Lettera ad Aurelio Porfiri su un trasloco. E sull’essenzialità

Caro Aurelio,

in questi giorni mi trovo a vivere un trasloco, piuttosto dispendioso sotto tutti i profili, ma soprattutto dal punto di vista fisico e mentale. Quando una famiglia che è stata numerosa lascia la grande casa nella quale ha vissuto per un quarto di secolo, mettere mano a tutto ciò che ha costituito la sua realtà quotidiana è come fare un lavoro di scavo. La casa assomiglia a un sito archeologico, nel quale i ricercatori trovano indizi di civiltà che furono, stratificati e sovrapposti.

Al mattino, davanti alla prima tazza di caffè, mia moglie ed io ci guardiamo e ci sembra impossibile che la casa abbia ancora qualche strato da rivelare. Eppure è così. E allora, nonostante il mal di schiena ormai cronico e vari altri acciacchi, eccoci nei panni di due improvvisati Indiana Jones che partono per l’ennesima avventura.

Il lavoro fisico ci mette a dura prova, ma ha un lato positivo: permette di lasciar vagare il pensiero. Anzi, sono proprio gli oggetti con i quali entriamo di volta in volta in contatto a suggerire le riflessioni.

Qualche giorno fa, per esempio, il mio compito è stato quello di occuparmi delle piante sul terrazzo, un piccolo bosco cresciuto durante gli anni. Prima di decidere quali arbusti ci seguiranno nella nuova casa, quali resteranno qui e quali andranno agli amici, è stato necessario procedere con un’energica operazione di potatura e pulizia. E così, mentre, armato di cesoie, tagliavo rami e ramoscelli (zac, zac) mi è venuto spontaneo pensare ai rapporti umani intessuti in tanti anni e a tutte le persone passate per la grande casa. Alcune non ci sono più, di altre ho perso le notizie. A volte sono stato io a tagliare (zac), altre volte sono stati gli altri (zac, zac, zac), ma devo dire che non ho rimpianti. Da tutti ho imparato qualcosa, tutti mi hanno aiutato nella crescita, di tutti conservo un ricordo vivo.

Adesso che la grande casa è mezza vuota, le voci rimbombano. C’è una specie di eco, ed è come se ci arrivassero i suoni del tempo che fu. Una generazione è cresciuta qui, si è formata tra queste pareti. Figli che hanno messo su famiglia sono stati bambini in questi locali, su questi terrazzi. Per noi potrebbe essere il momento della nostalgia, e ovviamente una certa malinconia c’è, ma il Signore ci aiuta: il sentimento prevalente non è la tristezza, bensì la gratitudine per tutti i doni ricevuti, per la Grazia sovrabbondante. Le sofferenze non sono mancate, e non potrebbe essere diversamente, ma Dio è stato buono con noi e non ha mai permesso che ne fossimo sopraffatti. Pur mettendosi spesso alla prova, non ci ha mai abbandonato, e anche ora, in questo nuovo passaggio, avvertiamo la sua sollecitudine.

Scavare negli strati geologici sedimentati permette di fare una selezione. Nella nuova sistemazione avremo a disposizione uno spazio notevolmente ridotto rispetto all’attuale, quindi si tratta di decidere: che cosa tenere, che cosa lasciare. E anche la vita è così: spesso vorremmo tutto, ma non si può. Volere tutto è dannoso. L’avere prevale sull’essere e la vita ne viene soffocata.

Selezionare dà un grande senso di libertà. La persona decide il destino dell’oggetto, non è l’oggetto che si impone sulla persona. Viaggiare leggeri dona respiro alla vita.

Spesso, davanti a uno dei tanti reperti che la casa ci sta restituendo, mia moglie ed io ci guardiamo e non abbiamo nemmeno bisogno di parlare. Basta uno sguardo e si decide: questo si tiene, questo si lascia. In entrambi i casi, un pensiero grato va sempre al Signore, che anche attraverso quel dato oggetto ci ha parlato.

In ogni casa è possibile cogliere i segni di Dio, e adesso noi lo stiamo sperimentando con particolare evidenza. I libri, tantissimi, sono tra i testimoni più eloquenti. Mentre li spolvero e li inscatolo, ogni titolo, ogni copertina e ogni autore mi ricordano un’epoca, un frangente della nostra vita qui. Le pagine continuano a parlarci e chissà che anche dopo di noi non possano fare compagnia a qualcuno, regalando pensieri di bene.

L’opera di selezione degli oggetti mi ha fatto venire alla mente il bel verbo latino cèrnere, che viene dal greco krinein: è il separare, anzi il setacciare. Discernere è anche il vedere con chiarezza, il comprendere appieno. Discernere il bene dal male è il primo compito, e occorre rivendicarlo di fronte a chi lavora per avvolgere la realtà nella nebbia.

Un trasloco è una faticaccia, ma è anche un’opportunità. L’importante è mettere tutto nelle mani di Dio e abbandonarsi alla sua volontà cogliendo i segni. Ieri se n’è andato il pianoforte, destinato alla casa di una figlia. Mentre tre robustissimi addetti lo portavano via, mi è sembrato che ne uscissero tante note. Si sono messe a danzare nell’aria come sopra un immaginario pentagramma. E di nuovo mi è venuto spontanea una preghiera di ringraziamento: grazie, Signore, per la bellezza della musica e specialmente per quella fatta in compagnia.

Tutto ciò che non ci seguirà ha diverse destinazioni, tra le quali l’isola ecologica comunale, dove incontro altre persone impegnate, come me, a disfarsi di ciò che non serve più. Una specie di cimitero degli oggetti, ma utile. Perché l’eternità non è di questo mondo terreno, ed è giusto così.

Man mano che si avvicina l’ora X, la casa è sempre più spoglia. Pensavo che ne avrei tratto una certa afflizione, e invece ne ricevo un insegnamento salutare. La lezione è quella dell’essenzialità.

“Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?” (Mt 6,25).

Grazie, Signore, per questo faticosissimo trasloco.

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Foto: freepik.com

 

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