Quando le religioni muoiono. Sul dramma dei cristiani in Medio Oriente

“Le religioni muoiono”. Scrive così, senza tanti giri di parole, lo storico americano Philip Jenkins (cristiano anglicano) all’inizio del suo libro La storia perduta del cristianesimo (Emi, 352 pagine, 22 euro), nel quale affronta il tema della sempre più precaria presenza cristiana in Medio Oriente. È vero, le religioni possono morire. Succede quando scompaiono i loro fedeli. E i fedeli possono scomparire per più motivi: persecuzioni, genocidi, emigrazioni forzate.

Quanto al cristianesimo, e alla sua difficile situazione attuale nel Medio Oriente, Jenkins, pur raccomandando di non lasciarsi andare a letture superficiali, ammette che la situazione è drammatica sotto molti profili. Proprio nei luoghi in cui questa religione è nata ed ha conosciuto la sua prima espansione (Medio Oriente, Asia Minore, Nord Africa, Penisola araba) la presenza cristiana è ridotta al lumicino e il quadro peggiora di giorno in giorno. Perché? È proprio vero che un ruolo determinante è giocato dall’Islam e che i rapporti tra cristiani e musulmani sono sempre stati segnati da violenze, persecuzioni e sopraffazioni?

Jenkins, da storico qual è, rileva che almeno fino al XV secolo cristiani e musulmani hanno convissuto in una vastissima area che va dall’odierna Turchia fino ai confini dell’India e della Cina. Una coesistenza sostanzialmente pacifica, tanto che nei primi secoli dell’era islamica, ad esempio, alla corte del califfo di Bagdad si potevano trovare  intellettuali cristiani in veste di consulenti. Nello Yemen e nell’Afghanistan c’erano degli episcopati, e in Arabia esistevano quattro diocesi amministrate da altrettanti vescovi. Ancora: nel 1050 nell’Asia Minore c’erano quattrocento sedi vescovili e fino al 1250 quando si diceva “mondo cristiano” si poteva pensare a un universo che si estendeva a est da Costantinopoli fino a Samarcanda, nell’attuale Uzbekistan, e a sud da Alessandria d’Egitto fin quasi all’equatore. Poi per la presenza cristiana è incominciata la fase del ritiro, fino alle tremende persecuzioni dei giorni nostri a opera del movimento jihadista dello Stato islamico, ciò che chiamiamo Isis, Is o Daesh, in un quadro che lascia pochi margini di speranza se pensiamo a quanto ha detto tre anni fa il patriarca caldeo di Bagdad Louis Raphaël Sako: “Se l’emigrazione continua, Dio non voglia, non ci saranno più cristiani in Medio Oriente. Saranno solo un lontano ricordo”.

Per spiegare il perché di tutto questo non esistono risposte semplici. Jenkins scrive che ancora nel 1914 i cristiani costituivano almeno il dieci per cento della popolazione nella vasta area dall’Egitto alla Persia e nella maggior parte delle città c’era una presenza di musulmani, cristiani ed ebrei. Naturalmente ciò non significa, spiega l’autore, che gli ottomani fossero dei liberali tolleranti: semplicemente, la coesistenza delle tre fedi era considerata nell’ordine naturale delle cose. La situazione cambiò in modo repentino durante la prima guerra mondiale, con i massacri e le espulsioni che falcidiarono la comunità armena e quella greca nell’Anatolia, l’odierna Turchia. Se si sommano armeni, greci e assiri, la cifra dei cristiani uccisi o lasciati morire di fame è spaventosa: più di due milioni dal 1915 al 1922.

In seguito, le emergenti nazioni arabe presero di mira i cristiani come obiettivo preferito, tanto che il massacro degli assiri avvenuto in Iraq nel 1933 diede un contributo decisivo alla riflessione che portò l’ebreo polacco Raphael Lemkin a coniare il termine “genocidio”. La spartizione della Palestina fu un altro duro colpo per i cristiani, e se alla fine del secolo scorso l’area composta da Iraq, Siria e Libano poteva ancora essere considerata, insieme all’Egitto copto, un polo importante della presenza cristiana, oggi non è più così. Violenza, fanatismo e persecuzione stanno mettendo fine a secoli di convivenza. Ogni minoranza è diventata obiettivo da annientare, tanto che perfino nel Libano, tradizionalmente multiculturale e multireligioso, il politico Walid Jumbatt ha detto che sia i cristiani sia i drusi si trovano sull’orlo dell’estinzione.

Dunque, fino a che punto si arriverà? Secondo Jenkins, questa è una domanda da occidentali. Nessun cristiano del Medio Oriente se la pone, perché sa già la risposta, e la risposta sta nella tragica esperienza degli ebrei, che appena un secolo fa erano presenti ovunque e ora sono praticamente scomparsi e vivono solo in Israele. Se città come Il Cairo, Bagdad, Aleppo o Damasco erano un tempo anche città ebree, ora non è più così, e presto si potrà dire lo stesso per le comunità cristiane. L’unica eccezione, al momento, è costituita dai copti nell’Egitto meridionale, circa otto milioni, maggioritari in alcune province. Ma nessuno può dire che siano al sicuro.

Nel frattempo, in mezzo a questo quadro segnato dall’intolleranza, ecco i fenomeni nuovi, con l’incremento dei cristiani nei luoghi più improbabili. Parliamo dell’Arabia Saudita, paese di 28 milioni di abitanti nel quale l’Islam è la sola religione ammessa, ma che continua a importare, per le occupazioni più umili, lavoratori africani e asiatici, molti dei quali sono cristiani, in particolare filippini. Chi avrebbe mai potuto immaginare, solo poco tempo fa, che l’Arabia Saudita avrebbe ospitato un giorno più di un milione e mezzo di cristiani? Eppure è così. E negli Emirati Arabi Uniti i cristiani sono ormai il sette per cento, e nel Bahrein e nel Kuwait il dieci per cento. Espulsi dai luoghi in cui sono nati e hanno sempre vissuto, i cristiani appaiono, e aumentano, là dove la loro presenza non era stata prevista.  Certo, sappiamo bene che non hanno la libertà di svolgere attività di evangelizzazione, però in  generale hanno libertà di culto e in molti casi possono costruire chiese. Significativo è che nel 2011 la Santa Sede abbia istituito un nuovo vicariato al servizio di due milioni e mezzo di cattolici che vivono tra Kuwait, Qatar,  Bahrein e Arabia Saudita, con sede episcopale nel Bahrein, dove la nuova cattedrale intitolata a Nostra Signora d’Arabia è stata costruita su terreni concessi dal re musulmano Hamad. Ciò che vale per i cattolici vale anche per le chiese evangeliche e carismatiche, e poi c’è il caso della cattedrale ortodossa di Dubai, intitolata a San Tommaso, che raccoglie più di tremila fedeli.

Se le religioni possono dunque scomparire, possono anche ricomparire dove e quando meno te l’aspetti. Un caso tipico, dice Jenkins, è quello dei musulmani in Spagna: dopo aver dominato, furono cacciati del tutto, ma ecco che ora ricompaiono, tanto che la Spagna oggi ha forse un milione di musulmani, i nuovi moros.

Politica ed economia influiscono in mille modi sulle vicende delle religioni, e la storia riserva sempre sorprese. Ma che cosa insegna la vicenda dei cristiani? Le risposte di Jenkins sono articolate. Da un lato, risulta evidente che, qualunque sia la carica di intolleranza insita in una religione, questa diventa esplosiva quando viene utilizzata dall’ideologia politica. Dall’altro, lo storico fa notare che le religioni in molti casi sfidano la sorte e giocano d’azzardo quando si alleano con una particolare nazione o causa politica: per un po’ può andare bene, ma raramente queste alleanze sono durature. L’azzardo è particolarmente pericoloso quando una chiesa raccoglie i propri fedeli all’interno di un solo gruppo etnico e linguistico: se quel gruppo, per qualsiasi motivo, cade in disgrazia e sparisce, come nel caso dei cristiani in Nord Africa, anche le chiese vanno incontro al disastro. Al contrario, le chiese sopravvivono meglio ai cataclismi etnici, culturali e politici quando raccolgono fedeli in tutti i settori della società. Insomma, anche le chiese, come le aziende, hanno più possibilità di restare in vita e di allargare la loro presenza quando si diversificano e accettano la sfida della globalizzazione, in modo da non dipendere da un solo gruppo e da una sola regione.

Secondo Jenkins, nonostante tutto, è questa una sfida che la Chiesa cattolica ha saputo affrontare molto meglio di quella ortodossa, se si pensa che nel 1900 gli ortodossi rappresentavano il 21 per cento della popolazione cristiana nel mondo e i cattolici il 48 per cento, mentre oggi gli ortodossi sono ridotti all’11 per cento di tutti i cristiani e i cattolici sono il 52 per cento.

Dunque, è la domanda finale, le chiese si limitano a morire, oppure qualcosa di positivo sorge dalle loro rovine?. Una risposta univoca è impossibile, ma, scrive Jenkins, più studiamo le catastrofi che hanno colpito le religioni in particolari epoche, e meglio possiamo renderci conto di alcune sorprendenti nuove nascite. Per esempio, mentre il potere turco stava raggiungendo l’apice della sua forza nelle terre tradizionalmente cristiane del Medio Oriente e dei Balcani, ecco che le potenze marinare cristiane portavano il cristianesimo nel Nuovo Mondo e nel Pacifico, aprendo orizzonti nuovi e sconfinati. E mentre nel decennio 1915-1925 il Medio Oriente vedeva l’estinzione delle più antiche comunità cristiane, ecco che la religione cristiana incominciava a prosperare nell’Africa nera, forse l’evento più importante nella storia del cristianesimo dopo la Riforma.

Ciò non significa, naturalmente, che si debba assistere con indifferenza all’attuale dramma dei cristiani espulsi dalle loro terre. Significa, invece, cercare di avere una visione complessiva dei fenomeni, per trarne possibilmente lezioni utili per tutti.

 

Aldo Maria Valli

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