Festival di Fede & Cultura / Un abbraccio a tutti gli amici. Ed ecco qui il testo che non ho letto

Cari amici di Duc in altum, sabato 30 settembre ho partecipato, su invito degli organizzatori, al Festival di Fede & Cultura che quest’anno ha proposto il titolo Amare la Chiesa appassionatamente. Desidero ringraziare tutte le persone che sono venute a salutarmi e a farmi firmare copie dei miei libri. Ho avvertito un grande senso di amicizia e, se posso dirlo, autentico affetto. In questi casi vorrei essere un tipo diverso, più espansivo, ma cerco di rimediare con queste righe mandando a tutti un forte abbraccio.

La mia relazione ha toccato due argomenti: da un lato la presentazione del mio libro Stato di emergenza, dall’altro una sorta di illustrazione del modo in cui vivo nella Chiesa in questa fase così delicata e critica. Per non annoiare troppo, ho parlato a braccio.

Qui vi propongo la parte sulla Chiesa del testo che avevo preparato ma poi non ho letto.

A.M.V.

***

Ma io sono ancora cattolico? Memorie di un indietrista

Ringrazio per l’invito, ma ho il sospetto che abbiate invitato la persona sbagliata.

Questo, lo dico subito, è un intervento ad alto tasso di sincerità. Ed è assai probabile che, per diversi motivi, possa risultare sgradevole e poco edificante. Ho preferito tuttavia essere sincero e sgradevole piuttosto che gradevole ma insincero.

Al momento – a proposito di sincerità – io non so se e in che misura sono nella Chiesa. Non so se ne faccio ancora parte. Né so di quale chiesa eventualmente faccio parte.

L’unica cosa che so è che provo un grande senso di estraneità verso tutto, o quasi tutto, ciò che è Chiesa.

Parlo di senso di estraneità perché non so come definirlo meglio. Faccio alcuni esempi, tutti riguardanti il novus ordo.

Quando alla messa il prete chiede di scambiare un segno di pace, io me ne sto impalato e non muovo un muscolo. Non mi va. Mi viene solo il nervoso. E se poi l’invito è a scambiare uno sguardo di pace, io abbasso gli occhi e osservo le punte delle mie scarpe. Preferisco guardare le scarpe perché se rivolgessi lo sguardo ai miei vicini non sarebbe propriamente pacifico. Solo una volta, di recente, mi sono piegato all’orrenda stretta di mano. Perché avevo accanto a me un indiano (dell’India) e ho temuto che se non gli avessi stretto la mano mi avrebbe preso per razzista, e non ho voluto rovinargli la domenica e forse tutta la settimana.

Quando alla messa è il momento di recitare il Padre nostro nuova formula, io lo recito in latino, vecchia formula, e anche a voce piuttosto alta, così che gli altri possano restare interdetti e chiedersi che cavolo sta facendo questo tizio che al momento del “non abbandonarci in tentazione” quasi urla “et ne nos inducas in tentationem”.

Quando al Gloria viene il momento di dire “pace agli uomini amati da Dio”, io ricorro di nuovo al latino e, anche in questo caso alzando sensibilmente il volume, proclamo: “Gloria in altissimis Deo, et super terram pax in hominibus bonae voluntatis”, che dopo tutto sono parole del Vangelo.

Quando nel Credo si ricorda l’Incarnazione, mi inginocchio, suscitando di nuovo lo sconcerto dei vicini, che non capiscono se questo vecchietto è matto o mezzo svenuto.

Quando il prete inizia e chiude l’omelia guardandosi bene dal dire “sia lodato Gesù Cristo”, avverto l’impulso di andarmene e divento tutto rosso.

Quando il prete nell’omelia anziché commentare le letture incomincia a fare sociologia, io sbuffo, mi gratto la testa, muovo le gambe come preso dal ballo di san vito. E se poi il prete commenta le letture ma solo per piegarle alla sinodalità o alla misericordia bergogliana o alla logica del tempo e alla mentalità dominante, può anche succedere che mi porti una mano alla bocca, onde evitare di  esplodere nel grido: “Ma mi faccia il piacere!”.

Quando, alla Comunione, il celebrante si deterge abbondantemente con il gel disinfettante, solo il mio angelo custode, ma a fatica, mi impedisce di insorgere con epiteti irripetibili. E non parliamo delle ostie consacrate distribuite come caramelle, magari da una “ministra straordinaria dell’Eucaristia” chiamata in causa in aiuto del celebrante come se la Comunione dovesse essere distribuita a folle oceaniche e non ai soliti noti.

Quando, alla fine della messa, il celebrante dice “buona domenica e buona settimana”, e magari aggiunge pure l’esecrabile “buon pranzo”, io avverto nei suoi confronti un sentimento che non è precisamente di fraternità ma si avvicina piuttosto a una forte avversione, per non dire ostilità.

Insomma, forse avete capito perché parlo di estraneità.

E forse a questo punto capirete perché, se ce la faccio, vado alla messa antica, che però preferisco chiamare messa apostolica. Mi piace molto, mi ci trovo bene e, anche se mi devo fare svariati chilometri in macchina andata e ritorno, ci vado volentieri, e lì non mi sento estraneo. Semmai, mi sento piccolo, nel senso di non sufficientemente istruito, ma sto bene, sono sereno. Ed esco dalla messa edificato, non incavolato come quando esco dalla messa in parrocchia.

Qualcuno mi dice: “Ma che fai? Così finisci in un ghetto, non cammini più con la comunità”. E va bene, pazienza. Non cammino, però mi sento confermato nella fede. Lì il celebrante non mistifica la Bibbia, c’è riverenza verso il buon Dio, non c’è protagonismo umano. E non mi passa mai per la mente di mordere la mano del mio vicino.

Tutto ciò, sotto molti aspetti, è strano. Nell’antica chiesa parrocchiale della mia città, in cui sono andato per decenni, dove sono stato battezzato e cresimato e ho ricevuto la prima comunione, mi sento estraneo. In una chiesa lontana dalla mia città, e in mezzo a persone che per lo più non conosco, mi sento a casa.

Credo che il buon Dio attraverso questa stranezza mi stia dicendo qualcosa, anche se al momento non so bene cosa.

In questo momento, ripeto, tutto è molto strano e io stesso mi sento strano. Non so nemmeno come definirmi. Se fino a qualche anno fa mi sentivo orgogliosamente cattolico ambrosiano, ora non so più che cosa sono. Forse sono un indietrista, come dice Francesco. E va bene, non è un problema: vada per l’indietrista. Non ne faccio una questione di etichette.

Sincerità per sincerità, vi dico anche che spesso vado alla messa della Fraternità sacerdotale San Pio X. Lo so, ci sono tate questioni aperte, dal punto di vista sia canonico sia dottrinale. E non sono certamente questioni di poco conto. Comunque io lì mi sento bene, ascolto ottime omelie cattoliche, trovo tanta riverenza ed esco dalla chiesa spiritualmente ricaricato.

Ecco perché dico che probabilmente avete sbagliato a invitarmi. Davanti a voi avete un cattolico vagante che oggi proprio non vorrebbe parlare, ma soltanto ascoltare, per capire meglio, per essere consigliato e orientato.

Per estrema sincerità (la mia sta diventando una specie di confessione pubblica) dirò un’altra cosa: a volte faccio fatica a pregare per il papa. Una volta ho scritto un articolo, intitolato “Roma senza papa”, che ha provocato un certo scalpore ed è stato anche un po’ equivocato. Ma quel titolo dice quel che avverto nel mio animo: mi sento senza papa perché il papa che c’è non mi conferma nella fede. Anzi, proprio come la messa in parrocchia, mi esaspera e mi inquieta.

Per cui mi chiedo: stando così le cose, io sono ancora cattolico?

Alcune persone mi scrivono e mi dicono: “Attento! Lei sta perdendo la sua anima!”. In realtà non me lo dicono in modo così gentile, perché per lo più mi riempiono di insulti, ma il succo è quello. E la cosa curiosa è che l’avvertimento mi arriva da due fronti opposti: sia da quelli che sono sicurissimi che Francesco non sia papa, e sostengono che io dovrei finalmente unirmi a loro e dirlo apertamente, sia da quelli per i quali invece Francesco è papa e io dovrei smetterla di criticarlo.

Capirete che stare in mezzo ai due fuochi non è piacevole. Sia perché ricevo regolarmente insulti da entrambe le parti, sia perché dentro di me il senso di smarrimento aumenta.

La mia posizione è, in effetti, scomoda. Per me Francesco è papa, e tutte le storie sull’irregolarità della sua elezione e sul fatto che Benedetto XVI non avrebbe mai veramente rinunciato sono solo fantasie, fondate su presunti codici senza fondamento. Ritenere che non sia papa mi sembra solo una scorciatoia mentale (giustificabile psicologicamente, ma non per questo corretta) per evitare di confrontarsi con la realtà. Un po’ la stessa cosa (lo dico con tutto il rispetto e senza animosità) che succede ai sedevacantisti, ai sedeprivazionsiuti et similia. Siccome la realtà non mi piace e mi fa orrore, fermo il tempo, dico che tutto ciò che è avvenuto da un certo momento in poi non esiste e risolvo ogni questione.

Per me invece Francesco è papa, ma non è un buon papa. Anzi, è un pessimo papa. Lo è per un’infinità di ragioni ma, stringendo, il problema è quello che dicevo prima: non mi conferma nella fede. Al contrario, introduce elementi di ambiguità in tutto ciò che tocca. Proprio in un tempo in cui la superficialità ha abbondantemente superato i livelli di guardia, e io sento fortemente il bisogno di profondità e serietà, lui dice per lo più cose superficiali. Proprio in un tempo in cui il pensiero del mondo è un pensiero più che mai omicida (per il corpo e per l’anima), lui non perde occasione di sposare quel pensiero.

Dunque, il sottoscritto è ancora nella Chiesa cattolica? Sono ancora nella Chiesa nel momento in cui avverto che il papa non mi conferma nella fede e anzi mi innervosisce? Quel papa non è forse espressione della Chiesa? Non è forse uscito da un conclave tenuto nella magnificenza della Cappella Sistina, con tutti i signori cardinali vestiti di rosso porpora e lo Spirito Santo che aleggiava sopra di loro?

Non ho risposte, e vorrei che qualcuno, magari qualche teologo, mi aiutasse. Tuttavia tengo ad aggiungere subito due cose. La prima: questa Chiesa sbandata e smarrita io sento di amarla. Forse ancora più di prima. La seconda: mi sento confuso, sì, ma non disperato.

Il buon Dio, pur in una situazione così strana, non mi ha fatto sprofondare nell’angoscia e nello sconforto, e non c’è giorno che non lo ringrazi per questo. Al contrario, vedo in questa stramba situazione il segno della provvidenza divina. Mi sento nel deserto, ma non perduto. Umanamente sono quasi del tutto privo di punti di riferimento, ma proprio questa mancanza mi fa sentire più vicino al mio Signore.

Qualcuno a questo punto dirà: “Ah! Eccolo qua il solito ritornello: Dio sì, chiesa no! Eccolo qua il solito presunto cattolico che vuole fare il furbo e costruirsi un Dio a sua immagine e somiglianza!”.

Accetto l’osservazione, anche perché è quella che faccio a me stesso. Ma sinceramente non credo di essere quel tipo di cattolico furbastro. Io non riesco a pensarmi senza la Chiesa. Solo che la Chiesa per me oggi è come una grande casa all’interno della quale quasi tutte le stanze sono inospitali. Anzi, proprio le stanze centrali, quelle più importanti, mi procurano un senso di disagio, mentre mi sento accolto in certe stanzette secondarie, del tutto marginali e sperdute.

A volte mi chiamano cattolico tradizionalista. La cosa non mi dà particolarmente fastidio, ma anche questa etichetta non mi convince. Certo, la Tradizione mi sta a cuore, e molto, ma mi sta ancora più a cuore la conversione. Il fatto è che non trovo un aggettivo che renda l’idea. Come definire un cattolico che mette al primo posto la conversione? Forse cattolico e basta può andar bene.

A proposito. Dicevo prima che mi sento confuso ma non disperato. E una grande fonte di speranza sta nel fatto che anche oggi, in questa strana situazione, continuano a esserci dei convertiti. Spesso ne vengo a conoscenza attraverso il mio blog e non finisco di ringraziare il buon Dio che sa scrivere dritto su righe storte.

Sì, anche se nessuno ne parla (e anzi, sembra che parlarne sia un delitto, perché non dobbiamo fare proselitismo eccetera) le conversioni avvengono. Ma perché una persona si converte? Forse dopo aver letto un’intervista al papa o un articolo del direttore della “Civiltà cattolica”? Forse grazie a qualche sinodo dei vescovi? Forse grazie a qualche documento vaticano sulla nuova evangelizzazione? No, non che mi risulti. Le persone si convertono per nostalgia del bello e del vero. Perché avvertono nel cuore questa nostalgia di una casa, di una vera casa, e la trovano nella Chiesa cattolica di sempre, non certo in quella che vorrebbe trasformare la nostra fede in un vago umanitarismo.

Il buon vecchio Chesterton, nel libro “La Chiesa cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento” (titolo che forse oggi andrebbe modificato mettendo il verbo al passato: dove tutte le verità si davano appuntamento), a un certo punto, proprio citando un convertito, scrive: “Non so spiegare perché io sia cattolico; ora che lo sono, non riesco a immaginare d’essere nient’altro”.

Nel mio piccolo, è così anche per me. Non riesco a immaginare d’essere nient’altro. Mi tengo aggrappato alla Tradizione come un naufrago a un pezzo di legno in mezzo alla tempesta.

Situazione scomoda, senz’altro. Eppure trovo perfino il modo di riderci su, come sanno i lettori del mio blog. Perché non ho nessuna intenzione di lasciarmi contaminare dalla seriosità di certi soloni che si prendono tremendamente sul serio e non hanno un briciolo di autoironia.

Il buon vecchio Chesterton scrisse anche che la Chiesa è come una casa dalle cento porte, e nessuno vi entra con la stessa angolazione. Giusto. Ma potrei aggiungere che è anche vero che ne nessuno vi esce allo stesso modo. C’è chi sbatte la porta, chi se ne va alla chetichella, chi sente il campanello, va alla porta, trova una religione che gli piace di più e la fa sua. E chi, pur rimanendo formalmente dentro, in realtà è fuori.

Per quanto mi riguarda, l’idea di andarmene non mi ha mai sfiorato, ma magari me ne sono già andato e non me ne rendo conto. Solo Dio scruta nel cuore dell’uomo e solo quando lo incontrerò, al momento del giudizio, mi verrà svelato tutto.

Nell’attesa, provo ad andare controcorrente, come penso dovrebbe fare ogni cattolico. Perché noi siamo figli di Dio, non figli del tempo. E niente mi mette più tristezza di una Chiesa che – con la scusa dell’inclusività, dell’accoglienza, dell’ascolto – insegue lo spirito del tempo.

Al momento tanti nostri pastori sembrano ossessionati dal problema di vedere se la religione ci consente di essere liberi. Non si accorgono che il vero problema è vedere se la libertà ci consente ancora di essere religiosi (sto parafrasando Chesterton, il quale mi perdonerà).

Aprirsi a tutto e a tutti, essere in cammino, in uscita, in ascolto, in sinodo. Questi gli imperativi. E più mi vengono raccomandati più mi vien voglia di chiudermi, per concentrarmi su ciò che conta, sull’essenziale, sui comandamenti divini, lasciando perdere tutto il resto. Rivendico il diritto di selezionare. Non voglio ascoltare ciò che accresce la confusione. E che importanza ha camminare se non c’è una meta per cui valga la pena mettersi in cammino?

Più osservo i problemi della Chiesa e più mi sembra di capire che rientrano in una grande crisi che non è prima di tutto della fede, ma della ragione. Il mondo, volendo rifiutare Dio, sragiona. E la Chiesa che fa? Anziché tornare a Dio, ovvero al ragionevole, si mette a sragionare a sua volta. E non serve a nulla tirare in ballo l’inclusione e l’ascolto. Sragiona e basta.

Come Chesterton osserva in un altro libro (“Perché sono cattolico e altri scritti”), “il mondo moderno ha subìto un tracollo mentale, molto più consistente del tracollo etico”. Da quando l’autore inglese scrisse queste parole (1926) è passato quasi un secolo: chissà che cosa direbbe oggi! E chissà che cosa direbbe nel verificare che la sua amata Chiesa cattolica, a partire dai vertici, ha deciso di mettersi a sragionare insieme al mondo.

Vi ho già rubato troppo tempo.

Siccome a quanto pare sono un indietrista incallito, chiudo con una citazione di un vecchio testo quasi dimenticato, l’”Apparecchio alla morte” di sant’Alfonso Maria de’ Liguori: “Chi medita spesso i novissimi, cioè la morte, il giudizio e l’eternità dell’inferno e del paradiso, non cadrà in peccato”. Guardate un po’: in due righe il santo (evidentemente anche lui un indietrista) usa sei parole che la Chiesa ha espunto dal suo vocabolario: morte, giudizio, eternità, inferno, paradiso, peccato.

Mi sembra il caso di meditarci sopra.

Grazie per avermi ascoltato. E, per favore, auguratemi di tutto, ma non “buon pranzo”.

Peschiera del Garda, 30 settembre 2020

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