18 luglio, una data da ricordare. Ecco perché

di Giovanni Formicola

Il 18 luglio di ottantacinque anni fa, un’importante componente dell’esercito spagnolo, con il sostegno di larga parte del popolo e degli organismi civici nei quali esso si esprimeva, di ampi settori della società civile, dei partiti di destra e di alcuni di centro, e della quasi unanimità della Chiesa ch’era in Spagna, si solleva contro il governo rosso del Fronte Popolare.

Nei pochi mesi che erano andati dal febbraio (quando si erano svolte le elezioni politiche che avevano portato, grazie a brogli e violenze, al potere la coalizione socialcomunista-anarchica, più i soliti utili idioti, dettasi Frente Popular) al giugno 1936, sulla scia accelerata degli anni precedenti, si contano 269 uccisi, 1287 feriti, 251 chiese incendiate o profanate, di cui 160 completamente distrutte, da parte dei miliziani rossi. Manuel Azaña già il 17 marzo scrive «ho perso il conto delle località in cui hanno bruciato chiese e conventi». Lo storico di sinistra Gabriele Ranzato così commenta, riconoscendo come si fosse al cospetto di «[…] un avanzato sfacelo dello Stato di diritto»: è «[…] discutibile […] perpetuare l’immagine della Spagna della primavera 1936, come quella di un paese di democrazia liberale accettabilmente funzionante, capace di garantire la continuità del suo sistema […] al riparo da qualsiasi pericolo di sovvertimento rivoluzionario, che sarebbe stato trascinato alla guerra civile solo da una sollevazione militare reazionaria e fascista».

La notte tra il 12 e il 13 luglio 1936 viene sequestrato e barbaramente ucciso dalle Guardias de Asalto, una milizia istituita dai governi di sinistra come contraltare alla Guardia Civil, ritenuta prevalentemente di orientamento monarchico e conservatore, il deputato monarchico José Calvo Sotelo. È la cosiddetta «goccia che fa traboccare il vaso», come commenta pure Winston Churchill. Il 17 luglio nel Marocco spagnolo, il 18 luglio nel territorio metropolitano, avviene quello che sarebbe passato alla storia come Alzamiento Nacional.

Figura di spicco fra gli ufficiali protagonisti, il generale Francisco Franco Bahamonde, che lo condurrà alla vittoria, e poi guiderà la Spagna per quasi quarant’anni.

Egli è l’amato capo della Legione Spagnola, il generale d’alto comando più giovane d’Europa, il vincitore, al servizio del governo repubblicano, contro l’«Ottobre rosso» delle Asturie, l’ascritto alla Confraternita dell’Adoración Nocturna, il fedele della Messa e del rosario quotidiani. Fin da subito, Franco intende il suo gravissimo gesto d’insorgenza contro il potere costituito come obbligato dall’onore militare e dal senso cattolico, e quindi lo vive come crociata in difesa della Fede: «La nostra non è una guerra civile […] ma una crociata […]. Sì, la nostra è una guerra religiosa. Noi combattenti, non importa se cristiani o mussulmani, siamo soldati di Dio e non ci battiamo contro gli uomini ma contro l’ateismo e il materialismo», dirà.

Perché parlarne ancora? Come ho già scritto – ma repetita iuvant – anzitutto per pagare un debito di gratitudine, perpetuandone la memoria, già vilipesa e obliterata, secondo verità. Cosa in cui invero pochi si cimentano, là dove invece dovrebbero, cioè in ambito cattolico. Sia perché semplicemente dimentichi; sia perché affetti dal complesso di passare per “franchisti”, cioè per “fascisti”, senza sapere quanto siano distanti e per molti versi alternativi il preteso “franchismo” e il fascismo; sia perché vittime della vulgata che vuole immancabilmente buoni i repubblicani, e cattivi chi li ha avversati, clero e Chiesa compresi. Ma poi vi sono considerazioni geo-politiche per cui noi uomini del XXI secolo, ed in particolare noi cattolici, dobbiamo essere grati a quei coraggiosi, eroici e soprattutto vittoriosi insorgenti. Basti pensare a che cosa avrebbe significato per l’Europa dopo la seconda guerra mondiale essere stretta dalla tenaglia di due «cortine di ferro», con l’Armata Rossa anche a sud dei Pirenei – perché non sarebbe finita diversamente se la Repubblica avesse vinto o se non ci fosse stata insorgenza contro la sua incipiente tirannia. Allora, destino certo della Francia, e quindi a cascata dell’Italia e della Germania Occidentale, sarebbe stato la «Cecoslovacchia», cioè l’ascesa al potere dei comunisti con l’azione combinata sul piano politico del partito dentro le mura, e sul piano psicologico dei carri armati sovietici alle porte. Mi sembra perciò, lo dico di nuovo, che l’episodio spagnolo di resistenza anche armata alla Rivoluzione anti-cristiana, per difendere la fede, la possibilità di viverla integralmente nella libertà, meriti d’essere ripreso e ricordato, non solo come ho detto per restituire onore e verità alla sua storia, troppo spesso vilipesa o dimenticata, sia per riconoscerne la valenza esemplare, anche con riferimento all’esistenza e all’operatività nella storia dei nemici di Dio, della fede e di ogni verità, con e senza la maiuscola.

Grazie a quel 18 luglio del 1936, la società spagnola e la Chiesa in Spagna hanno avuto cinquant’anni di libertà dalla peggiore e più feroce tirannia che l’umanità nella sua storia abbia sperimentato, il comunismo. In particolare, la Chiesa ha goduto di un tempo prezioso – che le sarebbe mancato se non ci fosse stato l’Alzamiento o se questo fosse stato sconfitto, come le mancava nel territorio controllato dalla Repubblica – per liberamente praticare il culto e confessare la fede. Se ne ha saputo approfittare, cosa che non sembra, saranno storici seri del futuro a dirlo.

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Tratto da: Giovanni Formicola, Difesero la fede, fermarono il comunismo. La Cristiada, Messico 1926-1929. La Cruzada, Spagna 1936-1939, Cantagalli, Siena 2019

 

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