Cari amici di Duc in altum, vi propongo qui il mio settimanale intervento per la rubrica La trave e la pagliuzza di Radio Roma Libera.
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Una notizia che ho letto l’altro ieri mi fatto amaramente sorridere e pensare. In Olanda centinaia di persone si sono messe in fila davanti ai coffee shop per acquistare cannabis quando il governo, nell’ambito delle misure per arginare il coronavirus, ha deciso improvvisamente di chiudere questi esercizi commerciali.
La gente si è precipitata in strada e alcune caffetterie sono rimaste aperte oltre l’orario stabilito per consentire lo smaltimento delle file.
In Olanda la marijuana e i suoi derivati sono venduti in negozi specifici, dove è possibile acquistare fino a cinque grammi di sostanza a persona, scegliendo tra diverse varietà di cannabis.
Ma perché dico che la notizia mi ha fatto amaramente sorridere e pensare?
Perché mi sembra che le code davanti agli spacci di droga (perché di questo, in effetti, si tratta) siano l’immagine perfetta di questa nostra società postmoderna, che ama tanto considerarsi e mostrarsi libera, emancipata e sicura di sé, ma alla prima difficoltà si comporta non diversamente dal bambino piccolo al quale è stato sottratto il ciuccio.
E il buffo è che noi cristiani, che nel momento del bisogno alziamo gli occhi al Cielo e ci rivolgiamo a Dio, in questa società libera, emancipata e sicura di sé veniamo magari guardati con compatimento, come se fossimo noi i piccoli, bisognosi di facile consolazione.
Fin troppo noto è l’aforisma di Chesterton: “Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto”. Meno noto è questo passo di sant’Agostino: “Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”.
L’uomo postmoderno, libero, emancipato e sicuro di sé, pensa che l’uomo di fede, affidandosi a Dio, fugga da sé stesso. Non si accorge che chi nega Dio si fa schiavo di sé stesso.
Ricordo un bellissimo discorso tenuto da Benedetto XVI nel febbraio del 2009, quando visitò il Pontificio seminario romano maggiore.
Interrogandosi su che cosa è, veramente, la libertà, il papa introdusse una distinzione decisiva. Quella che oggi definiamo libertà, ovvero il poter fare quel che si vuole perché non si dipende da nessuno, non è libertà, ma libertinismo. E l’assolutizzazione della libertà, lungi dall’essere conquista, è degradazione: “Il libertinismo non è libertà, è piuttosto fallimento della libertà”.
In quel discorso al seminario romano Benedetto XVI insegnò che “ridursi alla carne” può dare l’illusione di elevarsi al rango di divinità, ma in realtà “introduce nella menzogna”.
Anche senza ricorrere all’alta teologia, la semplice esperienza ci dice che l’uomo non è un assoluto e di conseguenza non può esserlo neppure la nostra libertà. “La nostra verità – disse papa Ratzinger – è che, innanzitutto, siamo creature, creature di Dio, e viviamo nella relazione con il Creatore”.
Quello che chiamiamo processo di emancipazione ci ha allontanati progressivamente da Dio, ma tutto ciò non ci ha resi più liberi. Ci ha resi più schiavi di noi stessi, delle nostre pulsioni, dei nostri vizi. “Vedere Dio, orientarsi a Dio, conoscere Dio, conoscere la volontà di Dio, inserirsi nella volontà, cioè nell’amore di Dio”, non è una fuga da sé stessi. Al contrario, “è entrare sempre più nello spazio della verità”.
In quell’altro formidabile testo che è L’Europa nella crisi delle culture (conferenza tenuta a Subiaco, al monastero di Santa Scolastica, il 1° aprile 2005, pochi giorni prima della sua elezione a papa) l’allora cardinale Joseph Ratzinger disse che la vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è, come comunemente si dice, quella tra diverse culture religiose, ma quella tra “la radicale emancipazione dell’uomo da Dio” e “le grandi culture religiose”, che riconoscono invece il legame fra l’uomo e Dio. La contrapposizione è tra chi ritiene di poter fare a meno di Dio, fino a rivendicare tale convinzione come garanzia della vera libertà, e chi invece, riconoscendo il legame con Dio, afferma che solo in tale relazione c’è la garanzia di una libertà autentica, al riparo dal rischio che la libertà diventi nemica dell’uomo.
Espressione di una coscienza che vuole vedere Dio cancellato definitivamente dalla vita dell’uomo o, al più, accantonato nella sola sfera individuale e privata, è il relativismo, il quale, in nome dell’antidogmatismo, si trasforma in realtà nel dogmatismo più rigido, perché non dà diritto di parola a chi rivendica l’esistenza di una Verità assoluta conoscibile.
La verità, concluse il cardinale Ratzinger, è che se vogliamo che la dignità umana non sia calpestata non dobbiamo perdere di vista Dio.
La conferenza di Subiaco è famosa anche perché in quell’occasione l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede fece una proposta diretta ed esplicita ai “nostri amici che non credono”: vivere non etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse (secondo l’assioma illuministico), ma veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse.
In questi giorni, in cui molti di noi sono chiusi in casa, ci farà bene tornare a certi grandi contributi che Joseph Ratzinger – Benedetto XVI ha offerto non solo ai credenti, ma all’intera nostra cultura.
Aldo Maria Valli