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Il corso di aggiornamento

L’aula è piuttosto piccola e disadorna. Ci sono dieci tavoli. Su ognuno c’è un computer con tastiera e schermo. Un altro schermo, enorme, è appeso alla parete di fondo. La occupa tutta e incombe sui presenti. I quali, pur stando fianco a fianco, non si parlano e non si guardano. Perché stanno con gli occhi puntati sullo schermo personale e alzano lo sguardo, di tanto in tanto, solo per dirigerlo verso lo schermo a tutta parete.

Siamo dieci giornalisti, chiamati per un giorno a seguire un corso d’aggiornamento tecnologico. Due insegnanti ci spiegano alcune procedure attraverso le quali dovremmo essere in grado di lavorare sulle immagini. Si tratta, detto in modo semplice, di riceverle da fonti diverse, tagliarle a seconda delle esigenze, conservarle, eventualmente dirottarle sui social network.

Ci capisco poco o niente.  Trovo che i percorsi siano farraginosi, per nulla intuitivi, ma il mio è il giudizio di un quasi sessantenne che, pur mettendoci tanta buona volontà, non riesce a entrare in sintonia con questi strumenti. Fra l’altro li trovo inquietanti. Resto convinto che il giornalista, nonostante tutto, sia uno che deve saper trasmettere notizie e idee con la parola. Certo, per chi, come il sottoscritto, lavora in televisione, l’immagine è importante, ma ormai siamo arrivati a un punto per cui l’immagine è tutto e la parola è quasi niente. Non mi ci abituerò mai.

Seguire il corso per me è una vera penitenza. Già da giovane facevo una fatica tremenda quando si trattava di stare fermo per ore, seduto a un banco. Mi sentivo prigioniero e mi mancava l’aria. Adesso che sono vecchietto tutto è peggiorato. Mi distraggo, perdo il filo. Fra l’altro, le procedure che mi vengono presentate fanno parte di un sistema operativo (si dice così, mi sembra) con il quale io normalmente non lavoro, perché nella redazione di cui faccio parte questa tecnologia non è applicata e forse non lo sarà mai. Ho quindi l’impressione di essere stato “sequestrato” per un giorno a motivo di una lezione che non mi riguarda.

Ma il vero problema è un altro. Osservo me stesso e i colleghi. Eccoci qua, chiusi in una stanza, ad apprendere tecniche di lavoro destinate a fare di noi che cosa? Ho una risposta piuttosto brutale: rimasticatori di immagini, burocrati dell’informazione. Anzi, operai a una catena di montaggio. Ci insegnano a prelevare immagini da depositi digitali, a elaborarle, rigirarle, ma che ne sappiamo veramente? Da dove ci arrivano? Quale attendibilità hanno? Le fonti sono le principali agenzie di stampa internazionali, e questo deve bastarci. Per il resto, meglio non farci troppe domande. Gli occhi fissi sullo schermo, ripetiamo gesti meccanici dentro un opificio digitale, impegnati in una produzione in serie. E’ a questo che si sta riducendo la professione del giornalista? Non lo so, la questione è complessa, ma temo di sì.

Andare in giro, raccogliere notizie e immagini di prima mano, confrontarsi con le persone, fare domande, indagare, riassumere, vagliare, trasmettere attraverso la propria libertà responsabile: ho l’impressione che tutto questo lavoro si farà sempre di meno. Al contrario, si starà sempre di più dentro una stanza, al banco, davanti allo schermo, a macinare immagini. Con ben pochi margini lasciati all’originalità, all’autonomia di giudizio.

Mi consolo pensando che il corso, per me, è una sorta di gioco. Siccome questo “sistema operativo” nella mia redazione, periferica rispetto a quella centrale, non è stato installato, ecco che stare a sentire come funziona è un po’ come giocare a “facciamo finta che”. Ma per altri colleghi non è così. Specialmente per coloro che, come si dice in gergo, fanno lavoro di desk, cioè appunto di banco, di coordinamento, si tratterà sempre di più di diventare tutt’uno con il computer, con una macchina. Giornalisti-macchina. Come Charlie Chaplin in Tempi moderni, ricordate? E quando l’uomo fa tutt’uno con la macchina, in genere è la macchina a imporsi. Inevitabile? Forse. Di certo, un po’ triste.

A un bel momento durante il corso l’insegnante scopre che il computer che mi è stato assegnato “parla” in italiano anziché in inglese. Evidentemente l’alunno che mi ha preceduto ha scelto la nostra lingua (c’è una specifica opzione, come si dice: basta premere un tasto), ma il docente sostiene che l’italiano è da evitare: visto che per designare certe procedure si utilizza comunemente l’inglese, scegliere la lingua di Dante complica solo le cose: “Sai, meglio uniformarci”. Obbediente, premo il tasto: English. Ecco fatto, così siamo a posto: uniformati.

Non posso però fare a meno di trattenere una risatina quando all’insegnante, per tradurre l’inglese submit, scappa un improbabile “sottomettere”. In realtà, nella lingua del computer, submit sta per “inviare”. Ma che cosa importa? Queste sono, con tutta evidenza, sottigliezze a cui può badare soltanto un vecchietto come il sottoscritto. Uno che ama la parola e, addirittura, presta attenzione a grammatica e sintassi. Roba del passato. Ora è tempo di uniformarci. E sottometterci.

Aldo Maria Valli

 

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