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Sulla rinuncia di Benedetto XVI e una recensione del libro di Enrico Maria Radaelli

Cari amici di Duc in altum, ricevo da Enrico Maria Radaelli questo contributo. Del libro il nostro blog si è occupato qui con uno scritto dello stesso Radaelli.

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A proposito di una recensione di Corrispondenza Romana al libro Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro

di Enrico Maria Radaelli

Sul n. 1773 di Corrispondenza Romana del 15 dicembre 2022 è stato pubblicato un articolo a firma di Emanuele Barbieri in cui si legge: «Il prof. Enrico Maria Radaelli, nel suo libro Al cuore di Ratzinger, sostiene che l’abdicazione di papa Benedetto è invalida e nulla, proprio perché è stata elaborata sulle basi di una dottrina eretica, di stampo hegeliano. Ma a questa tesi il prof. de Mattei già rispondeva il 1° luglio 2020 su Corrispondenza Romana: “Se fosse provato che Benedetto XVI aveva l’intenzione di scindere il pontificato, modificando la costituzione della Chiesa, sarebbe caduto in eresia; e poiché questa concezione eretica del Papato sarebbe certamente anteriore alla sua elezione, l’elezione di Benedetto dovrebbe essere ritenuta invalida per lo stesso motivo per cui si ritiene invalida l’abdicazione. Egli non sarebbe in nessun caso Papa. Ma questi sono discorsi astratti, perché solo Dio giudica le intenzioni, mentre il diritto canonico si limita a valutare il comportamento esterno dei battezzati: … De internis non iudicat praetor; un giudice non giudica le cose interne».

Ma perché mai il professor Roberto de Mattei vuole stroncare un libro di un fratello nella fede – non di un modernista, ma di un vero fratello nella fede – e vuole stroncarlo senza nemmeno averlo mai letto, anzi prima ancora che sia stato scritto? Perché mai?

E perché mai il professor Roberto de Mattei e il suo collaboratore, col sottile artifizio retorico di troncare il titolo a metà e citarne solo la prima parte, vorrebbero far credere che l’edizione del libro su Papa Benedetto XVI di cui parlano è quella odierna, dato che essi non possono non venire a sapere che le edizioni del libro sono appunto due, il titolo delle quali è per la prima metà uguale, e cambia solo la seconda metà, e qui ora se ne spiegherà il motivo, quando sanno anch’essi che è facile per chiunque informarsi in internet della nuova edizione, e infatti sono molti quelli che son venuti a saperlo, basta cliccare il mio sito Aurea Domus, come farebbe chiunque voglia documentare per bene la propria recensione, fosse pure, come questa, una stroncatura, di un libro del sottoscritto?

L’odierna e definitiva edizione, in cui esamino la Rinuncia di Benedetto XVI e ne dimostro sotto plurimi aspetti e con molteplici argomenti l’invalidità, è stata resa disponibile solo dal 1° febbraio 2021, ossia sei mesi dopo la recensione del de Mattei, la quale, come risulta dalle date, non può che riferirsi alla sua prima edizione, datata 2017, intitolata Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo, in cui mi prefiggevo illustrare quelli che poi si sarebbero rivelati essere i fondamenti teoretici tutti hegeliani della Rinuncia, incredibilmente mai riscontrati da nessuno, e da qui rilevavo soltanto, in un breve paragrafo, la peraltro incontrovertibile realtà: il modulo hegeliano che lì vi avevo individuato non poteva non portare che a una Rinuncia canonicamente assolutamente invalida. Tutto qui.

Un alto Prelato, lette quelle mie righe, al contrario dell’atteggiamento difensivo e quindi, certo senza volere, chiaramente filo-modernista del de Mattei su uno status quo della Chiesa che si presentava come minimo non canonicamente lineare, per non dire senz’altro ereticale, modernisticamente ereticale, mi sollecitò ad analizzare in profondità la grave problematica, sicché quell’edizione fu da me completamente rielaborata, nel 2020, con l’aggiunta di quasi ottanta pagine che finalmente avevano per preciso oggetto la molto ereticale Rinuncia, ossia la modernisticamente ereticale Rinuncia, e il conseguente adeguamento della configurazione da dare, nel corpo di testo già presente nel libro, al vero assetto dei gradi alti della Chiesa, dove il Papa, pur con tutte le sue modernistiche eresie sulle spalle, si dimostra che è e che non può essere altri che Benedetto XVI e “Francesco” è solo un altrettanto eretico, anzi idolatra, e comunque molto consapevole antipapa eletto da altrettanto eretici, forse idolatri e comunque molto consapevoli cardinali.

Quest’edizione definitiva del libro è stata proposta al pubblico dal I febbraio del 2021, con nuovo e definitivo titolo: Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro, corredata dalla Prefazione dell’eroico Vescovo emerito statunitense René Henry Gracida.

Detto ciò, volgendoci ora al contenuto delle critiche ricevute, va chiarito che quanto in esse asserito è totalmente e assolutamente errato, e per ben tre motivi. Eccoli:

1) In primo luogo nel mio libro io sono il primo a sostenere che non vengono affatto e non mai discusse le intenzioni poste in corde hominis Joseph Ratzinger, ma vengono discusse solo e unicamente quelle sue intenzioni esplicitate poi in azioni rilevabili oggettivamente, v. ad esempio il § 12 di quello che chiamo Antefatto, dove sono esaminate le quattro uniche realtà che, a norma del Canone 188 del Codex Iuris Canonici, potrebbero invalidare una Rinuncia Papale. Tra queste quattro cause figura il dolo; ma cosa dico io del dolo? Dico: «Il dolo è naturalmente tutto da verificare, e solo Benedetto XVI è autorizzato a riconoscerlo», concetto che confermo alla fine del paragrafo: «Nella Declaratio è stata surrettiziamente introdotta dal suo augustissimo Autore una realtà proibita, una realtà fuori Legge, composta da tre errori sostanziali, il che già picchia sonoramente col Canone 188 del CIC, con la possibile aggravante del dolo, che sarebbe tutto da verificare, ma della cui consistenza ci potrebbe dire solo l’altissimo Soggetto. Ma noi in ogni caso non consideriamo punto tale aggravante, perché a invalidare sostanzialmente la Rinuncia basta e avanza la presenza in sé dei tre errori sostanziali che ora si vedranno. Per il dolo, se la veda lui con Dio. A noi non interessa punto».

E ciò che il sottoscritto ritiene valido per la Rinuncia, come qui si vede, lo ritiene valido, come nelle mie pagine ben evidenziato, identicamente anche per l’elezione. Che è tutto il contrario di quanto il professor Roberto de Mattei sostiene che io affermi. E uno.

2) Come citato dallo stesso de Mattei, facendosi un bell’autogol, il Canone 1526, § 1 del CIC, asserisce: “Onus probandi incumbit ei qui asserit” (L’onere di fornire le prove tocca a chi asserisce), sicché ne deriva che il fatto che «Benedetto XVI aveva l’intenzione di scindere il pontificato», giuridicamente parlando, non avendo mai nessuno fornita alcuna prova di ciò, è fatto non attestato né documentato in alcun modo, e, non essendolo, da un punto di vista giuridico esso è fatto che semplicemente non sussiste: nessuno può mettere in dubbio la correttezza giuridica dell’elezione di Papa Benedetto XVI, in particolare perché fino a oggi nessuno, nemmeno chi qui scrive, ha mai documentato, né potrebbe documentare, che Benedetto XVI avesse al momento dell’elezione alcuna intenzione di scindere il Pontificato, come fece poi al momento della Rinuncia. E due.

3) Il professor de Mattei definisce «discorsi astratti» i due temi su cui qui ci si è soffermati finora – se l’intenzionalità del soggetto di compiere un certo atto sia o non sia giudicabile e a chi è richiesto l’onere della prova –, ma non c’è niente di più concreto e reale di un raffronto tra gli atti di Presuli o di semplici fedeli e il Codex Iuris Canonici che li codifica e li giudica secondo una legge stabilita dai Papi lungo la storia della Chiesa.

Il salvagente hegeliano di Papa Ratzinger

Chiarito che su entrambi i punti formali il de Mattei è in errore, ecco l’argomento portante, e l’argomento ce lo fornisce lo stesso augusto Soggetto della grave discussione.

Infatti è lo stesso Ratzinger, col suo triadico modulo concettuale hegeliano, che può negare in ogni momento con la destra quanto asserito con la sinistra, posto che la sua dottrina si fonda sul seguente concetto, ribadito nel suo Introduzione al cristianesimo per ben settantatré pagine: «Se il credente può vivere la sua fede unicamente e sempre librandosi sull’oceano del nulla, della tentazione e del dubbio, trovandosi assegnato il mare dell’incertezza come unico luogo possibile della sua fede, però, reciprocamente, nemmeno l’incredulo va immaginato immune dal processo dialettico, ossia come semplicemente una persona priva di fede», da cui deriva che «è la struttura fondamentale del destino umano poter trovare la dimensione definitiva dell’esistenza unicamente in questa interminabile rivalità fra dubbio e fede, fra tentazione e certezza. E chissà mai che proprio il dubbio… non divenga il luogo della loro comunicazione».

Ecco: nel lontano 1968 la triade hegeliana di tesi-antitesi-sintesi è ben fissata in una mente cattolica di primo livello, e non ci si preoccupi della sua apparente complessità verbale, perché ci penserà il cardinale Carlo Maria Martini a semplificarla nell’incisiva e icastica formula «ciascuno di noi ha in sé un credente e un non-credente, che si interrogano a vicenda», il che permette a chiunque, d’ora in avanti, di essere ateissimo e al contempo cattolicissimo in ogni momento della sua vita, con tutta comodità e senza che se ne accorga nessuno, specie senza che se ne accorga lui stesso, in barba a ogni schizofrenia.

Come si vede, qui non si sta trattando affatto di interiori intenzioni, ma di affermazioni oggettive e pubbliche, insegnate e divulgate per decenni, dove un Presule – seguito peraltro, successivamente, come visto, da epigoni del calibro del cardinal Martini – elabora, insegna e attua nella propria stessa vita di Pastore, e persino di Sommo Pastore, una dottrina modulata sullo schema hegeliano di tesi-antitesi-sintesi, per la quale un uomo, avendo in sé « un credente e un non-credente, che si interrogano a vicenda » può professare la fede e insieme dubitarla, ossia sconfessarla, senza mai in realtà apertamente sconfessare e dubitare lo schema che gli permette l’anticattolica e tutta hegeliana schizofrenia.

Il Codex ha permesso all’hegelianissimo/cattolicissimo cardinale Ratzinger di salire al trono papale perché nei molti decenni che hanno preceduto la sua altissima nomina ha professato rigorosamente e pubblicamente la dottrina cattolica, v. per esempio, ma non solo, il celebre Rapporto sulla fede scritto nel 1985 col giornalista Vittorio Messori.

La professione rigorosa della dottrina cattolica permette la sua elezione al papato in tutta fedeltà alle disposizioni canoniche: l’elezione è salva, e a salvarla è proprio la stretta obbedienza del cardinale Ratzinger alla dottrina hegelian/cattolica da lui così studiatamente elaborata e poi molto pubblicamente da lui in tutta la Chiesa diffusa: nei decenni che precedono la sua elezione al papato è l’antitesi che vince, ossia la Fede, e i cardinali possono serenamente riconoscere in lui il paladino della Fede che ci vuole. Quindi l’argomento del de Mattei può essere rigettato come assolutamente insussistente. E tre.

In vista però della Rinuncia del 2013, riaffiora nella mente del Papa l’antica ricetta hegeliana nella sua parte destruens, quella che gli permetterebbe dimezzare il monolite cattolico senza grandi problemi, perché, come scrivo a p. XL di Antefatto, essa potrebbe rivelarsi di certo un ottimo, finissimo e tutto sommato ben nascosto stratagemma che lo potrebbe mettere al riparo da eventuali se pur ormai molto improbabili processi canonici. Ecco allora realizzarsi quella formula di Rinuncia che è rinuncia a ciò che lui chiama “Papato attivo”, mantenendo il “Papato passivo”, formula che, pur venendo accettata dalla praticamente assoluta maggioranza dei Pastori della Chiesa, tranne due, tra cui il Gracida, si pone oggettivamente fuori della Fede cattolica, dunque è di fatto invalida e nulla, come illustro ampiamente in Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro. E tre bis.

Questo per dimostrare l’assoluta inconsistenza dei giudizi critici alla mia posizione sull’attuale situazione della Chiesa. E qui avrei concluso, se non fosse che l’articolo della rivista del professor Roberto de Mattei merita almeno due importanti rettifiche.

Perché il munus non è il ministerium e il ministerium non è il munus

Ecco la prima. Leggiamo infatti: «In conclusione: l’essenza del Papato non è nel munus, come nei vescovi, ma è nell’esercizio del governo, ovvero nel ministerium, che non è un sacramento indelebile, ma un potere di giurisdizione, che si può perdere o a cui si può rinunciare. Il Papato non è una condizione spirituale o sacramentale, ma un “ufficio”, o più precisamente una istituzione. Chi rinuncia al ministerium, cioè al governo, perde il Papato».

Qui l’articolista inverte completamente il valore che il Codex Iuris Canonici dà rispettivamente a munus e a ministerium, assegnando all’uno il valore dell’altro.

Ma le definizioni e le disposizioni del Codex sono precise, univoche, puntuali: i Canoni 331-5, inerenti al Romano Pontefice, riguardo alla sua potestà di giurisdizione usa il termine Munus, che io maiuscolizzo per distinguerlo dall’analoga potestà esercitata dai vescovi, a questa soggiacente, tenuta in minuscolo; i Canoni 232-64, inerenti ai ministri sacri, o chierici, riguardo al loro ufficio sacramentale, usano invece il termine ministerium, l’ufficio sacro che conferisce loro il potere in sacris, nelle cose sacre, soggiacente però a sua volta da una parte al Munus giurisdizionale Papale, e reggente dall’altra il munus giurisdizionale vescovile che permette all’Ordinario, all’interno appunto dell’ordinamento giurisdizionale vigente, l’amministrazione dei Sacramenti e l’insegnamento della Parola divina.

I due poteri discendono entrambi da Cristo: il Munus papale e il munus vescovile discendono dal Christus Dominus et Pantochrator, il ministerium discende dal Christus Agnus Dei et Sacerdos; i primi possono essere revocati e rinunciabili, il secondo è eterno. Come si capisce, scambiare i primi col secondo è errore madornale, sciagurato, e specialmente ereticale, che porta a conseguenze devastanti, come infatti è avvenuto al Papa modernista Benedetto XVI e ora ai suoi davvero inattesi epigoni di Corrispondenza Romana.

Senza ironia, se il Barbieri e il de Mattei prendessero finalmente in mano e studiassero bene le decine e decine di pagine che dedico all’argomento, oltre che ovviamente se esaminassero direttamente la fonte di ogni scienza al riguardo, e parlo naturalmente del Codex sopraindicato, non solo ne trarrebbero giovamento loro, ma di certo poi anche tutti i loro inconsapevoli lettori, che avrebbero modo di capire fino in fondo fin dove è arrivato a destrutturare la Chiesa, oggigiorno, il demoniaco mostro modernista.

Un mostro cui però essi stessi, alla fine, si assoggettano, certo non volendo, ma la realtà è che se essi ne utilizzano gli stessi argomenti, se vogliono giungere alle stesse conclusioni e se poi si scagliano anche contro i suoi nemici, i nemici di esso mostro dico, la conclusione è questa. Abbiamo forse qui i primi due esemplari di Tradizion-Modernisti?

L’articolo del Barbieri si conclude con una seconda e inaspettata contraddizione. Leggiamo infatti: «Potrà piacere o no, ma Benedetto XVI è il legittimo Papa… Chi sostiene il contrario è mosso da sentimenti o risentimenti personali di varia natura, ma non è sorretto da ragioni teologiche o canoniche, le sole che contano, nelle epoche di crisi come l’attuale».

Ma non è proprio il professor de Mattei a ricordare che «de internis non iudicat praetor»?

E allora come si fa a sostenere che una conclusione che ha il solo torto di essere contraria a quella della (modernista) Chiesa ufficiale sarebbe dovuta a «sentimenti o risentimenti personali» e non invece a sacrosante «ragioni teologiche o canoniche», senza prendere in esame neanche per un attimo che forse persino la (modernista) conclusione ufficiale potrebbe essere intaccata, come infatti è, da gravi elementi ereticali, e anche fortemente?

Che l’errore sia dovuto sempre e solo a elementi pratici, come sostengono il Manzoni e l’Amerio, tanto che chi qui scrive ne espone nelle sue anche più recenti pagine le dinamiche, è cosa comprovata, ma che esso sia dovuto così decisamente e soltanto a pravi «sentimenti o risentimenti personali» è un’accusa del tutto gratuita, ingiusta, direi anche senz’altro indegna di onesto dibattito e si resta stupefatti che essa nasca proprio da chi nelle prime sue righe si era fatto paladino del «de internis non iudicat praetor».

Qui gli accusati sono due: oltre il sottoscritto, anche il giornalista dottor Andrea Cionci, che propone da tempo una teoria sulla Rinuncia tutta sua, ben lontana da quella che chi scrive espone in Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro. Con tutto ciò, anche quando ne parlo nel mio lavoro, mi perito metterne in risalto bene quelli che ritengo in buona fede suoi anche seri errori, ma senza con ciò infierire sulle sue intenzioni, che ritengo rispettabili come le mie, tese come sono con ogni evidenza a rilevare nodi dottrinali e percorsi esistenziali delle anche più alte personalità coinvolte che oggettivamente risultano perlomeno strani, se non ereticali, e certo non in linea col sentire cattolico.

È necessario a questo punto, a mio modesto avviso, cercare di riportare la discussione nei suoi più corretti binari, impegnandosi a conoscere frigido pacatoque animo gli argomenti e le molte realtà in campo, tenendo a mente che, come diceva Amerio, «il concetto fondamentale su cui si basa, da cui principia e cui tende la filosofia moderna è la soggettività. Mentre il concetto fondamentale della filosofia cristiana è che la parola sta: stat verbum» (Romano Amerio, Stat Veritas, Lindau, Torino 2009). Qui nessuno è nemico di nessuno, tranne che del Modernismo. Riconosciamo allora gli errori fatti. Combattiamo uniti, e il Modernismo lo vinceremo. E alla grande anche. E così sia.

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Enrico Maria Radaelli, Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro (prefazione di monsignor René Henry Gracida), Edizioni Aurea Domus, Milano 2022, pp. LXXVIII + 392.

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Aldo Maria Valli:
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