Le misure anti-Covid della diocesi ambrosiana e la musica sacra sull’orlo del burrone

Cari amici di Duc in altum, si moltiplicano le prese di posizione sul decreto dell’arcidiocesi ambrosiana in materia di misure anti-Covid. Dopo il commento del Giovane Prete e dell’associazione Iustitia in Veritate, vi propongo quello di “un organista ambrosiano indignato”.

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di Un organista ambrosiano indignato

Potremmo dire, con Cassiodoro, che «se continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza musica».  Questo monito – a distanza di quindici secoli – suona quanto mai attuale alla luce delle recenti disposizioni emanate dall’Avvocatura della Curia Arcivescovile di Milano: quanta giustizia c’è nelle nuove norme che hanno la pretesa di regolamentare anche le esecuzioni musicali in liturgia in relazione all’evolversi della situazione sanitaria?

Dal 20 settembre prossimo in tutte le chiese dell’Arcidiocesi Ambrosiana coristi e cantori dovranno essere in possesso della certificazione verde per poter svolgere il proprio ministero in liturgia. Non verrà richiesto di esibire il cosiddetto green pass ma una autocertificazione che attesti le ben note condizioni (guarigione dal Covid, almeno una dose di vaccino o tampone negativo).

Se da una parte questo provvedimento sembra ribadire la dignità del ministero del cantore, equiparando i membri delle formazioni corali agli accoliti e ai ministri straordinari dell’Eucarestia, dall’altra è sempre più palese il tentativo di dichiararsi più realisti del re, spianando la strada all’obbligo di certificato per assistere alle funzioni religiose. Mantenendo la mascherina e il distanziamento anche se provvisti di autodichiarazione, a ben vedere non vi è alcuna differenza fra i coristi collocati nello spazio loro deputato e i semplici fedeli che continuano a cantare al proprio posto.

La musica sacra, fortemente provata da oltre un anno e mezzo di chiusure e limitazioni, vede farsi ancora più prossimo il ciglio di quel burrone entro il quale più mani stanno cercando di farla precipitare. La recente tradizione delle scholæ cantorum, ove non già spenta dal fanatismo di qualche parroco o dallo zelo di sedicenti “animatori pastorali” mossi dalla smania suicida di strizzare continuamente l’occhio a ciò che sta fuori dal sacro perimetro delle chiese, ha subito una drammatica battuta d’arresto durante i recenti periodi di lokdown. Fra morti e feriti – è proprio il caso di dirlo – i cori liturgici che sono riusciti a ripartire, pur fra mille difficoltà, si sono ritrovati decimati; fioccano le defezioni e l’insofferenza per l’obbligo di indossare la mascherina mentre si canta mina anche le migliori predisposizioni dei coristi più volenterosi. La salita di questo calvario canoro si fa ancora più irta con questi ulteriori ostacoli che provocheranno, nel futuro più imminente, l’implosione di molti cori liturgici. Esulando da considerazioni di più ampio respiro sulla liceità dell’obbligo vaccinale, sui ricatti più o meno velati per inseguire la chimera dell’immunità di gregge e, non da ultimo, sul conflitto fra libero arbitrio e adesione incondizionata (recte, irrazionale) ad una narrazione univoca, non si può non prendere atto del momento di crisi profonda cui è giunta la musica sacra nelle nostre chiese.

Se negli anni scorsi venivano magnanimamente dispensati palliativi e zuccherini per cercare di tener in equilibrio il piatto della bilancia fra tradizionalisti e progressisti (penso, in Diocesi di Milano, alla proposizione sul più diffuso sussidio liturgico domenicale di semplici melodie in canto ambrosiano e alla contemporanea apertura di corsi di chitarra liturgica al Pontificio istituto ambrosiano di musica sacra), ora quel tatto e quel paternalismo tutto clericale secondo il quale ci sarebbe sempre spazio per tutti, purché non ci si calpesti i piedi a vicenda, sembra essere venuto meno in nome della nuova fede e della nuova morale. Qualche tempo fa andava di moda la riflessione sulla santità dei musicisti di chiesa e sulla loro più o meno convinta adesione sincera al Mistero che devono decantare con la musica nel loro ministero, altre volte si è disquisito sui titoli professionali e accademici – questione, invero, pelosa – che basterebbero tout court per avere un efficiente maestro di cappella o organista (in barba alla generalizzata ignoranza in materia liturgica e cerimoniale). Senza scomodare teologi, filosofi, liturgisti e musicologi si è ormai giunti al momento tanto temuto o desiderato, a seconda dei punti di vista, della prova: per cantare o fare musica in chiesa è necessario avere un titolo. Il conseguimento del certificato che fra dieci giorni sarà necessario esibire non assicura la bontà o la professionalità del servizio, non attesta il compimento di un percorso di studi e non apporta alcun arricchimento a livello celebrativo. La chiesa in uscita, specializzata nella costruzione di ponti e nell’allargamento di corridoi umanitari, sbatte la porta in faccia a tanti ministri che continuano a seguire la voce della propria coscienza, priva del proprio conforto e della propria comprensione quei figli che le sono più affezionati.

Nella babele del carnevale perenne delle nostre liturgie, dove canzonette discutibili fanno da colonna sonora alle performance sempre più stranianti cui si può assistere ogni domenica, si profila con sempre maggior chiarezza il fallimento dell’ermeneutica della discontinuità e dell’innovazione a tutti i costi. Buona parte della gerarchia ecclesiastica non vede (o non vuole vedere) la penuria dei frutti liturgici raccolti negli ultimi decenni. Il mondo ideale, musicalmente parlando, esiste ormai solo nella testa di chi lo vuole vedere: da una parte i musicisti di chiesa, fedeli a quella che è una vera e propria vocazione, che proseguono come tetragoni ai colpi di ventura consapevoli che nonostante tutto non prævalebunt, dall’altra i figli del Sessantoto che, da allora, vivono di fumose illusioni.

Quando i cori non avranno i numeri per garantire un buon servizio liturgico, quando le liturgie resteranno scoperte per mancanza di cantori “titolati”, qualcuno si ricorderà della profezia di Cassiodoro?

 

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