scolastici e su su fino al ministero.

Sono sempre stato convinto della necessità che si parlare della scuola anche al di fuori del sistema scolastico, in tv, sui giornali, nei dibattiti. Ora invece mi sto convincendo del contrario. Nella scuola si è ormai introdotto il sistema tutto social della “democrazia da tastiera” per cui il primo che passa si sente in diritto di discutere su qualsiasi argomento, arrivando così all’abominio per cui esperti di una qualche disciplina vengono contraddetti o anche insultati da sconosciuti che non hanno idea di quel che stanno dicendo ma che, avendo letto due o tre articoli sul tema, hanno la presunzione di saperne anche di più di coloro che magari hanno dedicato all’approfondimento di quel tema tutta la loro vita. Così è anche per la scuola, che alla pari di un social qualsiasi è diventato un luogo in cui tutti pensano di saperne di più degli insegnanti che ci lavorano. Studenti che contestano voti pensando di saper valutare meglio dei loro docenti; genitori che arrivano a scuola col dito puntato pronti a insegnare ai docenti il loro mestiere; dirigenti che ascoltano le lamentele di tutti perché ormai le scuole sono aziende e i numeri contano più dei valori e della cultura (non è significativo che oggi non si chiamino più “presidi” ma “dirigenti scolastici”?); politici e ministri talmente presuntuosi da introdurre a colpi di decreto educazioni di ogni tipo, obbligando i docenti a svolgerle anche senza crederci, nella convinzione che la scuola non educhi già di per sé ma abbia bisogno del loro intervento. Insomma, tutti bravissimi a fare gli insegnanti… tranne gli insegnanti (e chiunque abbia un minimo di esperienza all’interno della scuola sa bene di cosa sto parlando e comprende benissimo le mie parole).

Se un tempo si diceva che «gli italiani sono tutti commissari tecnici della Nazionale» per la loro presunzione di saperne di più rispetto al CT su chi convocare e su chi schierare in campo, oggi si può tranquillamente affermare che «gli italiani sono tutti CT della Nazionale e pure insegnanti» (Mi chiedo tuttavia come verrebbe presa la cosa a parti invertite, se fosse cioè un l’insegnante a pretendere di “consigliare” questi signori su come svolgere il lavoro per il quale hanno studiato e si sono laureati, praticandolo magari da anni).

In tutta questa corsa a “insegnare agli insegnanti” quasi fosse l’ottava opera di misericordia spirituale, non ho mai sentito la frase “Lei deve fare bene il suo lavoro”. Che però sarebbe la cosa più sensata da dire.

“Lei deve essere più comprensivo”, “Lei deve essere meno severo”, “Lei deve andare più piano”, “Lei non deve guardare gli errori grammaticali” ( e a volte sarebbe meglio davvero non farlo!), “Lei deve badare meno alla forma e più al contenuto” (cosa voglia dire, poi, non l’ho mai capito), “Lei deve essere meno nozionistico” (come se si potesse argomentare senza contenuti), “Lei non deve chiedere lo studio a memoria” (come se la memoria non fosse un aspetto della nostra intelligenza da allenare come ogni altro) eccetera. Queste parole le sento quasi quotidianamente. “Lei deve insegnare bene”, a contrario, mai (e nemmeno: “Mio figlio deve lavorare bene”). Quando una volta ho provato a dire a una mamma che il suo figliolo dovrebbe provare qualche volta a fare il sacrificio di stare seduto alla sua scrivania per studiare, la risposta che ho ricevuto è stata: “Ah no, professore. Non mi parli di sacrificio. Io non voglio che mio figlio lavori per sacrificio”. E lì ho capito una volta di più di quanto io sia ormai controcorrente e anacronistico rispetto a quello che ci si aspetta dal mondo della scuola e al valore che viene attribuito alla cultura.

Ma c’è ancora qualcuno, caro Valli, che crede alla portata culturale e valoriale della scuola? C’è qualcuno che crede ancora nella cultura, quella vera, quella che si impara nel tempo, con la passione e con il desiderio ma anche con la fatica e il sacrificio?

Sono persuaso che la cultura generi cultura e che, se insegnata bene e imparata altrettanto bene, sia a sua volta una formidabile formatrice di valori malori, di ideali alti, di comportamenti civili; e che basterebbe “fare bene” cultura per provare a rispondere a molti dei problemi sociali di oggi. Non a risolverli, perché per risolverli non basta la scuola, come al contrario molti credono. Ma per mostrare ai ragazzi che c’è un altro modo, più bello, di vivere e di considerare gli altri e la realtà.

Sono convinto che insegnare bene il Dolce stil novo e “Tanto gentile e tanto onesta pare” (o uno dei mille sonetti medievali sul tema) possa dire ai giovani come rapportarsi con le ragazze molto più di un’estemporanea “educazione” all’affettività, che detta così poi non vuol dire niente. Sono convinto che leggere bene L’apologia di Socrate insegni i valori del bene e della cittadinanza più di mille educazioni civiche messe insieme. Sono convinto che spiegare bene il Fedro di Platone leggendo per intero il mito del carro alato insegni molto più su cosa sia il cuore dell’uomo che mille educazioni affettive buttate lì alla rinfusa giusto perché bisogna fare qualcosa. E spiegare bene la storia di un Giusto tra le Nazioni qualsiasi non insegna il valore della libertà e della scelta per il bene contro il male meglio di mille discorsi contro la violenza? I programmi scolastici sono zeppi di argomenti bellissimi che, se scelti con cura e spiegati con altrettanta attenzione, possono trasmettere non solo contenuti ma anche valori e modi di vivere all’altezza della loro umanità.

Ma mi chiedo, caro Valli: c’è qualcuno che sia ancora convinto di questo e voglia ancora lottare per buttare fuori dalla scuola tutto quello che di dannoso è stato introdotto negli anni e che ha sottratto tempo utile all’insegnamento, quello vero?

Ma dopotutto, alla fine, essere considerato anacronistico e fuori dal tempo non mi importa più di tanto. Anzi, a dirla tutta, non mi importa affatto. Di questi tempi, essere considerato anacronistico e fuori dal tempo può addirittura essere interpretato come l’indicazione di essere sulla strada giusta. Siamo così sicuri, infatti, che antico sia di per sé sinonimo di peggiore, e che ciò che un tempo era ritenuto pacifico e scontato diventi sempre meno vero con il passare del tempo?

 

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