Lettera / Sugli occhi dei rupnikiani

di Lorenzo Gnavi Bertea

Caro Valli,

prima dello scandalo Rupnik ignoravo che questo gesuita fosse l’autore dei mosaici che tappezzano il mausoleo (non saprei come altrimenti definirlo…) ove sono stati inopportunamente traslati i resti mortali di san Pio da Pietrelcina.

Scrivo “inopportunamente” poiché la grandiosità e l’opulenza di questa cripta stridono con il desiderio espresso dal Santo del Gargano che “le sue ossa fossero composte in un tranquillo cantuccio di questa terra”.

Ma veniamo al punto: la faraonica cripta-mausoleo destinata a ospitare le spoglie mortali del frate stigmatizzato appare oggi totalmente ricoperta dai mosaici di padre Rupnik: si tratta di alcune centinaia di metri quadri di sfavillanti ori e figure sacre che ammantano le pareti, i soffitti e financo il tunnel elicoidale che conduce alla stanza sepolcrale.

Non sta a me giudicare se questi mosaici siamo belli o brutti; vero è, però, che gli occhi di tutti i personaggi in essi rappresentati hanno la pupilla e l’iride di color nero come la pece e per questa ragione appaiono profondamente inquietanti.

È questo un particolare artistico che stride profondamente con la tradizione cristiana ove gli occhi di Cristo, della Madonna e degli Angeli sono perlopiù raffigurati di colore azzurro a simboleggiare il Cielo, la purezza e la bontà.

Se è vero, come è vero, che gli occhi sono lo specchio dell’anima, allora la scelta artistica di Rupnik è stata gravemente inopportuna poiché carica i suoi personaggi di un nonsoché di tenebroso che scaturisce dal profondo del loro animo e si manifesta in tutta la sua cupezza nei loro sguardi grevi del macabro colore della morte.

Questa valutazione prescinde dalle accuse emerse a carico del padre gesuita, accuse che, se confermate, aggiungono inquietudine e perplessità a chi si trova a dover osservare e convivere con i mosaici presenti non solo a San Giovanni Rotondo, ma anche a Lourdes, in Laterano, a Fatima, a Cracovia e presso il palazzo apostolico nella cappella privata del Papa.

Alla luce dei presunti comportamenti peccaminosi di Rupnik, vorrei condividere con lei, caro Valli, una mia esperienza personalissima: avendo potuto assistere per un certo tempo alcuni sacerdoti durante l’esercizio del Ministero della Consolazione (già Ministero dell’Esorcistato), ho constatato come lo spirito del male sia solito “siglare” la propria presenza: lo fa con piccoli ma inequivocabili segni che la Fede ci aiuta a riconoscere: non so dire se egli agisca così per vanagloria o se per imposizione divina, ma tant’è…

Ho citato questo fatto per dire che qualora lo spirito del male avesse voluto “firmare” la propria presenza in questa oscura vicenda, avrebbe potuto farlo proprio ispirando all’artista quegli occhi privi di luce e grevi di ignoto che incutono disagio in chi li osserva.

Ora, pur volendo limitarci ad affrontare il problema esclusivamente da un punto di vista razionale (tralasciando, quindi, ogni presunta interferenza preternaturale…), resta il nodo di cosa fare dei moltissimi mosaici nati dalla mente di Rupnik e presenti un po’ dovunque.

Ritengo che non si debba né caldeggiare l’ipotesi iconoclasta né che si debbano lasciare le cose così come stanno: questo sia per ragioni pratiche (infatti la totale rimozione delle opere è assai complessa); sia per una questione di rispetto verso le presunte vittime di Rupnik e verso la sensibilità religiosa di quei fedeli che frequentano i luoghi sacri ove questi “scomodi” mosaici fanno bella mostra di sé.

Cosa fare, allora? Una soluzione potrebbe essere quella di effettuare un intervento correttivo esclusivamente sugli occhi delle varie figure rappresentate, eliminando quei macabri agglomerati di nero con altrettante tessere colorate che riproducano una pupilla scura circondata da un’iride azzurra o castana, tipiche di ogni essere umano.

In questo modo si agirebbe sull’elemento più intimo della persona – che è lo sguardo – tralasciando tutti quegli altri elementi che sono di contorno.

Modificare la cromia degli occhi dei personaggi di Rupnik equivarrebbe a infondere in loro una nuova anima asportando quel diaframma oscuro dietro il quale si nasconde una terribile verità che tutti noi vorremo cancellare per sempre.

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La lettera di Lorenzo Gnavi Bertea mi porta con il ricordo al giorno in cui visitai la nuova cripta di Padre Pio, a San Giovanni Rotondo, proprio mentre il padre Rupnik vi stava lavorando.

Devo dire che, come Lorenzo, anch’io non ho mai apprezzato più di tanto le opere di Rupnik e ho sempre trovato inquietanti gli occhi dei personaggi: mi fanno pensare a extraterrestri non particolarmente benevoli nei nostri confronti.

Quel giorno, mentre la cripta era ancora da completare e c’erano diversi ponteggi, Rupnik mi disse che per trovare le pietre giuste faceva ricerche in tutto il mondo. Con lui c’era una giovane collaboratrice, non so se laica o suora.

All’epoca, ovviamente, non potevo neppure lontanamente immaginare chi fosse veramente Rupnik. Pensai solo che tutto quello sfavillare di ori proprio non si adattava a Padre Pio e che gli occhi da alieni dei personaggi rappresentati nei mosaici decisamente non invitavano alla preghiera.

Prima di lasciare la cripta, mi venne in mente il Cristo Pantocratore nel Duomo di Monreale, o quello nel Battistero di San Giovanni a Firenze, o quello nel monastero di Santa Caterina nel Sinai. Occhi che parlano, sguardi che ti seguono. Dagli occhi degli extraterrestri rupnikiani invece uno si aspetta che esca un raggio che ti può incenerire. Sulla via del ritorno, lungo il tunnel, dissi a Padre Pio: “Scusami tanto, ma non so se tornerò. Mi sento a disagio”. Ma lo dissi piano. E se poi un rupnikiano mi avesse sentito?

A.M.V. 

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