Liturgia, dottrina, morale. Così i guardiani del tesoro hanno aperto la porta ai demoni

Alla ricerca di autentici pastori e uomini di Dio che ci possano illuminare sullo stato attuale della Chiesa, vi propongo, dopo l’articolo che ho dedicato all’analisi del padre Roger-Thomas Calmel [qui], un testo del padre Jean-François Thomas apparso nel numero di aprile 2019 della rivista Politique Magazine e intitolato L’oublie du Verbe.

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di padre Jean-François Thomas, sj

Sulla crisi della Chiesa non mancano le analisi politiche e sociologiche. Alcune sono rilevanti, ma nessuna può toccare il mistero soprannaturale di questa istituzione che nasce per decisione divina e, come tale, è Corpo di Cristo, quindi santa nonostante i peccatori che la compongono.

Siamo in una fase in cui il rischio di perversione interna della Chiesa è altissimo: anzi, mai è stato così grande e preoccupante. Anche chi non ha l’età di Matusalemme ha potuto assistere, in pochi decenni e con una terrificante accelerazione, a quella che in una parola può solo essere definita decadenza.

A intervalli regolari, nella Chiesa ci sono sempre stati sconvolgimenti. Le eresie hanno portato a scismi, a conflitti armati, a violentissime purghe interne, ma la situazione contemporanea è molto diversa. La crisi non è solo dottrinale. Sarebbe una fortuna se all’interno della Chiesa si svolgessero ancora controversie genuinamente teologiche. La crisi attuale è segnata invece dal vuoto dottrinale. I relativismi mondani hanno preso il posto delle argomentazioni dogmatiche e delle opposizioni intellettuali. Questo impoverimento, questa tabula rasa di ciò che ha sempre fatto la vera ricchezza della Chiesa, è del tutto evidente. Riguarda sia la liturgia, sia l’espressione perfetta della dottrina, sia l’offerta al mondo di una morale radicata nell’insegnamento di Cristo. Per secoli, grazie a questi tre elementi, è tata costruita una vita spirituale, cristiana, cattolica. Ma ora i tre pilastri sono stati abbattuti o gravemente scossi, e il palazzo è crollato sulle teste degli stolti Sansone che siamo. Siamo all’oblio della Parola, quando invece la Parola dovrebbe essere il sangue e la carne di ogni battezzato al quale essa ha dato la vita eterna.

Non si tratta, ovviamente, di generalizzare: non tutte le componenti e non tutti i membri della Chiesa sono ormai marci. Si tratta però di sottolineare che la dinamica comune, un tempo diffusa in tutta la Chiesa, oggi è rallentata nella sua energia a causa di questo problema fondamentale.

Il male colpisce ogni parte della Chiesa, compreso il capo che, in altri tempi – anche in tempi di peregrinazione morale – era sempre rimasto dottrinalmente e liturgicamente sano. Dal momento in cui il motore non è stato più l’amore della Parola, ma la ricerca del cambiamento per il cambiamento, al fine di costruire una Chiesa nuova – e non per purificare ciò che è con l’aiuto degli strumenti spirituali -, è stato inevitabile cadere nell’abisso.

Il mito del progresso continuo ha preso il posto dell’attaccamento a una tradizione apostolica costantemente ravvivata e approfondita. Un esempio tipico è quello dell’abbandono del latino liturgico sebbene, in teoria, nella riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano II non se ne parlasse. Paolo VI, il 26 novembre 1969, annunciando l’instaurazione del rito riformato a partire dalla prima domenica di Avvento, è un perfetto esempio di questo capovolgimento totale sostenuto dalle parole “bisogno” e “novità”, come se queste dovessero costituire ormai il criterio, il metro standard, per giudicare tutte le cose e decidere il da farsi.

Ma, caro papa, se tutto è uguale, perché hai voluto cambiare tutto? Di fronte ai “valori altissimi” della Chiesa, la scelta si rivolse a “una risposta banale e prosaica” (tutti termini di Paolo VI) vista allora come una risposta più preziosa di tutto il resto.

La Chiesa, nel corso dei secoli, non si è mai accontentata di risposte banali e prosaiche. Ha sempre combattuto contro le eresie innovative facendo riferimento ai suoi altissimi valori, e nei tempi moderni, fin dal primo apparire dell’ideologia modernista che l’avrebbe colpita come un maremoto “a tappe”, non abbracciò mai l’utopia del progresso costante al fine di difendere la fede. Ma ecco che, con il Concilio Vaticano II e dopo il Concilio, improvvisamente annuncia che è necessario ritmare il suo passo su quello del mondo, che è necessario avanzare, andare avanti in compagnia di tutti gli avventurieri e di tutti gli avvelenatori del genere umano: un invito a chiudere gli occhi sulle aberrazioni contemporanee e a ridurre il sacro a una sorta di contratto sociale in cui tutti hanno un ruolo e partecipano. Il sale evangelico viene diluito. L’indicazione rivolta al fedele non è più quella di diventare un altro Cristo lasciandosi invadere dalla Parola, ma di confondersi nel grigiore del paesaggio tendendo la mano a tutto ciò che passa.

Sposare il mondo ha conseguenze immediate che vanno oltre la desertificazione delle chiese, il fenomeno più visibile assieme al disamore per la vocazione sacerdotale e religiosa. Sposare il mondo porta a scristianizzare gli stessi battezzati, a entrare in un lento ed efficace processo di apostasia. Abbracciare il mondo porta a democratizzare la figura di Cristo, a ridurla a poco a poco a figura più o meno storica, più o meno allegorica, precursore dell’azione sociale e umanitaria.

Volendo la novità, ricercata per se stessa perché tale è lo spirito dei tempi, c’è il grande rischio di gettare via non solo le apparenze, ma anche la sostanza stessa della fede. Non a caso sant’Ignazio di Loyola, fondatore di un ordine che non abbracciava lo spirito dei tempi, scriveva, nei suoi Esercizi spirituali, le “regole per il sentire con la Chiesa”. Sono un invito a difendere ciò che era contestato dall’eresia del momento, ovvero il protestantesimo. Avrebbe potuto trovare vie di riconciliazione, ma si rifiutò di farlo perché sapeva che così sarebbe stato infedele all’amore della Parola. Toccare l’esteriorità della fede – come fece Lutero – mette necessariamente a repentaglio l’interiorità, a meno che non si consideri che, in ogni caso, tutto è relativo e che ognuno interpreta a modo suo il cammino che conduce al Dio e che lui stesso si è costruito. L’argomento del progresso continuo e della ricerca delle forme pure, rinchiudendosi in un’archeologia estranea a ciò che è realmente esistito, non tiene conto della realtà dell’essere umano.

Quindi dobbiamo ripetere a noi stessi, come sant’Agostino sul suo letto di dolore e di morte mentre i barbari assediano Ippona e devastano il Nord Africa: “Non tollit Gothus quod custodit Christus!” (“Il Goto non toglie ciò che Cristo custodisce”). La paura di non rimanere nel ristrettissimo campo visivo dell’ateo contemporaneo ha portato molti cattolici, anche ai vertici della la gerarchia ecclesiastica, a riporre la propria fiducia più spesso nel Goto che in Cristo. Essere fuori dal tempo è diventato il terrore cristiano che si sostituisce a quello di commettere un peccato mortale o di essere gettati nell’inferno. La millenaria preoccupazione fondamentale, quella della salvezza dell’anima individuale, è stata messa da parte, lasciando il posto alla preoccupazione di prendere il treno in movimento e di non lasciarlo anche se corre all’impazzata, e senza conducente, verso l’oscurità. Il gesuita argentino Leonardo Luis Castellani (1899-1981) lo riassunse così: “L’interiorità del cristianesimo si riassume in un’infinita sete di salvezza dell’anima, e nella conseguente esigenza di entrare in contatto qui e ora con l’eterna verità vitale”. Questo gesuita d’altri tempi, anche se contemporaneo, aveva la Parola nel sangue (per usare il titolo di una raccolta delle sue opere).

In maniera del tutto provvidenziale, passa davanti ai miei occhi una lettera inedita di René Schwob, dimenticato scrittore francese, che rispose a una domanda inviata dall’abate Bourdon, di Rouen, nel 1938, a molte personalità dell’epoca: “Qual è, secondo il suo personale sentimento sul sacerdozio cattolico, il posto del sacerdote nell’opera di recupero francese?”. La risposta interessa non solo qualsiasi sacerdote, ma anche, indirettamente, qualsiasi laico e qualsiasi uomo di buona volontà: “Penso che se tu avessi fatto questa domanda al Curato d’Ars, ti avrebbe detto che l’unico dovere di un sacerdote, anche dal punto di vista sociale, è quello di essere santo. Mi sembra che solo da questa perfetta carità soprannaturale possa trarre frutto il suo apostolato. Ed è poi ciò che le circostanze, i tempi ei luoghi lo obbligano a essere. L’importante è soprattutto che non disturbi la sua missione con la preoccupazione politica, né di destra né di sinistra. Stiamo morendo di democratismo. Che almeno i sacerdoti ne stiano fuori (lettera inedita, 8 dicembre 1938).

Qui c’è tutto. La crisi della Chiesa si spiega con questa corsa precipitosa al democratismo, iniziata nel Settecento. Democratismo legittimato nell’Ottocento e coronato negli anni Sessanta del Novecento, l’apoteosi del matrimonio con il mondo non più visto come fonte di errore ma come modello da imitare e servire. L’odio per la tradizione, e il rifiuto di ciò che non passa, hanno portato alla santificazione del progresso tecnico e della giustizia sociale, due correnti che sembrano contrapposte ma si trovano unite proprio in questo comune disprezzo per ciò che resta, per ciò che non si può modificare. Il nuovo credo è: cambiamento, novità, appoggiare ogni cambiamento, accelerare il cambiamento per portare a una nuova realtà, a un grande sconvolgimento, a un cambiamento totale, quello verso cui stiamo scivolando irrimediabilmente, ovvero il globalismo in politica e la religione mondiale nell’area della fede. Se nella Chiesa ci fosse il fuoco della Parola, essa non potrebbe considerare – a meno che non affermi un’eresia – che Dio nella sua sapienza ha voluto tutte le religioni, dalle più rozze alle più raffinate, come tanti cammini diversi che conducono a Lui visto come una sorta di Dio degli dei di questo immenso pantheon.

Ecco ciò che intendiamo per dimenticare la Parola. Non è un oblio accidentale, ma un oblio programmato, una riduzione della Parola a una verità tra tante altre, verità ovviamente relativa perché soggetta allo scorrere del tempo e al capriccio di ciascuno. Questa porta, attraverso la quale si precipitano i demoni, è stata ufficialmente aperta nella Chiesa, ed è tenuta aperta proprio da coloro che dovrebbero essere i guardiani soprannaturali e i custodi del tesoro.

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