“Morte di un Presidente”. Il caso Moro: una ferita che andrebbe finalmente ricucita

Un po’ per motivi generazionali, un po’ perché, forse per deformazione professionale, non mi accontento mai delle versioni ufficiali dei fatti, un po’ perché nel 1978, l’anno in cui tutto accadde, ho fatto il servizio militare a Roma, nei granatieri, e sono stato impiegato spesso nell’antiterrorismo, un po’ per semplice e naturale pietà umana, mi sono sempre appassionato al caso di Aldo Moro, al suo rapimento e alla sua morte. Con tante domande che nel corso degli anni non solo non hanno trovato risposte, ma, come in un perverso meccanismo di scatole cinesi, non hanno fatto che portarmi ad altre domande, via via più complesse e inquietanti. Ecco perché cerco di tenermi informato su tutto ciò che riguarda la vicenda. Ed ecco perché ho letto con grandissimo interesse «Morte di un Presidente»  del collega Paolo Cucchiarelli (Ponte alle Grazie, 432 pagine, 18 euro), inchiesta che mi ha conquistato fin dalle prime pagine e che si segnala per il rigore e la meticolosità con cui smantella, pezzo dopo pezzo, la versione dei fatti data per assodata.

Il sottotitolo dice già molto: «Quello che né lo Stato né le Br hanno mai raccontato sulla prigionia e l’assassinio di Aldo Moro», e il libro mantiene la promessa. Davvero si tratta di una ricostruzione sconvolgente, in grado di smascherare mille contraddizioni e incongruenze generalmente accettate eppure evidenti. Con l’ausilio di un ampio apparato fotografico e della riproduzione di numerosi documenti, Cucchiarelli riscrive interamente il caso Moro e ci porta, credo, molto vicini alla verità. Ma lasciamo che sia l’autore stesso, in questa intervista, a spiegarci come e perché ha condotto il suo lavoro di scavo.

Nel tuo libro hai deciso di non puntare alla vicenda nella sua ampiezza, ma di concentrarti sui dettagli piccoli, anche minimi, relativi soprattutto ai luoghi in cui Aldo Moro fu tenuto prigioniero e ai suoi ultimissimi istanti di vita, nella R 4 rossa che fu fatta trovare in via Caetani. Perché questa tua scelta?

Perché in questa storia, così cruciale per la Repubblica, tutti hanno «parlato»:  uomini delle Br che rapirono e uccisero Aldo Moro, magistrati, storici, studiosi, periti. Tutti tranne il Presidente della Dc, e il motivo è che questa morte non è stata trattata come un omicidio, ma come un caso politico. Così alcuni elementi concreti, visibili, tangibili, direi ovvi, sono stati ignorati. Ogni omicidio di un sequestrato offre alla vittima la possibilità di  rivelare elementi della sua detenzione e della sua eventuale uccisione. Ho quindi solo ripreso questi elementi «dimenticati» e li ho collegati alle lettere che il Presidente della Dc scrisse durante i cinquantacinque giorni della prigionia e ad altri elementi presenti sul cadavere e sull’automobile, la R 4, che accolse il corpo e dove, secondo le Br, il Presidente fu ucciso dopo essere stato fatto sdraiare nel portabagagli. Il problema è che non uno degli elementi costitutivi di questa morte «ufficiale» e, ancor prima, dei luoghi in cui Moro fu rinchiuso, combacia con quello che raccontano direttamente Aldo Moro, il suo corpo e la R 4. Basti dire che sul corpo di Moro, sulla giacca e sui calzini è presente sabbia marina. Così come sugli pneumatici della vettura. E le sorprese di questo tipo sono tante. Una per tutte. Le Br raccontano di aver steso su Moro una coperta per umana pietà e di avergli immediatamente sparato dentro il portabagagli. Solo che la coperta che avvolgeva il corpo non è bucata nella parte anteriore, e basta un semplice esame delle traiettorie dei proiettili per capire che Moro ha alzato le mani nel gesto istintivo di difendersi da colpi che quindi ha visto arrivare. Ma ben altre sono le novità. Nel portabagagli, ad esempio, c’è una maggior quantità di sangue in corrispondenza di una parte del corpo in cui non vi sono ferite. Il libro spiega perché. Sono circa trecentocinquanta i libri pubblicati sul caso Moro. Io non ho voluto aggiungere misteri a misteri, ma ancorarmi ai fatti: e questi hanno raccontato una nuova versione della detenzione e dell’uccisione.

Alla fine della tua lunga e complessa inchiesta, quali idee ti sei fatto? Perché Moro fu ucciso e da chi? Perché non andarono in porto i tentativi di salvargli la vita? Chi si oppose alla sua salvezza? Chi aveva così tanta paura di lui da volerlo morto? Fu ucciso «solo» perché stava per portare i comunisti al governo o anche per altri motivi, magari per ciò che aveva capito, o intuito, durante la prigionia?  Secondo te le Br furono strumentalizzate? Se lo furono, da chi?

È assodato che Moro fu ucciso dopo che erano stati raggiunti accordi per la sua liberazione. La stessa dinamica della morte e le modalità dell’assassinio lo indicano, ma lo dicono anche le lettere del Presidente, quello che stava accadendo e che ci si aspettava che accadesse nella notte dell’8 maggio e la mattina del 9, quando, invece che raggiungere il Vaticano, libero,  Moro fu assassinato. Come e perché è raccontato nel libro, che si avvale anche di due rigorose perizie di Gianluca Bordin (perito balistico) e del professor Alberto Bellocco, specialista in medicina legale. Diciamo che in tanti, per motivi diversi, parteciparono a una porzione di «salvezza» di Moro, ma la somma di queste porzioni portò in realtà alla sua uccisione perché solo la liquidazione fisica di Moro avrebbe permesso a tutti i protagonisti della vicenda di salvare la faccia dopo quello che era accaduto e che il libro prova a raccontare. Il cuore dell’inchiesta è che da subito  la prigione di Moro, la prima, fu scoperta  e che da quel momento si svolse davanti agli occhi degli italiani un’incredibile farsa, con le Br che trattavano essendo in qualche misura «scoperte» e lo Stato che, pur sapendo dove  Moro fosse via via «ristretto» (almeno quattro le prigioni) scelse di non intervenire e di intavolare una trattativa che ha come perno Moro e le sue lettere. Alla luce di questa nuova lettura dell’intera vicenda diventano leggibili  le contraddizioni, le sciarade, le enigmatiche espressioni di Moro costretto, nelle lettere, ad alludere e velare la sua condizione di prigioniero a metà. Ecco: questa interpretazione,  ancorata ai fatti e alle parole di Moro, rischiara quello che finora era oscuro, contraddittorio e sostenuto dalle parole delle sole Br,  accettate senza una reale verifica dallo Stato. La verità è che il caso Moro  è ancora vincolato da una ragione di Stato, la stessa che  Moro invoca nella sua prima lettera «politica», quella scritta all’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga invocando un intervento del Vaticano, il vero protagonista politico dell’estremo tentativo di salvare Aldo Moro. Anzi, più che il Vaticano, il Papa Paolo VI, che all’epoca trovò incredibili resistenze  in quello Stato di cui pure era sovrano assoluto. Le Br caddero nella trappola che fu predisposta,  costruita attraverso una strategia che  lo stesso «regista» rivendica pubblicamente: mi riferisco all’inviato americano in Italia, richiesto da Roma per uscire dal cul de sac in cui si trovavano la trattativa e l’intera vicenda. Moro fu ucciso per il sommarsi di molte ragioni, alcune antecedenti il rapimento (la strategia del compromesso storico), molte  maturate durante il rapimento, e  cioè dopo  che, da subito, fu scoperta la prigione  e  incominciò la pantomima politica del confronto tra chi era a favore della trattativa e di chi era per la «fermezza». In effetti la situazione era ben diversa.

Nella vicenda, come dicevi, ebbe un ruolo anche il Vaticano. Ci puoi spiegare in che misura la Santa Sede e il papa Paolo VI scesero in campo e con quali obiettivi? Perché papa Montini arrivò a fare un appello alle Brigate rosse per la liberazione di Moro «senza condizioni»?

Moro poteva davvero contare solo sul papa, che fece di tutto per salvare l’amico, anche predisponendo un ingente riscatto assieme ad altre concessioni di cui l’inchiesta dà conto. L’uomo della trattativa vaticana fu monsignor Curioni. Mettendo assieme le sciolte tessere del mosaico, ora c’è una maggior chiarezza su cosa accadde in Vaticano. Un ruolo molto importante lo ebbero i gesuiti e spero che con Francesco sulla cattedra di Pietro le altre tessere possano saltar fuori. In un primo momento Moro (con il drappello Br che lo deteneva) doveva essere liberato in Vaticano. Poi l’intesa saltò per l’ostilità del governo e la risposta a questa nuova fase fu l’incredibile, accorata lettera alle Br scritta dal Papa. Il libro dedica molte pagine al Vaticano ipotizzando che la prima prigione, scoperta poche ore dopo via Fani, si trovasse, a Roma, in un immobile dello Ior in via Massimi 91 e che questo immobile facesse capo a Luigi Mennini,  il papà di don Antonello Mennini, che le Br scelsero subito come interlocutore. Moro scrive alcune lettere in cui si «vede» che il Presidente della Dc poteva incontrare il sacerdote. In un’altra lettera Moro scrive a Cossiga, il  «capo degli sbirri», come lo definivano le Br, invitandolo a recarsi nel carcere brigatista. In quale altra situazione, se non in quella da me ipotizzata, l’uomo più ricercato d’Italia poteva immaginare di far venire nel luogo più ricercato (a parole) d’Italia il ministro dell’Interno?

Per la nostra generazione la vicenda Moro resta una ferita aperta, ma è anche un vulnus per l’intera Repubblica. Quando le istituzioni nascono sulla menzogna, o quanto meno su una verità parziale, tutto l’edificio ne risulta indebolito, anche sotto il profilo della credibilità. Secondo te, perché non si fa uno sforzo verso la verità? Siamo alle prese con segreti ancora così inconfessabili?

Credo che in questa vicenda si  saldino gli interessi al silenzio dei due principali soggetti: le Br e lo Stato. L’inchiesta rompe proprio questo silenzio. Ora vediamo cosa accade.  I fatti vanno da una parte e le ricostruzioni ufficiali da tutt’altra. Vediamo quanto la questione può interessare ancora oggi. C’è al lavoro una commissione d’inchiesta parlamentare che sta facendo, in silenzio, un buon lavoro. Ci sono due inchieste a Roma. Il libro è «proprietà» dei lettori, compresi politici o  magistrati. Lo sforzo verso la verità serve se c’è la volontà di non  accontentarsi. Chi legge «Morte di un Presidente» deve constatare che ci sono evidenze non aggirabili. Se ancora una volta si alzerà una cortina fumogena,  sarà l’ennesima dimostrazione che a tutt’oggi il caso Moro è una vicenda su cui gravano la ragione di Stato e una sostanziale convergenza di interessi.

Pensi che, anche sulla base della tua inchiesta, sarà possibile fare ulteriormente chiarezza oppure è troppo tardi? Nel libro accenni a un altro tuo prossimo lavoro: puoi dirci su quali elementi vorresti concentrarti?

Non è mai troppo tardi. Cito in copertina una frase di Leonardo Sciascia che ritengo vera, verissima, attuale: «Se non si riesce ad arrivare alla verità sul caso Moro, siamo davvero perduti». Chiudo con una frase di Moro: «Perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità ed io sarò comunque perdente». Parole scritte nel «carcere del popolo» nell’aprile del 1978. Ne aggiungo una di qualche anno prima: «Quando non si può fare niente e tutto è perduto bisogna almeno cercare di capire».

Da parte mia, specie in questi giorni, in cui si parla tanto di riforma costituzionale, credo sia il caso di citare un altro pezzo della frase di Sciascia, anche se dolente: «L’Italia è un Paese senza verità. Bisogna rifondare la verità se si vuole rifondare lo Stato».

Aldo Maria Valli

 

 

 

 

 

 

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