La “Messa beat” e quello sterile tentativo di compromesso da parte dei vescovi

Cari amici di Duc in altum, il maestro Aurelio Porfiri torna con una nuova puntata della sua rievocazione degli anni della Messa beat. In questo articolo si affronta il documento che la Cei, consapevole dei pericoli, diffuse nel 1970 alla ricerca di un impossibile compromesso fra le richieste dei giovani e il rispetto della liturgia. Un testo che fatalmente non ebbe conseguenze pratiche.

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Abbiamo visto negli articoli precedenti come in alcuni, anche sacerdoti, si sia insinuata l’idea che per attirare i giovani in chiesa fosse necessario proporre una musica adeguata, tipica di certi ambienti dai quali, in realtà, la Chiesa avrebbe dovuto proteggere le nuove generazioni. Nella musica commerciale possiamo anche trovare prodotti di una certa qualità, ma sappiamo bene che attraverso di essa passano spesso messaggi e valori del tutto anticristiani, anticattolici e anti-umani.

I valori veicolati da tale tipo di musica ne fanno qualcosa di incompatibile con la liturgia. I testi possono anche essere depurati e corretti, ma l’incompatibilità resta. Certi ritmi e certi strumenti  sono in insanabile contrasto con la dignità della liturgia.

Non dico che non si possa prendere qualche elemento anche dalla musica ascoltata dai giovani, per introdurlo sapientemente in alcune composizioni destinate al culto divino, ma tutto ciò va fatto con perizia e rispetto, da compositori esperti, non da orecchianti incapaci di filtrare ciò che è buono. L’uso del ritmo sincopato, ad esempio, non è da escludere totalmente, ma occorre farlo in modo non sfacciato.

Riprendiamo ora il nostro racconto di quanto avvenne negli anni del dissesto.

Nel 1970, intuendo che la Messa dei giovani stava sfuggendo di mano, la Conferenza episcopale italiana sentì il bisogno di intervenire e il principio generale fu il seguente: “La Messa appartiene a tutto il popolo di Dio, perché in essa Cristo si offre per la salvezza di tutto il mondo e l’assemblea dei fedeli è figura e segno dell’unione del genere umano in Cristo capo. Di qui la necessità di fomentare il senso comunitario sì che ognuno si senta unito con i fratelli nella comunione della Chiesa sia locale che universale. Alla luce di questi principi è chiaro che anche eventuali gruppi di fedeli, variamente collegati per particolari interessi pedagogici, culturali o sociali, devono essere educati a un inserimento pieno nella comunità liturgica, specialmente domenicale, per concorrere non solo all’armonica disposizione ed esecuzione dei riti, ma anche e soprattutto all’espressione comunitaria e sacramentale di tutto il popolo di Dio che si raduna insieme, per celebrare il memoriale del Signore”.

Fu quindi ribadita la natura comunitaria della celebrazione, che non è di proprietà di gruppi particolari. Certamente si possono celebrare liturgie per assemblee particolarmente delineate in senso anagrafico o  culturale, ma senza che qualcuno possa rivendicare un diritto di proprietà sulla Messa, indirizzandone le modalità rituali.

Riconoscendo la possibilità di adattamenti, purché fossero introdotti con prudenza, perché mai si può appaltare la Messa a gruppi particolari, La Cei affermava: “Le Messe per i giovani non sono né una tecnica né un facile ripiego per attirare i giovani; anzi, una passiva acquiescenza a eventuali estrosità, nell’illusione di poter così mettere in massa i giovani nella sacramentalità viva della liturgia, denuncerebbe non solo una radicale incomprensione del problema, ma un pericoloso svuotamento dei valori stessi che si vorrebbero affermare. Le Messe per i giovani sono un problema pastorale”.

Non si negava che i giovani potessero aver voglia di identificarsi in un gruppo specifico, ma si metteva giustamente in guardia dai pericoli che una monopolizzazione della liturgia poteva comportare.

Ii vescovi avevano capito che la situazione stava sfuggendo di mano. Il documento raccomandava che le celebrazioni destinate ai giovani fossero precedute da una catechesi accurata, ma si trattò di un invito rimasto sulla carta e mai attuato. Anzi, per garantire la spontaneità si evitò sempre ogni forma di educazione alla liturgia.

Ricordo una mia esperienza in una parrocchia romana, molti decenni fa. Il giovane sacerdote, che amava la liturgia, trovandosi a confrontarsi con i giovani che rivendicavano una Messa per loro, con musica rock, chitarre e batteria, chiese che la celebrazione venisse preceduta da riunioni di un gruppo liturgico, in cui si riflettesse insieme sulla musica più adatta alla celebrazione o perlomeno ci si preparasse meglio, ma le riunioni andarono deserte.

Io credo che il documento della Cei peccasse di ingenuità. La pretesa di regolare la Messa dei giovani toglieva quell’elemento di ribellione che era proprio all’origine delle pretese giovanili. Non nego che in molti giovani dell’epoca ci fosse una buona intenzione, ma la buona intenzione di per sé non mette al riparo dall’errore e dall’abuso.

Una sola norma sarebbe stata veramente necessaria: “Una vera pastorale non svilisce la liturgia, col pretesto di adattarla, ma educa a comprenderla, per adattarsi a essa”. Invece ci si abbandonò a pii desideri, pur sapendo che mai sarebbero stati realizzati.

Circa gli strumenti, si raccomandava che non fossero chiassosi, ma ciò che i giovani volevano era proprio fare chiasso e andare contro la tradizione liturgica!  Insomma, anziché ribadire alcuni principi fondamentali, i vescovi cercarono un impossibile compromesso. E i risultati si sono visti.

Aurelio Porfiri

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La precedenti puntate sono apparse in Duc in altum qui:

La “Messa beat” e l’inganno dell’eterna gioventù

La falsa liberazione del Sessantotto

Così si arrivò alla “Messa beat”

La “Messa beat” e il suo autore

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