Da Malthus a Bergoglio. Alle radici del Great Reset

di Armando Savini

Le azioni dipendono dai giudizi e i giudizi si formulano in base ai principi filosofici. È per questo che le idee messe in circolazione prima o poi attecchiscono, fino a quando una crisi reale o percepita – come diceva Friedman – le rende operative. Come ho avuto già modo di spiegare dettagliatamente in Sovranità, debito e moneta. Dal Quantum Financial System al Nuovo Ordine Multipolare, i semi del Great Reset sono stati gettati negli anni Settanta con gli studi commissionati dal Club di Roma. I fondatori, preoccupati per il futuro dell’umanità, si sono prodigati a rallentarne la crescita con ogni mezzo possibile. Ma questa inquietudine per il futuro da dove viene? Perché mai si dovrebbe ridurre la crescita della popolazione e deindustrializzare sotto la falsa etichetta del cambiamento climatico, invece di aumentare la produttività sistemica? Quali sono le origini di questa visione del mondo che ha pervaso ogni ambito e di cui Jorge Mario Bergoglio si è fatto guida morale, divenendo l’alfiere del capitalismo inclusivo green e della decrescita felice (QUI)? Come si è giunti alla Quarta Rivoluzione Industriale teorizzata da Klaus Schwab e alle politiche globali volte all’implementazione di un socialismo capital-globalista e transumanista, con tanto di (cripto)approvazione ecclesiastica?

Malthus e il saggio sul principio della popolazione

Nel 1798, in una pubblicazione anonima dal titolo An essay of the principle of the population as it affects the future improvement of society (Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società), il reverendo anglicano Thomas Robert Malthus asseriva con tutta franchezza «che la popolazione, quando non è arrestata da alcun ostacolo, si raddoppia ad ogni periodo di venticinque anni, crescendo cosi in progressione geometrica», mentre «considerando lo stato presente della terra, i mezzi di sussistenza, nelle circostanze più propizie all’umana industria, non potrebbero crescere che in proporzione aritmetica».[1] La differenza dei due tassi di crescita, secondo l’illustre economista e filosofo inglese, avrebbe condotto l’umanità verso carestie ed epidemie. Di qui la necessità di un salario di sussistenza, un salario, cioè, che consentisse al lavoratore e alla sua famiglia di sopravvivere. Senza questo salario non sarebbe stato possibile (per il popolo) né sposarsi né generare figli. Qualora le condizioni di vita della popolazione fossero migliorate, sarebbe aumentata la domanda di generi alimentari e con questa i prezzi delle stesse derrate, i quali avrebbero ridotto la capacità d’acquisto dei salari monetari, diminuendo il salario reale, cioè, il salario in termini di beni. Oltre a questo meccanismo di retroazione economica, che avrebbe riportato la popolazione al livello originario, Malthus riteneva necessario intervenire direttamente sulla vita matrimoniale della popolazione, instillando la castità per i più virtuosi e la contraccezione per i viziosi. Per Malthus, qualsiasi tentativo per migliorare la situazione sociale dei lavoratori era destinato al fallimento, dal momento che il genere umano non è perfettibile. Il pessimismo malthusiano si scontrò con le posizioni più ottimiste di William Godwin e William Thomson, i quali ritenevano, invece, che fosse possibile migliorare le condizioni sociali dell’umanità mediante la ridistribuzione del reddito a favore delle classi più povere e attraverso l’emancipazione femminile. L’economia politica, però, cedette al pessimismo malthusiano e divenne la «triste scienza», mantenuta viva e a disposizione, finché non fu politicamente inevitabile.

Ricardo e i rendimenti decrescenti

Nel 1815, davanti alla commissione nominata dalle due camere dei Lord e dei Comuni, si discusse l’incremento dei prezzi del grano, accresciuti dalle alte rendite fondiarie. Essendo, infatti, l’Inghilterra un’isola, un aumento della produzione significava coltivare in primo luogo le terre ad alto rendimento (quindi con una maggiore rendita fondiaria) e recintare quelle a basso rendimento, al fine di aumentarne la fertilità. Questo processo di miglioramento dei terreni meno fertili prevedeva investimenti di capitale che venivano compensati dai prezzi alti del grano. Secondo i proprietari terrieri, un’importazione del grano dall’estero avrebbe fatto cadere i prezzi del grano e, quindi, intaccato lo sviluppo agricolo inglese. Ed è qui, che entra in scena David Ricardo, il quale, sapendo bene che gli alti prezzi del grano avrebbero schiacciato i profitti dei capitalisti, fortemente influenzato dalle teorie di Malthus, propose una “legge” economica, che, ammantata di rigore scientifico, potesse influenzare la commissione e, quindi, indurre le Camere ad optare per l’importazione di grano estero (cosa che poi avvenne). Si tratta della legge dei rendimenti decrescenti, che diventò la base dell’economia classica e, soprattutto, del pensiero marginalista (o neoliberista) austriaco. Nonostante ogni lavoratore abbia due braccia e una bocca, al crescere del numero dei lavoratori, data la terra, la produttività del lavoratore marginale (aggiuntivo) è meno che proporzionale. Ciò vuol dire che al crescere della popolazione, la produzione cresce a ritmi meno che proporzionali. Per Ricardo, l’aumento dei prezzi del grano comportava una diminuzione dei salari reali e, dunque, una caduta dei profitti, essendo il salario di sussistenza, cioè, dovendo i capitalisti garantire al lavoratore e alla sua famiglia la stessa quantità di grano ma a prezzi più alti. Partendo dagli assunti malthusiani, Ricardo dimostrò che per mantenere l’equilibrio sociale era necessario liberalizzare il commercio del grano. Ora domandiamoci: cosa accadrebbe se applicassimo la legge dei rendimenti decrescenti su scala mondiale? Se guardassimo al sistema mondo come a un sistema chiuso, senza alcuno scambio con l’esterno, stando al modello di Ricardo, quale soluzione avremmo a disposizione per combattere la scarsità delle risorse se non il controllo della crescita demografica teorizzato da Malthus e riproposto dai liberisti neomalthusiani? È proprio da qui che derivano le politiche odierne di contenimento diretto e indiretto della crescita demografica mondiale (sterilizzazione, contraccezione, aborto, eutanasia, depopolamento; deflazione, deindustrializzazione, lockdown, etc.). Ma allo stato attuale, il modello di Malthus-Ricardo è davvero uno strumento appropriato per fare previsioni di lungo periodo e implementare politiche economiche? Davvero la popolazione cresce a ritmi tali da generare scarsità di risorse a livello mondiale?

Moore, Metcalfe e la complessità del reale

Il modello ricardiano, nonostante sia un paradigma che ha esercitato un’irresistibile influenza su molte menti raffinate, presenta alcuni limiti non per nulla trascurabili, soprattutto nel mondo di oggi, dove la tecnologia gioca un ruolo fondamentale. Un primo limite del modello ricardiano è l’assenza dello sviluppo tecnologico, in grado di aumentare la produttività a parità di lavoro impiegato. In secondo luogo, il modello di Ricardo si basa su un’economia a trazione agricola, dove la terra è il fattore di produzione per eccellenza ed è scarsa. Un altro elemento degno di nota è che i salari sono negativamente correlati all’occupazione. Partendo da un salario di sussistenza, qualora i capitalisti, in una prima fase, richiedano più forza lavoro, i salari tendono a crescere, superando il salario di sussistenza e riducendo i margini di profitto. La liberalizzazione del mercato del grano, abbassandone i prezzi, fa sì che il meccanismo retroattivo malthusiano si arresti, cioè, che la popolazione, anziché veder ridotto il proprio benessere, continui a domandare grano e a crescere. Dal momento che i rendimenti sono decrescenti, al crescere dell’occupazione e dell’organizzazione dei lavoratori decresce il margine di profitto. Di qui la necessità del commercio internazionale, mediante il quale è possibile acquisire dall’esterno beni prodotti a costi inferiori, per garantire l’accumulo di capitale. Ricardo aveva ben capito che, a fronte della crescita della popolazione e dei salari, l’unico modo per garantire l’accumulo di capitale era l’internazionalizzazione dell’economia, che, oggi, noi chiamiamo globalizzazione. Ma, come cantavano i Garbage, The World Is Not Enough e, una volta saturati anche i mercati degli altri, il saggio di profitto sarà positivo solo se la produttività tornerà ad essere superiore al salario. È per questo che gli economisti marginalisti (o neoliberisti), nella loro ossessione politically correct, ci tengono a precisare che per loro il salario reale deve essere uguale alla produttività (marginale), perché non vi sia neanche il sospetto che il capitalismo possa sfruttare il lavoro! Se si tiene conto, però, che costoro ipotizzano sempre un’economia con rendimenti decrescenti, è chiaro che il profitto risiede ancora nel surplus di produttività. Come? Semplice: il salario di ogni lavoratore deve essere uguale alla produttività marginale, cioè, alla produttività dell’ultimo lavoratore occupato, la quale è inferiore a quella del primo lavoratore. La differenza costituisce il saggio di profitto. Paradossalmente, la teoria keynesiana ha evidenziato come al crescere dei salari cresca anche la produzione. Maggiori salari si traducono in maggiori consumi e, quindi, in maggiori investimenti, che, grazie al moltiplicatore, apportano una crescita della produzione più che proporzionale. Infine, importanti studi condotti da alcuni economisti alla luce della teoria della complessità (W. B. Arthur), hanno posto in evidenza come in una società altamente complessa, oltre ai rendimenti decrescenti, esistano anche rendimenti crescenti e che siano proprio questi ultimi a caratterizzare le economie moderne, incentrate sulla produzione di beni ad alta intensità tecnologica e, quindi, sulle leggi di Moore e Metcalfe. La legge di Moore afferma che ogni 18 mesi la potenza di elaborazione di un microprocessore tende a raddoppiare a costi costanti (o in taluni casi decrescenti), mentre la legge di Metcalfe esprime una funzione esponenziale tra l’utilità e il valore della tecnologia e la sua potenziale base-clienti, affermando, cioè, che “l’utilità e il valore di una rete sono proporzionali al quadrato del numero degli utenti”. Ciò vuol dire che oltre a una certa soglia critica, al crescere delle interazioni la produttività aumenta a ritmi esponenziali. L’interazione tra la legge di Moore e la legge di Metcalfe innesca la legge di rottura (law of disruption). Tale rottura consiste nel gap tra la crescita esponenziale della tecnologia e quella incrementale dei sistemi sociali, rimettendo ogni volta in discussione l’organizzazione della produzione. Ma allora, perché depopolare e deindustrializzare se la tecnologia rompe il ciclo dei rendimenti decrescenti? Oltre a salvare il turbocapitalismo dalle sue eterne contraddizioni, cercando di garantire un processo in(de)finito di accumulo di capitale ai poteri finanziari consolidati, c’è forse qualche altra ragione da ricercare nell’ordine metafisico?

[1] Malthus, Saggio sul principio della popolazione, in Biblioteca dell’Economista, Seconda Serie – Trattati Speciali, Vol. XI-XIII, Stamperia dell’Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1868, pp. 5-7.

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