La fede di san Charbel. Per il Libano martoriato. Per noi tutti

di Alessandro Staderini Busà

Il Libano è in ginocchio. La crisi economica lo sta sferzando. Quel nobile lembo di Medio Oriente, che la Bibbia cita più di settanta volte, vive uno dei frangenti storici più drammatici. L’inflazione ha toccato il 138%, i beni alimentari sono saliti del 500%, uno stipendio di mille dollari adesso ne vale appena cento. Senza più le scorte di grano in quei silos distrutti e mai ricostruiti dopo due anni dall’esplosione al porto di Beirut. Il Libano è in ginocchio. Le parole del Padre nostro – “Atna elioum khabzana elyoumi”, “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” – hanno il peso della fame. Quattro milioni di abitanti lottano per arrivare a fine giornata, non a fine mese, in mezzo al sovraffollamento causato da un milione e mezzo di rifugiati provenienti da Siria e Palestina. In tali condizioni, 200 mila libanesi hanno scelto, nell’ultimo anno, l’espatrio come via obbligata. Altri hanno optato per il suicidio, con un ritmo di uno ogni due giorni. Il paese è in ginocchio. Eppure, “il Libano non è un Paese povero” – diceva recentemente padre Abboud, presidente di Caritas Libano – “è un Paese rubato”. E non dubitiamo sia così, avendo visto coi nostri occhi, seppure in forma (finora) meno grave, come i potenti – politici, magnati o presunti filantropi che siano – curino gli interessi di altri potenti, e giammai potrebbero disperarsi se le nazioni precipitano nella disgrazia e i popoli nella disperazione.

“I mesi e gli anni a venire saranno molto duri e difficili, amari e pesanti come la croce. La violenza dominerà su tutta la terra. Il pianeta sarà trafitto dai pugnali dell’ignoranza e dell’odio. La paura si abbatterà sulla terra come una tempesta; la tristezza traboccherà dal cuore di tutti. Uomini ignoranti e ostili presiederanno al destino di tutti i popoli, conducendoli lungo le vie di miseria e di morte. La faccia della terra cambierà, ma voi conserverete la faccia di Cristo”. Sono parole di uno dei figli più meravigliosi di questa terra libanese, san Charbel Makhluf. È di lui, quest’oggi, 24 luglio, che la Chiesa cattolica celebra la memoria. Nasce nel 1828 da famiglia contadina, a Biqa ’Kafra, ultimo di cinque fratelli.

A 1600 metri di altitudine, nel villaggio del Libano più vicino al cielo, la voce di Dio deve sentirsi più forte che altrove se il piccolo Youssef – questo il nome di battesimo – già sin da tenera età non si separa mai dal suo libro di preghiere. La morte del padre, il secondo matrimonio della madre e le ristrettezze economiche lo costringono, altrettanto presto, ad andare al pascolo con le greggi. È detta “grotta del Santo” una delle mete di pellegrinaggio più battute per la sua devozione: si tratta della spelonca nella quale, in quei giorni, il giovane si rintanava, lontano non solo dalla voce degli uomini ma pure dal belare delle bestie, restando ore inginocchiato, orante, nel silenzio, davanti a un’immagine della Vergine. Non certo un modello per chi vuol lavorare al pascolo, a ventidue anni, Youssef tronca una vita che non può essere la sua. Nel pieno di una notte si alza, si veste, s’incammina per il monastero di Nostra Signora di Mayfouq. La mattina seguente, non trovandolo più, i familiari finiscono per rintracciarlo là dove ha sempre detto di voler andare. Trascorso il noviziato di un anno, è trasferito nel monastero di San Marone ad Annaya, sulla catena del Jabal Lubnān, dove cambia nome in Charbel, che vuol dire “il racconto di Dio”. Struggente l’ultimo incontro con la madre, venuta a trovarlo probabilmente per convincerlo ad alleggerire la scelta monastica. La saluta, nella penombra claustrale, rinviando il prossimo abbraccio all’Aldilà. Studia filosofia e teologia sotto la guida dell’altro santo, Nimatullah, e nel 1859 è ordinato monaco dell’Ordine Libanese Maronita. Sei sono i riti di tradizione cattolica: latino, bizantino, armeno, alessandrino, caldeo, antiocheo. La Chiesa maronita, che segue quest’ultimo, prende nome proprio da san Marone, il quale la istituì nel V secolo, ed è in piena comunione col Romano Pontefice.

Erudito, una mente brillante, teologo, in monastero Charbel si fa carico dei lavori manuali più umili. Mangia una sola volta al giorno, scegliendo per sé gli avanzi, le bucce di patata, qualche oliva, l’insalata appassita, il pane secco destinato ai cani. Che si trovi nei campi o nelle stalle, in cella o davanti al tabernacolo, sa fare della preghiera un atto continuativo, ininterrotto. I confratelli assistono a prodigi di cui diviene strumento divino e la sua fama di taumaturgo presto esce dalle quattro mura per diffondersi fra il popolo. Non pochi salgono al monastero per chiedergli guarigioni del corpo e conversioni dell’anima. Lui non si sottrae, ma senza mai alzare lo sguardo da terra, immancabilmente sotto il cappuccio della tonaca, dentro il quale si dice che, per penitenza, abbia cucito un sacchetto di sassi e, per mortificarsi, non abbia mai tagliato i capelli. Sarà questa la posa con cui lo conosceremo noi moderni, portandolo nelle case nel suo iconico ritratto, umile come la luna, radioso il sole, un mezzobusto di ieratica potenza, che campeggia anche sui muraglioni di Annaya.

È tale la ritrosia con cui mostra se stesso al mondo che le donne, quando capita di vederlo percorrere i sentieri della montagna, preferiscono la disagevole via dei declivi, piuttosto che presentarglisi di fronte. “Nostro Signore ha riservato uno scopo che ciascuna creatura deve realizzare attraverso la propria vita” dice, con la sapienza disarmante di chi sa vivere come gli uccelli del cielo. “Osservate tutte le creature della terra e constaterete che ognuna di esse svolge il proprio compito con precisione ed onestà”. Verrebbe da aggiungere: ad esclusione degli uomini. Eppure, guardando a una figura così, tornano le speranze sull’obbedienza umana. La Regola degli eremiti dell’Ordine prevede i monaci divisi in piccole comunità di tre. Preghiera, contemplazione, lontananza dal chiasso: ecco ciò a cui Charbel ha sempre mirato, sentendo questo lo scopo a cui Dio l’ha votato. “Le cose che accadono dentro di te sono più importanti di quelle che accadono nella vita” annoteranno i confratelli, non avendo egli lasciato né lettere, né quaderni, né diari. Ed è con questa sicurezza che, quasi cinquantenne, si chiude nell’eremo dei Santi Pietro e Paolo, non distante da Annaya. Qui, dopo più di vent’anni di un isolamento che il mondo, non comprendendo, potrà erroneamente liquidare come evasione o fuga, mentre officia Messa è colto da malore. Fa in tempo a bere dal calice ed è steso nel letto. Muore sei giorni dopo, il 24 dicembre 1898. Ma è solo l’inizio. La sera stessa in cui viene deposto in una fossa comune, secondo l’uso maronita, dai paesi vicini vedono “una luce brillante”, che “andava e veniva, con lo stesso ritmo, fintanto che la si guardava”, irradiarsi dal monastero. I monaci, impreparati a questa come ad altre sorprese del santo, traslano il corpo nella navata della chiesa e ad Annaya inizia un pellegrinaggio che ancora dura. Il corpo di padre Charbel non conosce rigor mortis, mantiene la temperatura dei vivi, e trasuda un misto di sangue ed acqua a contatto col quale avvengono guarigioni dell’anima e del corpo, fino a quando, nel 1927, la Santa Sede ordina che sia deposto in una tomba. I miracoli non si interrompono. Santificato da Paolo VI nel 1977, oggi la sua devozione è più viva che mai, oltre che fra i cristiani (e perfino i musulmani) mediorientali, anche in Sud America, mentre in Italia si sta diffondendo di recente. A quello che, a ragione, chiamano “il padre Pio del Libano”, si attribuiscono qualcosa come 13 mila guarigioni, sorta di record fra i santi, molte delle quali legate all’applicazione di un olio che proviene dal monastero di Annaya. Richiama il primo miracolo che egli fece, trasformando l’acqua dentro una lanterna in olio per far luce nella notte, oltre che le parole che usò quando disse che “ogni uomo è una fiamma, creata da nostro Signore per illuminare il mondo. Ogni uomo è una lampada, che Dio ha fatto per brillare e dar luce”.

I maroniti benedicono l’olio presso la sua tomba e sono ben felici di donarlo a chi ne fa richiesta, spedendo la preziosa boccetta via posta o consegnandola direttamente presso i loro monasteri, fra cui quello di Roma, accanto alla chiesa di Santa Maria Immacolata e San Giuseppe Benedetto Labre.

Il più sorprendente fra i miracoli, però, avviene il 22 gennaio 1993, quando una madre di famiglia, Nohad Al-Chami, colpita da ictus per doppia occlusione alla carotide, paralizzata in metà del corpo, non operabile, dopo una frizione con l’olio benedetto sogna il santo intervenire su di lei chirurgicamente. Al risveglio è di nuovo in salute e porta le cicatrici delle suture di un regolare intervento, una per ciascun lato del collo. L’eco dell’avvenimento è tale da far raddoppiare la festività di san Charbel, che oltre al 24 luglio da quel giorno ricorre, con una Messa cantata in lingua araba, anche il 22 del mese, in ogni chiesa maronita, ad Annaya come a Roma.

“Di’ a chi ha bisogno di me che io sono sempre presente nell’eremo”: queste le parole con cui Charbel si congeda dalla donna. È così che il monaco, che scelse il nascondimento dal mondo per amore di Dio, nel mondo ritorna per slancio dello stesso Amore, a conferma della continuità naturale con cui l’anima di un uomo procede dalla vita materiale a quella ultraterrena.

“Chi si presenta al Signore privo d’amore, morirà di vergogna. È questa la sua vera morte, non il momento in cui rende l’anima” dirà san Charbel Makhlouf, con un rigore logico che non può non farci un poco impensierire. E che dovrebbe far tremare quelli che dai parlamenti e dalle cattedre, dai meeting europei e dai summit internazionali, discutono di pace e costruiscono la guerra, promettono prosperità e seminano miseria, celando dietro cure umanitarie i fini spudorati del loro piano d’élite. Venga presto il soccorso dell’Onnipotente al Libano, e così anche all’Italia nostra.

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