La devozione moderna e la nuova spiritualità. Storia di una distorsione

di The Wanderer

Nei primi anni di vita di questo blog abbiamo dedicato diverse discussioni al tema della devotio moderna e della spiritualità barocca. Non è questa la sede per tornarci sopra, ma vale la pena riprendere alcuni degli aspetti più sorprendentemente dannosi delle deviazioni che si sono determinate. Non sto dicendo che la devotio moderna sia dannosa: si tratta solo di un altro movimento nella storia della spiritualità cristiana, per i cui maestri non ho che elogi. Il problema è stata la distorsione di quel movimento, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi.

La caratteristica della devotio moderna che vorrei sottolineare è l’accentuazione della sfera affettiva nella vita spirituale e, di conseguenza, del carattere individuale e privato della vita interiore.

Storicamente, e fino al XII secolo, la spiritualità cristiana era fondamentalmente comunitaria, cioè liturgica. Le persone si santificavano in quanto parte della comunità ecclesiale, che si esprimeva soprattutto nella liturgia. Questo è il senso della spiritualità monastica, l’unica esistente all’epoca e naturalmente seguita da tutti i cristiani, dentro o fuori un monastero (a questo proposito, raccomando l’eccellente libro di Louis Bouyer Il senso della vita monastica). Non erano solo i monaci a vivere la loro spiritualità spendendo la vita negli uffici liturgici, sette volte al giorno. In qualche misura, anche i laici vi partecipavano. Basta leggere la lettera che Dhuoda scrisse al figlio Guglielmo nel IX secolo per dirgli cosa pregare: salmi, salmi e ancora salmi, per i diversi momenti della giornata o per le diverse circostanze. Si trattava di una spiritualità eminentemente liturgica.

È possibile che il rinnovamento monastico rappresentato da Cluny, che implicava un’enorme concentrazione di ricchezza e potere in monasteri tranquillamente sottratti all’autorità dei vescovi, abbia in qualche modo snaturato questa spiritualità. Gli uffici liturgici sono diventati interminabili, con aggiunte e supplementi, e la vita spirituale di monaci e laici si è meccanicizzata, diventando in molti casi nient’altro che un esercizio ripetitivo di salmi e inni.

Fu proprio in questo ambito che sorse san Bernardo con la sua riforma cistercense che, oltre a tornare a un’osservanza più rigorosa della Regola benedettina, insisteva sulla devozione all’umanità di Cristo e, di conseguenza, su una pietà e una devozione più affettive e, quindi, più individuali. L’ordine cistercense rappresentò un vero e proprio rinnovamento della spiritualità cristiana, introducendo nuovi elementi che le diedero nuovo lustro.

Sono stati questi elementi che, qualche secolo dopo, hanno dato vita a una nuova spiritualità; non un nuovo bagliore nella pietà e nella devozione millenaria dei cristiani, ma una nuova devozione, appunto la devotio moderna. Credo che l’insegnamento dei maestri di questa nuova forma di pietà, come il fiammingo Gerard Groote, il tedesco Tommaso da Kempis o lo spagnolo García Jimenez de Cisneros o Ignazio di Loyola, avesse la buona intenzione di rinnovare la Chiesa e i suoi fedeli proponendo nuove strade. Purtroppo, questi percorsi furono presto deviati e la “vera devozione cristiana” divenne una questione fondamentalmente individuale e privata.

La giornata era suddivisa in pii esercizi: un’ora di meditazione perfettamente ritmata con introduzione, corpo, propositi e “affetti”, fiori spirituali, novene, scapolari di vari colori, e così via. Nelle comunità religiose la Messa e l’ufficio divennero in molti casi solo interruzioni della vita di preghiera, cerimonie imposte dalla Chiesa che avevano poco a che fare con la vita spirituale dei religiosi. E questa concezione si spinse così lontano che sant’Ignazio, quando fondò la Compagnia di Gesù, per la prima volta nella storia della Chiesa eliminò la recita dell’ufficio divino comunitario, rendendolo un dovere o un ufficio individuale di ciascun membro. I buoni padri della Compagnia non dovevano interrompere le loro attività permanenti, sempre svolte per la maggior gloria di Dio, per recitare salmi e inni; non c’era tempo da perdere.

Ma al di là dell’aspetto fenomenico, le conseguenze profonde e nascoste delle deviazioni di questa nuova devozione furono il primato del soggetto sull’oggetto (scusate la terminologia moderna) e della volontà sulla ragione. La liturgia, e all’interno di essa l’ufficio e la Messa, occupava un posto secondario nella vita di pietà. Ciò che contava erano il sentimento e la disposizione interiore del soggetto, di ogni individuo, di ogni cristiano. La santità derivava dal compimento di “esercizi” di pietà, cioè esercizi della propria volontà. Il culto era solo l’occasione per ottenere l’Eucaristia, che si ricevesse o meno la comunione durante la Messa, e ciò che contava era la disposizione interiore di ogni persona durante la Messa. Per questo motivo i fedeli erano incoraggiati a leggere le loro preghiere nei devozionali o a recitare il rosario mentre adoravano il Dio vivente, per non annoiarsi. Il culto era un oggetto utile per la realizzazione di un sacramento; ma ciò che era importante per la santificazione era il soggetto che partecipava a quel culto.

Tutto ciò ebbe conseguenze deplorevoli. Le abbiamo viste espresse candidamente qualche giorno fa nello scritto di un fedele cattolico che forniva le ragioni per cui non si dovrebbe assistere alla Messa tradizionale quando è celebrata da sacerdoti della Fraternità sacerdotale San Pio X. Gran parte della sua argomentazione è alimentata da questa malsana preminenza della devotio moderna. Egli ammette che in molti casi le Messe nel rito di Paolo VI sono celebrate “senza unzione, con gravi sviste liturgiche e persino sacrilegi”. Tuttavia, dice, è comunque necessario parteciparvi, perché “la vera pietà ha a che fare con l’accettazione pura e semplice di ciò che la Chiesa comanda oggi, anche se non siamo d’accordo, anche se è difficile da capire, anche se non ne vediamo le ragioni… questo e nient’altro è ciò che ci farà partecipare con maggior frutto spirituale all’unica Messa”. Per l’autore di questo scritto, l’unica cosa importante è l’obbedienza, con i frutti spirituali che il soggetto può ottenere partecipando all’atto di culto, al di là del culto stesso. Circa l’oggetto, cioè la Messa, non ha importanza come viene celebrata, in un rito o in un altro, con maggiore o minore unzione; ciò che conta è la disposizione interiore dell’individuo che vi assiste; e se egli ha difficoltà a parteciparvi perché la trova brutta o non gli piacciono le chitarre, tanto meglio, perché eserciterà più eroicamente la propria volontà. Insomma, siamo a una pietà volontaristica e individualista, lontana dalla tradizione spirituale insegnataci da grandi maestri come san Benedetto, san Gregorio o i Padri del deserto.

È comprensibile, quindi, che coloro che si sono formati a questa spiritualità si preoccupino poco della liturgia. La considerano nient’altro che uno strumento che permette di ricevere la comunione e quindi di ottenere “frutti spirituali”. Si tratta di una strumentalizzazione utilitaristica della liturgia. L’offerta del vero culto al Dio vivente – che significa ortodossia – è stata relegata in secondo piano o, meglio, messa a tacere. È scomparsa. E il culto ha finito per diventare uno strumento utile per “santificarmi”: sono io il fine ultimo del culto, non è più Dio. Da qui al progressismo è solo questione di tempo.

Fonte: caminante-wanderer.blogspot.com

Titolo originale: Devotio moderna y liturgia

 

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