Santi e animali / 6. Sant’Antonio e l’asina

di Michela Di Mieri

“La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell’odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la Divina Scrittura impone, essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterle dai loro ambienti. Ma, siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venire meno alla Verità, neppure a costo di scandalo”.

Queste parole senza tempo del grande sant’Antonio da Padova (benché in realtà fosse originario di Lisbona) oltre a dimostrarci inequivocabilmente che nihil sub sole novum rendono pienamente ragione degli appellativi che il frate francescano si è guadagnò durante la sua pur breve vita (morì, infatti, a soli trentasei anni): Doctor evangelicus, conferitogli da papa Pio XII nel 1946, e Malleus haereticorum. Abile, appassionato e infaticabile oratore dalla tetragona preparazione teologica, infiammò della Verità cattolica le piazze di quella parte d’Europa del Duecento, principalmente la Provenza e alcune zone dell’Italia settentrionale, che vedevano crescere e prosperare l’eresia catara, riportandone sempre una schiacciante vittoria, come questa nostra sesta favola vera ci racconta.

Buona lettura!

*

Rimini, anno di grazia 1223.

Sulla pubblica piazza c’è frate Antonio, un francescano dalla grande popolarità, nonostante la giovane età.

Il frate sta predicando agli abitanti della città romagnola, in cui è stato inviato dai suoi superiori, perché sta dilagando a macchia d’olio l’eresia catara – che qui si chiama patara – con grande preoccupazione delle autorità ecclesiastiche. I catari hanno acquisito grande ascendente sul popolo, facendo leva soprattutto sulla corruzione di una buona parte del clero cattolico, irretendolo in una esiziale dottrina manichea radicalmente anticristica. La materia, in quanto prodotto del Male, va combattuta ed evitata il più possibile, con qualsiasi mezzo, anche il più estremo: dall’astensione dal matrimonio e dalla generazione di prole, al sottoporsi a digiuni che spesse volte portano alla morte per consunzione, l’endura, al palese incoraggiamento del suicidio, visto come atto liberatorio dello spirito, principio del Bene.

Ovviamente, Antonio si è gettato anima e corpo in questa missione e, così, quel pomeriggio, eccolo lì a spiegare, con il suo stile semplice, comprensibile da tutti, ma al contempo efficace e convincente, che non è vero che la materia sia opera del Male, perché è creazione di Dio, quindi cosa buona, a tal punto che Dio stesso si è fatto materia, carne, e la Sua carne è ancora presente, quotidianamente, sotto le specie del pane e del vino. E perciò il cibo è buono, il corpo è buono, il matrimonio e la procreazione sono buoni.

E mentre lui è lì a parlare così, ecco passargli accanto, accompagnato dalla sua asina, un animale smunto e mite, il contadino Bonovillo, di ritorno dai campi, un pataro convinto, che niente e nessuno riusciva a persuadere a ritornare alla fede cattolica. Il disgraziato, piegato dalle avversità e dagli anni, aveva visto così tante volte andare in fumo in un amen il frutto del suo assiduo e faticoso lavoro, magari per una grandinata improvvisa, o per l’invasione di un insetto vorace, e aveva patito così tanto i morsi della fame, da convincersi che davvero ci doveva essere un dio cattivo e malvagio che dominava la materia, fonte di tutte le sue disgrazie. A niente erano valse le preghiere della moglie, i discorsi del parroco, neppure le minacce dell’inferno, alle quali l’ostinato contadino rispondeva che l’inferno era questo, sulla terra, del quale lui un giorno si sarebbe liberato, insieme con quel corpo così esigente che gli procurava tanti guai. E che lo lasciasse in pace, una buona volta, quel bacherozzo nero! Cosa ne sapeva, lui, dalle dita rosee e tornite, mica come le sue, piene di calli e storte. Lui cresciuto a libri, oremus e dalla pancia sempre piena!

Mentre gli passava davanti, Bonomillo prese a inveire: “Ecco, ci mancava anche il frate venuto da lontano! Non bastavano i nostri, adesso ce li mandano anche da fuori! Anche i forestieri ci inviano a raccontare le loro storie! Frate!” lo apostrofò, fermandosi. “È inutile che ci vendi le tue frottole! Qui non ti crediamo, vattene, vai a fare la bella vita da un’altra parte!”.

“Bonovillo, pensaci tu a questo frate, tu, che nessun prete ti ha mai messo nel sacco!” lo incitavano i suoi.

Antonio non si arrabbiò, ma cercò di spiegare al contadino quanto grandemente si stesse sbagliando e così i due iniziarono a scambiarsi incalzanti botte e risposte, e la piazza si riempiva di gente curiosa di vedere se Bonomillo la spuntasse sul famoso frate venuto da lontano.

Alla fine, Bonomillo, che non sapeva più come ribattere ad Antonio, disse: “Frate, tu sei bravo a parlare, mentre io sono solo un povero contadino analfabeta. Però, con tutte le tue belle parole e i tuoi ragionamenti non riuscirai mai a convincermi. Io delle parole non me ne faccio niente. Tu devi darmi una prova che quello che sei venuto a raccontarci è vero, altrimenti io non ti crederò. Ti faccio una proposta. La vedi quest’asina? Bene, io la metterò nella stalla, chiusa, e non le darò fieno per due giorni interi. Al terzo giorno, ci ritroveremo qui in piazza, davanti a tutti, metteremo del fieno da un lato, e la tua ostia dall’altro. Se l’asina ignorerà il fieno per venire dal tuo pezzo di pane, allora ti crederò e mi farò cattolico. Ma se ti ignorerà, tu dovrai ammettere che racconti frottole, te ne andrai e né tu né nessun altro prete forestiero metterete più piede nella nostra città”.

Antonio rimase un po’ a pensare: sapeva bene che non si deve tentare Dio, ma capiva anche che in ballo c’erano le anime di Rimini e di chissà quante altre città, perché l’eco di quella sfida e del suo esito avrebbe travalicato i confini della Romagna; e sapeva che, se lui si fosse rifiutato, la gente avrebbe interpretato il suo rifiuto come paura di perdere, e allora Bonomillo avrebbe avuto ragione a dargli del fanfarone e l’eresia catara avrebbe dilagato. Davanti a questa terrificante prospettiva, Antonio, chiedendo silenziosamente perdono a Dio, accettò la sfida e diede appuntamento a Bonovillo per il pomeriggio della domenica.

Il contadino tornò a casa ridacchiando sotto i baffi, convinto che il frate doveva essere davvero matto a pensare che la sua asina affamata avrebbe preferito un  pezzetto di pane a del fieno fresco.
Venne la domenica. Frate Antonio stava celebrando la Messa in una chiesa stracolma come non mai, e intanto anche in piazza sta radunandosi un numero sempre crescente di persone, curiosissime di vedere come si sarebbe risolta la sfida.

Verso la fine della Messa, arrivò Bonomillo, tenendo la povera asina, digiuna da tre giorni, per una corda. Fece gettare un cumulo di fieno fresco davanti all’animale, il quale, affamatissimo, vi tuffò dentro il muso, riempiendosene avidamente le fauci. Poco dopo, uscì dalla chiesa Antonio, vestito con i paramenti sacri, e avanzò verso il punto della piazza in cui l’asina stava finalmente riempiendo il suo stomaco vuoto. La folla lo lasciava passare, facendosi di lato al suo incedere, e si dispose in cerchio attorno all’animale e al frate. Giunto di fronte all’asina, Antonio prese una particola consacrata, la sollevò davanti al viso e disse a voce ferma e alta, rivolto alla bestia: “In virtù e in nome del Creatore che io, per quanto indegno, tengo veramente tra le mani, ti dico, o animale, e ti ordino di avvicinarti prontamente con umiltà e di prestargli la dovuta venerazione”. A queste parole, l’asina smise di mangiare, alzò il muso, guardò frate Antonio e si diresse senza indugio di fronte a lui. Quindi, tra lo stupore generale, piegò le zampe anteriori, quasi come se si stesse inchinando, rimanendo con il posteriore sollevato, e chinò il lungo collo verso terra.

La piazza tacque incredula. Alcune donne si gettarono in ginocchio e si misero a lodare Dio e a chiedere misericordia per la prova a cui era stato sottoposto. Bonomillo, incapace di credere ai suoi occhi, furioso, si scagliò con un frustino sul povero animale, sferzandone la schiena e le reni, gridando: “Alzati, stupida bestia, non vedi che c’è il fieno fresco, qui davanti a te?”. E, rivolto al frate, che seguitava a tenere l’ostia davanti all’asina inchinata e immobile: “Era già piena, evidentemente! Aveva già mangiato quando tu sei uscito dalla chiesa!”. Ma la folla iniziò a canzonarlo: “Bonomillo, il mulo sei tu, che non vuoi vedere quello che c’è davanti ai tuoi occhi! La tua asina è molto più saggia e intelligente di te!”.

Bonomillo dovette rassegnarsi e accettare la sconfitta. Così, si inchinò anche il vecchio contadino e, abbassata la fronte, ammise: “Frate Antonio, riconosco la Verità che tu vai predicando. Ti chiedo di perdonarmi e di riammettermi nella Chiesa cattolica”. Allora Antonio abbassò l’ostia consacrata, la depose nella pisside, si avvicinò a Bonomillo e lo aiutò a rialzarsi. Conducendolo in chiesa, lo prese sotto braccio e gli disse: “Adesso, fratello ritrovato, la prima cosa che devi fare è confessarti.”
La folla, commentando e discutendo sul prodigio a cui aveva appena assistito, iniziò a diradarsi, mentre l’asina poté tornare tranquilla e beata a pascersi del fieno dimenticato da tutti a lato della piazza, muovendo la coda in segno di grande e perfetta soddisfazione.

Le precedenti puntate:

Don Bosco e il Grigio

San Benedetto e il corvo

Romedio e l’orso

Gerasimo e il leone

Sant’Uberto e il cervo

 

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