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Lettera / Se Dio non fa un miracolo è la fine

Ricevo e vi propongo questa lettera.

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Caro Valli,

desidero raccontare la giornata che ho vissuto domenica 7 maggio, in occasione della prima Comunione di un mio nipotino. Giornata che non esito a definire tragica..

Doveva essere un bel giorno di festa, e per certi versi lo è stato, almeno per chi, come me, conosce l’importanza del sacramento. Ma per altri aspetti è stata una giornata che mi ha spinto a riflessioni cupe.

Cominciamo dall’ingresso in chiesa. Ore 10, mezz’ora prima della celebrazione. Sembra di essere al mercato. Si parla a voce alta, la gente si sposta qua e là, non c’è il minimo segno di raccoglimento e di preghiera. Il sacerdote interviene per richiamare all’ordine, ma con scarsi risultati.

Noto che in generale le persone sono vestite decentemente, finché il mio sguardo si sofferma su due ragazzine. Una stivalata, con minigonna, l’altra con un paio di jeans strappati ad altezza ginocchio e spaccatura che mostra mezza gamba. Resto sconcertata. Con ogni probabilità anch’io alla loro età non avevo un grande senso del sacro, ma avevo comunque una mamma che se mi fossi agghindata in quel modo per andare in chiesa mi avrebbe subito fatto una bella lavata di capo.

Inizia la cerimonia. Sono seduta lateralmente, dove non c’è una panca con inginocchiatoio. A fianco ho un altro mio nipote, il fratello del festeggiato, adolescente.

Alla consacrazione mi inginocchio a terra, ma vedo che il ragazzo resta in piedi. Allora gli dico sottovoce: “Mettiti in ginocchio, c’è Gesù”.

E lui: “Eh, ma non c’è l’inginocchiatoio”.

E io: “E quindi? Io non sono forse inginocchiata a terra?”

E lui: “Eh, ma ho i pantaloni bianchi”.

E io: “E allora? Anch’io ho una gonna bianca”.

E lui: “Eh, ma non si inginocchia nessuno”.

Resto interdetta.

Al momnento della Comunione la suddetta ragazzina in minigonna arriva all’altare masticando la gomma. L’altra rimane seduta contando i minuti che mancano alla fine della Messa.

Io vado a ricevere la Santa Comunione per ultima, in bocca (mi sono messa d’accordo con il celebrante). Sono l’unica.

Messa finita. Auguri, baci, abbracci. Si torna al clima da mercato.

Al ristorante, qualcuno chiede a un certo punto: “Ma è stata una messa normale? No perché a un certo punto hanno detto un Credo diverso”.

Provo a spiegare che è stato recitato il Simbolo apostolico.

Non so se capiscono. Poi iniziano a parlare della Chiesa, dei preti.

“Questo prete non mi piace, non ci sa fare coi ragazzi, non ho capito niente nell’omelia (a me era parsa chiara, vabbè)”

“Eh, questi preti!”.

E poi sento da una mamma: “Noi, quando abbiamo battezzato il bambino, il prete non voleva perché siamo sposati solo civilmente.”

E un’invitata: “Non capisco proprio sta cosa, perché non vogliono?”

Dentro di me friggo. Vorrei rispondere, ma mi limito a consigliare ai due sposati civilmente di chiedere la sanatio in radice.

Replica: “Ormai è tardi, non mi ci vedo a sessant’anni anni con l’abito bianco”.

Inutile stare a ripetere che non servirebbe nemmeno andare a celebrare in chiesa, come ho già cercato di spiegare poco prima.

E poi la medesima signora aggiunge: “Ormai quello che è fatto è fatto. Comunque per la legge vale quello civile”. Infine chiude il discorso con una sentenza: “Tanto, a cosa serve ormai sposarsi?”.

Ha capito, caro Valli? Questo il clima culturale e religioso. Noi ci battiamo perché la Chiesa torni alla tradizione, ma qui ormai le persone sono del tutto pagane. Tabula rasa.

Sono rimasta amareggiata. E ancora di più quando, cercando di spiegare a mio nipote l’importanza di inginocchiarsi, lui ha osservato: “Ma ti guardavano tutti!”. Niente da fare. Non c’è possibilità di confronto.

Davanti a quanto ho visto e udito mi chiedo che senso abbia, ammesso di riuscirci, riportare la Chiesa agli antichi splendori a fronte di persone che non sanno nulla e non capiscono nulla, non conoscono il Simbolo apostolico e non vedono perché due conviventi o sposati civilmente non possono ricevere la Santa Comunione.

Per me la conclusione è una sola: Dio deve fare un miracolo. Altrimenti è la fine.

Lettera firmata

Aldo Maria Valli:
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