Il caso Viganò, la Chiesa, la fede, i media. Un colloquio

In occasione dell’uscita del libro Il caso Viganò (Fede & Cultura), Alessandro Gnocchi mi ha intervistato per Riscossa cristiana: https://www.riscossacristiana.it/il-caso-vigano-libro-valli-gnocchi/
Per gentile concessione dell’autore, ripropongo qui il testo del dialogo.

Il caso Viganò raccontato in un libro di Aldo Maria Valli. A colloquio con l’autore
di Alessandro Gnocchi
In genere, gli editori storcono il naso quando gli si propone di pubblicare una raccolta di articoli o di saggi usciti su giornali o riviste. È pur vero che, ormai, gli editori storcono il naso quando gli si propone semplicemente di pubblicare un libro, però nel caso delle raccolte hanno spesso ragione. Non so se Giovanni Zenone, cioè Fede & Cultura, lo abbia fatto quando Aldo Maria Valli gli ha proposto di raccogliere in un volume quanto ha scritto sulle rivelazioni di monsignor Viganò circa le coperture vaticane degli scandali sessuali che hanno scosso la chiesa americana. In ogni caso, ecco fresco di stampa Il caso Viganò. Il dossier che ha svelato il più grande scandalo all’interno della Chiesa: editore Fede & Cultura, cioè Giovanni Zenone, autore Aldo Maria Valli. Non è una semplice raccolta di articoli usciti dal 26 agosto a oggi su un tema di cronaca scottante, ma è un pezzo di storia della Chiesa dal quale gli storici non possono prescindere a partire da oggi. Ma è anche il racconto scritto da un cristiano che può e deve essere letto da ogni cristiano, prima ancora che dagli storici, perché ha un pregio raro: quello di essere scritto con amore per la verità, con tutte le difficoltà che ciò comporta. Proprio di questo ho voluto parlare con Valli per raccontare che cosa sia il libro, ma, soprattutto, chi è il suo autore.

AG – Partiamo dall’abc del mestiere: il controllo delle fonti. Hai già raccontato i tuoi incontri con monsignor Viganò. Ma a me piacerebbe sapere che cosa ti ha detto immediatamente il tuo istinto di giornalista e che cosa hai fatto quando ti sei trovato la notizia tra le mani.

AMV – Più che di istinto di giornalista parlerei di semplice istinto umano. Per natura sono portato a dare fiducia alle persone, però credo di avere anche un certo fiuto che mi permette di riconoscere il male, la malvagità e la menzogna. Ti dirò anzi che quando avverto la presenza del male si tratta per me di una sensazione molto fisica, e allora in quei casi sai che faccio? Scappo! Proprio così: me ne vado, mi allontano da quella che avverto come la fonte del male. Potrei raccontarti alcuni episodi in proposito, ma non voglio farla lunga.
Ora, nel caso di monsignor Viganò, al contrario, ho avvertito subito in lui una carica di verità. Vedi, l’ex nunzio non ha un carattere facile, non sa essere “empatico”, come si usa dire oggi. E non ha fatto proprio nulla per ingraziarsi il sottoscritto. In lui mi hanno colpito l’evidente sofferenza e il timor di Dio, merce rara oggi, anche fra i prelati. Non ha deciso di parlare, come ha insinuato qualcuno, per vendetta, perché inacidito a causa di una mancata promozione a cardinale. Ha detto: “Sono anziano, mi avvicino alla morte; non mi interessa il giudizio degli uomini, ma quello del Padre, e quando il Padre mi chiederà che cosa ho fatto per la Chiesa voglio potergli dire che ho fatto di tutto per salvarla”. No, in lui non ho visto un uomo risentito, ma un servitore della Chiesa addolorato, direi prostrato. E siccome anch’io, quando lui mi ha cercato, ero in condizioni simili, è come se ci fossimo riconosciuti nella comune prostrazione.
Quando poi il monsignore mi ha passato la sua prima testimonianza, ha voluto che io la leggessi subito, accanto a lui, così che gli potessi immediatamente fare domande e riferire eventuali dubbi o perplessità. Si è messo totalmente a mia disposizione, e ovviamente le domande non sono mancate. Date, nomi, circostanze. Credo di averlo sottoposto a un autentico interrogatorio, e lui nemmeno per un istante si è tirato indietro, né si è mai confuso o contraddetto. Però, onestamente, qualche volta mi ha risposto: “Questo non lo ricordo”. Inoltre, come ho già raccontato altrove, ho voluto che i nostri primi due incontri avvenissero a casa mia, alla presenza di mia moglie e dei nostri figli, perché desideravo che ci fosse un riscontro da parte delle persone che amo e che sotto molti aspetti hanno la mia stessa sensibilità, e devo dire che tutti abbiamo avuto la stessa impressione: davanti a noi c’era un uomo che parlava della sua morte, del giudizio di Dio, della vita eterna, un uomo profondamente amareggiato, ma non per se stesso, bensì per lo stato della Chiesa.
Ricordo che quando il monsignore se ne andò, dopo averlo salutato dissi a mia moglie: “Pensa che cosa deve provare adesso. Tutta la sua vita è stata dedicata alla Chiesa. Chi, come lui, è formato alla carriera diplomatica, ha un particolare attaccamento nei confronti del papa. Lo spirito di abnegazione in queste persone è totale. Ebbene, se un uomo così, con una tale formazione, ha deciso di svelare quello che sa, significa proprio che è mosso da motivi estremamente seri”.

AG – Mi piacerebbe che tu tracciassi un breve un ritratto di monsignor Viganò, per far capire ai lettori perché hai deciso di dargli credito, di pubblicare il suo memoriale e continuare a sostenerlo.

AMV – Qualcosa ti ho già detto. Aggiungo che il monsignore sa essere, quando occorre, un autentico amministratore e dirigente. Con un puntiglio, una cura e, direi, un senso del dovere che è (o almeno era) un tratto tipico di noi lombardi (lui è di Varese, io di Rho), Viganò prende qualsiasi impegno con una serietà straordinaria. E non è mai accomodante.
Quando fu messo alla guida del Governatorato, fece saltare tutti sulle sedie. Volle controllare ogni cosa e mise il naso dappertutto: contratti, collaborazioni, fatture. E quando si rese conto del malcostume e degli intrallazzi, passò immediatamente all’azione, senza farsi problemi di opportunità e senza temere di pestare i piedi a qualcuno. Tanto è vero che si fece un sacco di nemici. Se chiedi in Vaticano, se lo ricordano ancora: neppure uno spillo poteva essere acquistato senza che il monsignore verificasse la reale necessità di acquistarlo e mettesse a paragone le diverse offerte. Quando si accorse che lavori anche molto importanti erano assegnati ad “amici”, senza chiedere diversi preventivi, rimase allibito e cambiò le regole. Infatti, fece risparmiare al Vaticano un sacco di soldi. E negli Stati Uniti si comportò nello stesso modo, riuscendo a unire le doti dell’amministratore con quelle del diplomatico.
Mi fanno sorridere quelli che dicono: “Però in un incontro pubblico con il cardinale McCarrick non disse niente contro di lui e anzi lo salutò cordialmente”. Chi parla così non sa che cosa significhi essere nunzio, cioè rappresentante diplomatico del papa, un ruolo che implica la capacità di tenere ben distinte le proprie reazioni private e i comportamenti pubblici, specie se parliamo, come nel caso, di un gala alla presenza di centinaia di invitati. Certo, neppure Viganò è perfetto, ci mancherebbe. Lui stesso mi ha confidato di aver commesso tanti errori. Ma credo di poter dire che è un uomo, non un ominicchio, non un mezzo uomo e non un quaraquaquà.

AG – Non hai mai avuto qualche perplessità prima di pubblicare quanto sei venuto sapere?

AMV – Ne ho avute due, soprattutto. La prima: ma questa denuncia servirà davvero? La seconda: è proprio necessario, da parte di Viganò, arrivare a chiedere le dimissioni del papa? La prima perplessità era, ed è, motivata dalla consapevolezza del fatto che la Chiesa nel corso dei secoli ne ha viste tante e da sempre è abituata a fare, per dire così, resistenza passiva: lasciare che la bufera passi, senza reagire. La seconda perplessità era, ed è, motivata da una domanda: poiché il papa, anche quando sbaglia, resta pur sempre il vicario di Cristo e il garante dell’unità della Chiesa, chiedere un suo passo indietro non è una forzatura? E non può dare l’impressione che ci sia un risentimento personale da parte dell’arcivescovo nei confronti del papa?
Devo dire che le due perplessità sono ancora vive in me. Però, nel caso della seconda, anche in base a quanto mi ha spiegato il monsignore, credo che lui abbia voluto la forzatura per sottolineare che la Chiesa non è del papa, ma di Cristo. In questo modo ha voluto rispondere anche a una certa “papolatria” che oggi va per la maggiore ma non ha nulla di cattolico, perché il papa è servus servorum Dei, non è il ”padrone” della Chiesa.

AG – A molti che fanno il nostro mestiere è capitato di scrivere qualcosa con la consapevolezza che, dopo, niente sarebbe stato più come prima. Il momento in cui si decide di farlo è liberatorio, ma solo per un momento… Per te cosa è accaduto dopo?

AMV – Guarda, io sono un timido. Ma, come sai, i timidi a volte sanno essere molto decisi. Così, una volta che, dopo aver pregato e consultato moglie e figli, ho preso la decisione di pubblicare, sono andato dritto per la mia strada e ho provato una grande serenità. Sapevo che avrei pagato di persona, in diversi modi, ma non ho più avuto tentennamenti. E così è ancora adesso, a distanza ormai di due mesi dalla pubblicazione del primo memoriale.
Qualcuno mi ha chiesto: “Sicuro di non essere stato strumentalizzato? Sicuro che tu non sia stato mosso anche dal desiderio di fare uno scoop?”. Strumentalizzato, non credo. Viganò non mi hai mai forzato e ha risposto a tutte le mie domande e perplessità. Quanto alla voglia di scoop, credo di non avere questa malattia. Sono d’accordo con quanto disse una volta Benny Lai, uno dei maestri di noi vaticanisti: “Uno scoop vaticano non è anticipare una notizia. È piuttosto dare la giusta lettura di una notizia. Oggi, in pochi sono in grado di capirlo”. Ecco, io sono contento non quando do per primo una notizia, ma quando riesco a dare al lettore le chiavi di lettura. Che è poi ciò che cerco di fare nel mio blog Duc in altum e anche su Riscossa cristiana, visto che tu sei così gentile da riprendere i miei articoli. Credo che oggi uno dei compiti più importanti di noi vaticanisti sia fare controinformazione rispetto a una certa “narrativa” che non solo l’istituzione, ma anche la grande stampa cerca di imporre.

AG – Io penso che chi scrive con coscienza debba dire tutta la verità senza peccare di omissione. Ma sono anche convinto che questa grande palude burocratica che è diventata la Chiesa cattolica sia in grado di fagocitare tutto. Secondo te è possibile invece innescare un meccanismo che dia qualche speranza?

AMV – Sinceramente non lo so. Ci sono giornate in cui nutro qualche speranza e altre in cui, invece, mi sembra che la palude sia in grado inghiottire e ricoprire tutto sotto acque nere e impenetrabili. Un grande incoraggiamento mi arriva però dai lettori, che mi ringraziano e mi chiedono di andare avanti. Loro, insieme alla fede, sono il mio vero propellente. Certo, mi arrivano anche tanti insulti, spesso terribili, ma mi sono reso conto che chi mi attacca non ha mai argomenti: non fa che appiccicare etichette (“tradizionalista”, “ultratradizionalista”, “traditore”) senza mai sviluppare un ragionamento degno di questo nome.

AG – Che idea ti sei fatto sull’origine di quanto è accaduto?

AMV – L’origine sta decisamente in una mancanza di fede. «Ho visto Dio in un uomo» disse un pellegrino dopo aver conosciuto il Curato d’Ars. Ecco: diciamo che oggi vedere Dio in un uomo di Chiesa non è proprio così scontato. «Chiunque vuol essere amico di questo mondo, si fa nemico di Dio» (Gc 4,4) leggiamo nelle Scritture. Invece vediamo tanti pastori che vogliono essere amici di questo mondo. Cito ancora il santo Curato d’Ars: “Quando ci si lascia guidare da Dio, facendo ciò che Lui vuole, non ci si può sbagliare… L’occhio del cristiano che fa la volontà di Dio vede fino al fondo dell’eternità”. Ebbene, noi oggi abbiamo pastori che parlano come sociologi, economisti, psicologi, ma raramente parlano di Dio e dell’eternità. Tutti i problemi, fino ad arrivare agli estremi degli abusi, nascono da questa drammatica mancanza di fede.

AG – Secondo te, da cosa si dovrebbe partire per porre rimedio a questa situazione?

AMV – Prima di tutto bisognerebbe decidersi a guardare in faccia la realtà, per quanto spaventosa. Tre gli elementi ormai chiari e che andrebbero presi in considerazione: a) il marciume e la corruzione morale non sono episodici, ma sistematici e diffusi; b) la lobby gay gioca in tutto ciò un ruolo decisivo; c) il silenzio di tanti “buoni” che non parlano per “il bene della Chiesa” in realtà contribuisce a lasciare che i cattivi continuino ad agire indisturbati. Sulla base di questa consapevolezza, bisognerebbe incominciare a ricostruire partendo dalla figura del prete e dalla centralità dell’Eucaristia. Occorre sfrondare tutto il resto. E i pastori dovrebbero tornare a essere tali. Dovrebbero tornare a essere uomini di Dio, il che implica che abbiano il sacro timor di Dio. Proprio quello che vedo in Viganò e in pochissimi altri.

AG – La strategia e l’atteggiamento della curia romana davanti a una bomba come quella sganciata da monsignor Viganò sono quelli che ti aspettavi?

AMV – Purtroppo sì, e dico purtroppo perché è un atteggiamento, secondo me, sbagliato. Salvo rare eccezioni, non vedo una reazione sincera e soprattutto non avverto una reale volontà di conversione spirituale. Si parla di “piani d’azione”, di “commissioni”, di “protocolli”, ma non si va alla radice: la fede in Dio, l’intimità con Lui, il rigetto del peccato. Il papa stesso, individuando la radice del male nel “clericalismo”, non aiuta a fronteggiare il problema, perché fa riferimento a un’astrazione. È un po’ come quando, di fronte a tutto ciò che non va nel mondo, diciamo che la colpa è della società. Non significa nulla. E poi c’è questa insopportabile cappa di silenzio, di copertura. Non si è capito che nell’era della comunicazione questa strategia non paga. Si parla tanto di trasparenza, ma non si agisce di conseguenza. L’ideologia della segretezza e del sotterfugio è non è più applicabile. Anzi, indebolisce la Chiesa perché ne mina la credibilità.

AG – Quali sono il fatto e la considerazione che ti fanno più paura in questa vicenda? E quali sono, invece, quelli che ti consolano di più?

AMV – Non posso dire di provare paura, perché sono certo che il Signore, se ci manda una prova, lo fa per il nostro bene, per la salute della nostra anima. Mi preoccupano però il silenzio dei pastori, la loro ambiguità, la mancanza di chiarezza, la confusione sempre più diffusa nella Chiesa e le divisioni profonde tra fratelli nella fede. Mi preoccupa il fatto che da un po’ di tempo mi accorgo di non riuscire più a fidarmi, nemmeno del supremo pastore. Ne ho viste e ne ho sentite talmente tante, e mi arrivano tante e tali notizie, che ormai la cultura del sospetto si è insinuata in me, e questo non mi piace. È come se una certa innocenza fosse andata perduta per sempre. La consolazione arriva dalla preghiera e dall’amicizia di moltissime persone che mi esprimono vicinanza e affetto, e mi chiedono di andare avanti. Nonostante le deviazioni e le infedeltà dei pastori, il popolo di Dio conserva la fede in modi davvero sorprendenti.

AG – Tu non sei critico solo da ora nei confronti di questo pontificato. Se guardi alla tua storia, il tuo rapporto con la fede e con la Chiesa, che cosa ti insegna questa vicenda?

AMV – Mi accorgo che ora, rispetto a un tempo, anche solo a pochi anni fa, guardo di più all’essenziale e lascio perdere tutto il contorno. L’essenziale è la Parola di Dio, è il rapporto con Gesù, è la fede. Mi lascio condizionare molto meno dalle questioni di opportunità e dal rispetto umano. Penso molto di più al giudizio di Dio e alla vita eterna. È per questi motivi che, pur con tutti i miei limiti, avverto sempre di più il bisogno di sottoporre a verifica ciò che arriva dal magistero, per vedere se e in quale misura mi conferma nella fede.
La svolta, per quanto mi riguarda, c’è stata dopo Amoris laetitia. Avevo già alcune perplessità, ma quel documento le ha portate allo scoperto. Quando ho capito che lì c’è il tentativo di introdurre il soggettivismo nel pensiero della Chiesa e di codificarlo, ho avvertito l’esigenza di intervenire. Perché a quel punto in gioco non c’è più soltanto una valutazione umana, ma c’è la stessa legge divina. Lì c’è il tentativo di mettere l’uomo al posto di Dio. Il fatto poi che in Amoris laetitia questo tentativo avvenga in modo surrettizio, attraverso l’uso subdolo di qualche nota a piè di pagina, mi ha messo ancora di più in allarme. Vi ho visto una malizia (Amoris furbitia è stata ribattezzata l’esortazione apostolica) che non appartiene, non può appartenere alla nostra madre Chiesa.
Più in generale, vedo un grave pericolo in questo misericordismo dilagante, che sgancia la pastorale dalla dottrina, mette in ombra la questione del giudizio divino e riduce la fede a fattore sentimentale, a strumento per il benessere psicofisico e non per la salvezza dell’anima. Vedo che si sta arrivando alla teorizzazione di un presunto dovere di Dio al perdono a fronte di un presunto diritto della creatura a essere perdonata. Non si parla più della conversione e del timor di Dio. Lo stesso concetto di peccato viene opacizzato a causa di un relativismo sempre più evidente. Tutto ciò non può lasciarmi indifferente.

AG – Che cosa può fare oggi un giornalista che vuole bene alla Chiesa?

AMV – Dare le notizie! E, credimi, non è una battuta. Troppo spesso noi giornalisti non facciamo più il nostro mestiere. E nella vicenda di monsignor Carlo Maria Viganò me ne sono accorto ancora di più. Spesso il problema non è la censura o il condizionamento che arriva da fuori, ma l’autocensura. Inoltre, occorre sempre proporre, accanto alle notizie, chiavi di lettura, così che il lettore possa orientarsi. Come dicevo prima, in gran parte è un lavoro di controinformazione rispetto a una visione che viene imposta tenacemente dalla grande stampa. Il che implica tanto studio e la disponibilità di fonti molteplici, anche a livello internazionale, perché noi in Italia, avendo il Vaticano in casa, siamo portati a essere molto “papisti”. Infine, occorre argomentare e non cadere mai nella trappola della contrapposizione frontale tra “partiti”, contrapposizione che si nutre di insulti e, a poco a poco, ci rende incapaci di sviluppare veri ragionamenti.

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