Lettera / Il Vaticano II, l’indefettibilità della Chiesa e le posizioni di monsignor Viganò. Replica a Columbanus

di Antonio Polazzo

Caro Aldo Maria Valli,

due veloci e cordiali parole di replica al gentile Columbanus, duramente critico (qui) nei confronti del mio intervento (qui).

Egli ritiene che io equivochi “alcuni dati teologici e fattuali” e ciò mi farebbe cadere in conclusioni erronee. Dice innanzitutto che avrei equivocato l’indefettibilità della Chiesa con l’inerranza del magistero della Chiesa:

  • “Indefettibilità della Chiesa NON significa inerranza del Magistero, anche supremo (quando non ex cathedra). Significa ‘solamente’ che la fede della Chiesa non può venire del tutto meno, in virtù dell’assistenza divina. Fedeltà nella propria identità originaria, ovvero ‘Perpetua permanentia in sua natura’, la definisce il Perrone: questo è il significato etimologico del termine indefectibilitas”.

Columbanus non dice dove (dicendo cosa) avrei scambiato l’una verità con l’altra. Né, soprattutto, dice in che modo verrebbe meno il problema che ho posto a monsignor Viganò in punto di indefettibilità della Chiesa anche qualora le avessi confuse.

È fuor di dubbio che si tratta di verità aventi oggetti diversi, che l’indefettibilità della Chiesa ha a che vedere con la permanenza della Chiesa nella propria natura (e quindi con la permanenza delle proprie note di unità, santità, cattolicità e apostolicità) sino alla fine del mondo e che invece l’inerranza del magistero concerne l’immunità dall’errore nell’insegnamento delle cose riguardanti la fede o la morale. Ma è parimenti indubbio che queste due verità vivono in rapporto di armonia reciproca e che, pertanto, un magistero erroneo in materia di fede o di morale, se per assurdo fosse possibile, farebbe cessare la santità e l’apostolicità della Chiesa, la cui dottrina non può che essere santa e apostolica.

Lo stesso Columbanus riconosce la Chiesa essere “l’unico strumento ordinario che Dio abbia voluto per la santificazione degli uomini”, “l’unica Arca di salvezza”. È assolutamente così. Ma se poi si afferma, come fa ancora Columbanus assieme a monsignor Viganò e a monsignor Lefebvre, che la Chiesa col magistero del Vaticano II ha insegnato errori in materia di fede, come si può continuare a dire (e a credere) che la Chiesa sia Arca di salvezza? È impossibile. Nessuna teoria teologica in punto di inerranza magisteriale sarebbe capace di eliminare il problema che immediatamente emergerebbe sul “versante” dell’indefettibilità, perché con riguardo ad esso la conclusione sarebbe sempre che una Chiesa che ha dato del veleno ai propri figli (che ha dato proposto loro, cioè, una dottrina non santa e non apostolica) non può essere Arca di salvezza e quindi non può essere la Chiesa cattolica.

Anche per questa ragione ho sollevato a monsignor Viganò un problema in termini di indefettibilità della Chiesa, anziché in termini di infallibilità magisteriale.

Nel mondo tradizionalista si è a lungo giustamente dibattuto, e si continua a dibattere, sull’infallibilità della Chiesa (con le posizioni dei sedevacantisti, che Columbanus appella ultramontane, in conflitto con quelle dei lefebvriani che potrebbero definirsi neogallicane), ma a ben vedere il cuore profondo di questo dibattito concerne in realtà, propriamente, la natura della Chiesa. O la Chiesa, in ordine alla salvezza, può fare solo del bene alle anime oppure no. O la Chiesa è Arca (esclusivamente) di salvezza oppure non lo è.

Appare opportuno in questo contesto osservare come la celebre massima di sant’Ambrogio “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” continui proprio mettendo in stretta relazione l’autorità di Pietro e della Chiesa con la salvezza: “Ubi Ecclesia, ibi nulla mors sed vita aeterna” (“Dove c’è Pietro, là c’è la Chiesa, dove c’è la Chiesa, là non c’è la morte ma la vita eterna”)[1].

Passa il Columbanus a una puntualizzazione sul “non praevalebunt”. Dice:

  • “Tale verità [quella dell’indefettibilità] di fede si basa sulla promessa che le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa. Non prævalebunt non implica affatto, però, che non ci proveranno, né che ad un certo momento non sembreranno riuscirci; al contrario, lo sottintende laddove l’azione del prevalere presuppone l’inizio di un assalto delle portæ inferi”.

Concordo appieno sul fatto che il “non praevalebunt” non solo non implichi mancato tentativo delle forze infernali di prevalere, ma che, suscitando in noi l’idea di una loro quasi raggiunta vittoria, in qualche modo ci informi che saranno prossime a riuscirci. Non avendo peraltro io mai detto nulla sul punto, suppongo comunque che la puntualizzazione non riguardi cose che l’interlocutore mi imputa di aver equivocato.

Approfitto così dell’occasione per sottolineare in proposito una cosa che il caro Columbanus sembra trascurare completamente. Non a caso nel Vangelo la promessa del “non prevalebunt” si trova nel medesimo contesto del “tibi dabo claves” (“a te darò le chiavi”)[2]. Le chiavi sono il simbolo dell’autorità. Chi le riceverà, Pietro, è la roccia sulla quale il Signore edificherà la Sua Chiesa, contro cui le porte degli inferi non prevarranno. Chiaro, pertanto, nelle stesse parole del Signore, l’intimo legame tra l’autorità e l’indefettibilità.

Successivamente Columbanus torna a dire cose non condivisibili:

  • “Del resto, che si possa andare pericolosamente vicino a una apparente estinzione della fede – «il Figlio dell’uomo, troverà ancora fede sulla terra?» -, e che i tempi ultimi saranno segnati da una generale apostasia della maggioranza dei fedeli sono dati di fatto, affermati senza ombra di dubbio da tutta la Rivelazione neotestamentaria, dalla Tradizione patristica e dalle rivelazioni profetiche di innumerevoli apparizioni riconosciute come autentiche”.
  • “È sufficiente pertanto un monsignor Lefebvre ieri, o un monsignor Viganò oggi, che continuino a tenere accesa la luce della fede ortodossa (anche nonostante il Romano Pontefice) e siano seguiti da una porzione sia pur minoritaria dei Cattolici anagrafici, affinché il dogma dell’Indefettibilità della fede della Chiesa sia inverato nei fatti e salvaguardato nella professione. Non è questione né di maggioranze né di auctoritas, ma di sostanza”.

Circa la necessità, ai fini dell’indefettibilità, che la dottrina insegnata dalla Chiesa (cioè dal Romano pontefice e dai vescovi in comunione con lui) sia apostolica[3], rinvio a quanto detto sopra.

Qui forse vale la pena evidenziare: a) che, in materia di indefettibilità, la fede integra dei “cattolici anagrafici” (?) non avrebbe potere di porre alcun rimedio alla circostanza – che Columbanus ritiene avverata – di un magistero della Chiesa che contraddice la fede apostolica (né potrebbe porvi rimedio la voce di monsignor Viganò o di monsignor Lefebvre, che, tra l’altro, non mi risulta facciano parte della gerarchia di giurisdizione); e b) che l’apostasia pubblica è incompatibile col possesso dell’autorità, con la conseguenza che se Columbanus intende affermare che Bergoglio rientra in quella maggioranza di fedeli che ha apostatato, deve egli stesso concludere che è privo di autorità pontificia.

Inoltre, la questione dell’autorità della Chiesa è – eccome! – una questione di sostanza[4], dato che la nostra fede dipende essenzialmente da quella. Il motivo per cui noi tutti, in materia di fede, crediamo le verità che crediamo infatti è che è la Chiesa a proporcele.

Tanto più strano, e contraddittorio, che Columbanus ritenga non di sostanza la questione dell’autorità quanto più si considera che egli stesso rivendica come i nemici della Chiesa abbiano puntato proprio ad essa autorità per tentare di far trionfare la Rivoluzione (“Lo spirito modernista non si accontenta di corrompere: esso vuole usurpare i posti gerarchici, impossessarsi del potere che deriva dall’autorità sacra che essi combattono”).

Lascio poi ai lettori giudicare quanto l’affermazione di Columbanus secondo cui “il Magistero supremo ha preso abbagli importanti” contraddica o meno la parola del Concilio Vaticano I: “questa Sede di San Pietro si mantiene sempre immune da ogni errore”; e ancora: “Questo indefettibile carisma di verità e di fede fu dunque divinamente conferito a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, perché esercitassero il loro eccelso ufficio per la salvezza di tutti, perché l’intero gregge di Cristo, distolto dai velenosi pascoli dell’errore, si alimentasse con il cibo della celeste dottrina e perché, dopo aver eliminato ciò che porta allo scisma, tutta la Chiesa si mantenesse una e, appoggiata sul suo fondamento, resistesse incrollabile contro le porte dell’inferno” (Cf. Costituzione Pastor Aeternus)[5].

Ancora, Columbanus sembra davvero capovolgere la realtà quando dice:

  • “L’idea per cui un Papa inadeguato o pessimo sia automaticamente un “non-papa”, rendendo quindi la Sede vacante, non ha alcun fondamento né nella Tradizione né nella ragione teologica. Sembra piuttosto il frutto di un’idea impazzita del Primato petrino e di una certa idolatria dell’istituzione, considerata come fine a sé stessa”.

Il Papato, infatti, è fine a se stesso (e finisce per essere idolatrato) quando si ritiene possibile che un vero Papa, come Papa, operi per distruggere la fede, in questo caso essendo chiaro che l’essenza del Papato è “autonoma” rispetto alla fede. Al contrario, quando si ritiene che il Papa (il Papato) è per la fede, al punto di non ritenere Papa colui che, benché eletto al Papato, ha l’oggettiva intenzione di distruggerla, il Papato è tutt’altro che fine a se stesso ed è tutt’altro che idolatrato. Esso è profondamente amato per la preziosissima funzione (l’“eccelso ufficio” di cui parla la Pastor Aeternus) che, per volontà di Gesù Cristo, esso ha e che la visione opposta almeno in parte gli nega di avere.

Infine, avrei equivocato le parole di monsignor Viganò:

  • “Monsignor Viganò […] non ha mai affermato che la Chiesa in quanto tale sia «diventata causa di eterna dannazione». Lo dimostrano compiutamente le citazioni testuali riportate dallo stesso Polazzo. Tutto il discorso che costui ne fa seguire si fonda dunque sul falso presupposto di un macroscopico equivoco o di una lettura quantomeno distratta degli scritti di Monsignore, il quale non sceglie una parola a caso.”

La questione riguarda proprio il merito del mio intervento, l’obiezione che faccio a monsignor Viganò, la principale difficoltà che, a mio modo di vedere, pone ai fedeli (certamente a me) la sua posizione. In sintesi: egli sostiene che un Concilio ecumenico abbia insegnato errori in materia di fede e, per quanto mi riguarda, una volta che si afferma che degli insegnamenti erronei vengono appunto da un vero Concilio ecumenico, non c’è modo per ritenere al tempo stesso che essi non vengano dalla Chiesa. Ora, quando qualcuno ci porta lontano dalla fede ci porta lontano dalla salvezza. Ma un’azione del genere è incompatibile con la natura della Sposa di Cristo.

Nessuno vuol far dire a monsignor Viganò ciò che non ha detto. L’obiezione è stata posta in modo chiaro e chiunque può leggere quello che ha scritto il monsignore e quello che ho scritto io. Se monsignor Viganò reputasse letti distrattamente, da parte mia, i suoi scritti, potrà se vorrà dire il perché.

Anche Columbanus avrebbe potuto spiegare perché, a suo avviso, io avrei letto distrattamente gli scritti di monsignor Viganò, illustrando come sia possibile pensare che la parola di un Concilio ecumenico non sia la parola della Chiesa e come sia possibile pensare che l’insegnamento di errori in materia di fede da parte di un Concilio ecumenico sia compatibile con la missione salvifica della Chiesa. Ma non lo ha fatto. Anzi, aggrappandosi in tale contesto alla distinzione tra indefettibilità ed inerranza e affermando che il magistero supremo può incorrere, ed è già incorso, in “importanti abbagli”, lascia intendere che egli stesso reputa pacifico che la Chiesa possa sbagliarsi in materia di fede e di morale e che la cosa sia pienamente conforme alla natura della Chiesa.

Non così per me. Il problema che ho sollevato, dunque, resta fermo.

[1] Sant’Ambrogio, Expositio in Psalmum CXVIII, XL, § 30.

[2] Mt. 16, 18-19: “Et ego dico tibi quia tu es Petrus et super hanc petram ædificabo ecclesiam meam et portæ inferi non prævalebunt adversum eam. Et tibi dabo claves regni cælorum et quodcumque ligaveris super terram erit ligatum in cælis et quodcumque solveris super terram erit solutum in cælis” (“E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”).

[3] Non potrebbe esserlo se contraddicesse una dottrina di fede già proposta a credere dalla Chiesa.

[4] Sia mons. Viganò sia mons. Lefebvre lo hanno còlto chiaramente.

[5] Si noti, incidentalmente, il rovesciamento di prospettiva: per il Concilio Vaticano I il bene del gregge è grazie ai successori di Pietro, per Columbanus nonostante i da lui supposti attuali successori.

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