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In ricordo di Giovanni Paolo II / “Veritatis splendor” e “Fides et ratio”, tesori dimenticati

Cari amici di Duc in altum, ecco il mio contributo di oggi per la rubrica La trave e la pagliuzza in Radio Roma Libera.

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Oggi 18 maggio 2020, nel centesimo anniversario della nascita di san Giovanni Paolo II, vorrei dedicare qualche riflessione a quella che fu una delle encicliche più importanti di papa Wojtyła, la Veritatis splendor, documento che rischia però di essere anche fra i più dimenticati. E vorrei mostrarne la connessione con l’altra, decisiva enciclica a cui è strettamente collegata, la Fides et ratio, altra grande dimenticata.

Pubblicata il 6 agosto (festa della Trasfigurazione del Signore) del 1993, la Veritatis splendor è dedicata ad “alcune questioni fondamentali circa l’insegnamento morale della Chiesa” e fin dalle prime parole dice molto: “Lo splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1,26)”.

Viviamo in un’epoca in cui la questione della verità è ritenuta, per lo più, non pertinente per la ricerca da parte della ragione umana. Secondo il pensiero dominante, non esiste una verità oggettiva: esistono soltanto tante verità quante sono le diverse esperienze. Di qui il relativismo morale, entrato purtroppo anche in alcuni insegnamenti della stessa Chiesa cattolica, in nome di un distorto senso della misericordia divina.

Giovanni Paolo II, e con lui l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger, era ben consapevole del diffondersi del relativismo e della sua penetrazione anche nella Chiesa. Scriveva dunque nella Veritatis splendor: “Oggi sembra necessario riflettere sull’insieme dell’insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell’attuale contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata, infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta l’influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità. Così si respinge la dottrina tradizionale sulla legge naturale, sull’universalità e sulla permanente validità dei suoi precetti; si considerano semplicemente inaccettabili alcuni insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene che lo stesso Magistero possa intervenire in materia morale solo per ‘esortare le coscienze’ e per ‘proporre i valori’, ai quali ciascuno ispirerà poi autonomamente le decisioni e le scelte della vita” (n. 4).

Nell’enciclica, Giovanni Paolo II sottolineava che, ormai, perfino nei seminari e nelle facoltà teologiche cattoliche c’è una contestazione dell’insegnamento secondo cui i comandamenti di Dio, scritti nel cuore dell’uomo, hanno davvero la capacità di illuminare le scelte quotidiane delle singole persone e delle società.

Trovo che la Veritatis splendor e la Fides et ratio (pubblicata il 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, del 1998) siano le encicliche che più interpellano noi contemporanei.

Quando Giovanni Paolo II sostiene che è possibile conoscere e valutare, secondo la morale, situazioni oggettive di peccato ribadisce un principio cardine del pensiero cattolico e fa della Chiesa forse l’ultimo vero baluardo contro il dilagare del relativismo.

Sappiamo però che anche nel pensiero cattolico è penetrata l’idea secondo la quale fermarsi alla situazione oggettiva sarebbe applicare una morale astratta, troppo fredda e distante dall’umanità, per cui, in nome del riconoscimento della situazione soggettiva, nel valutare moralmente i comportamenti umani l’importanza dell’oggetto dell’azione morale passa in secondo piano e si dà più rilievo alle giustificazioni e alle attenuanti.

La morale della situazione non riconosce più alcun precetto di carattere assoluto, ma in questo modo assolutizza la libertà umana, sganciandola da ogni principio. Non ci sono più azioni intrinsecamente cattive (intrinsece mala), ma solo azioni rispetto alle quali occorre mettere in atto il discernimento, inteso però non come processo per riconoscere la volontà di Dio, ma come tentativo di giustificare il comportamento umano.

La morale della situazione arriva a sostenere che in determinate circostanze, nonostante la situazione oggettiva di peccato, si possa vivere in grazia di Dio in quanto il soggetto non avverte la colpevolezza. Significa, di fatto, eliminare la nozione di peccato mortale. Ma una tale posizione smentisce e contraddice quanto Giovanni Paolo II insegna nella Veritatis splendor, là dove ribadisce (nn. 69, 70) che il peccato mortale è presente in tutte le “disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave”.

Per chi ha amato Giovanni Paolo e ha studiato il suo insegnamento risulta difficile capire come sia possibile, da parte di non pochi settori della Chiesa, da un lato ricorrere a parole di omaggio nei suoi confronti e dall’altro contraddire platealmente il suo insegnamento.

Chi sostiene la necessità di andare oltre la morale definita “fredda”, la morale degli assoluti, a vantaggio di un insegnamento più disposto ad accogliere e far propria la complessità, afferma che occorre leggere i “segni dei tempi”. Ma, a dire il vero, questo nostro tempo non sembra proprio aver bisogno di pensiero debole e liquido. Ciò di cui si avverte il bisogno, semmai, è un ritorno alla ricerca della verità, è il riconoscimento che ciò che rende l’uomo veramente tale è proprio la sete di verità e non la rinuncia alla ricerca.

In un contesto culturale e spirituale come il nostro, segnato profondamente dal soggettivismo (la realtà si risolve nell’esperienza particolare del soggetto, unico giudice di se stesso), dall’emozionalismo (il criterio dell’agire morale non sta nella ragione ben formata, ma dall’emozione provata vivendo una data esperienza) e dal relativismo morale, superare la Veritatis splendor in nome della morale della situazione significa operare un assist a favore di un pensiero comune che non ci sta donando la felicità, ma ci sta condannando all’indifferenza o, peggio, alla disperazione.

L’impressione è che da una morale fondata sui diritti di Dio e i doveri dell’uomo si desideri passare a una morale, e a una spiritualità, fondata sui doveri di Dio e i diritti dell’uomo. E che la Chiesa si proponga non più di condurre le anime alla salvezza, ma le persone al benessere psicofisico.

Si legge all’inizio della Fides et ratio: “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su sé stesso”.

Ricordiamo che in questa enciclica Giovanni Paolo II mise chiaramente in guardia da “varie forme di agnosticismo e di relativismo” che, sospinte dal pensiero debole, “hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo”. “La legittima pluralità di posizioni – scriveva – ha ceduto il posto a un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo” (n. 5).

A proposito del relativismo dominante si legge a un certo punto nella Veritatis splendor: “Siamo di fronte a una mentalità che coinvolge, spesso in modo profondo, vasto e capillare, gli atteggiamenti e i comportamenti degli stessi cristiani, la cui fede viene svigorita e perde la propria originalità di nuovo criterio interpretativo e operativo per l’esistenza personale, familiare e sociale. In realtà, i criteri di giudizio e di scelta assunti dagli stessi credenti si presentano spesso, nel contesto di una cultura ampiamente scristianizzata, estranei o persino contrapposti a quelli del Vangelo. Urge allora che i cristiani riscoprano la novità della loro fede e la sua forza di giudizio di fronte alla cultura dominante e invadente” (n. 88).

Sappiamo bene che da queste riflessioni partì Benedetto XVI per riproporre la legittimità dell’indagine sulla verità mediante gli strumenti offerti dalla ragione illuminata dalla fede. Papa Ratzinger raccolse in modo mirabile il testimone lasciato dal predecessore. Non dimentichiamo questi pastori, questi maestri che hanno nutrito e continuano a nutrire il nostro pensiero e la nostra fede.

Aldo Maria Valli

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