Sul Covid, le Sante Messe e… la faccia di bronzo del vescovo

di Fabio Battiston

Seconda parte

Ed eccoci, cari fratelli di Duc in altum, alla seconda e ultima parte del mio commento all’articolo apparso il 30 settembre scorso sulle colonne on-line di Avvenire, dal titolo Sempre meno fedeli a Messa. «Ecco da dove possiamo ripartire».

Abbiamo concluso la prima parte di questo contributo [qui] analizzando le amene riflessioni del vescovo di Mantova monsignor Marco Busca concernenti la “deludente qualità celebrativa delle liturgie”. Lo ritroviamo ora gettarsi a capofitto nella tematica – così amaramente cara ai lettori di questo blog – concernente il ruolo avuto dalla pandemia Covid nella crisi partecipativa alla liturgia cattolica. Leggiamo, a riguardo, gli ammaestramenti del monsignore:

Con la pandemia la frequenza ai riti domenicali ha subìto un calo sensibile. Tutto ciò ha palesato disagi che erano latenti da tempo. Dopo la ripresa delle celebrazioni comunitarie, un segmento dei fedeli non è tornato. Era la loro una partecipazione abitudinaria e poco motivata? O c’è dell’altro? Qualcuno ha detto che l’emergenza sanitaria è stata un’occasione persa perché non ha contribuito a far comprendere che l’incontro con Dio avviene non soltanto nei riti mediati dal sacerdote e con la comunità, ma che c’è anche una liturgia domestica con la preghiera in famiglia al centro. E c’è un sacerdozio battesimale che andava più valorizzato. Abbiamo affollato il web di pseudo-ritualità. E in alcuni è passata l’idea che la Messa in tv fosse non solo più comoda ma equivalente. Ciò ha alimentato il rischio di una spiritualità fai-da-te che è affine a una certa cultura contemporanea di stampo individualistico. Invece l’esperienza cristiana implica una comunità in carne e ossa, che celebra il mistero attraverso la corporeità, che sta sul territorio, dove ai momenti celebrativi si aggiungono percorsi di fraternità e missione.

È incredibile (o forse no?) la faccia di bronzo dell’estensore di tali dichiarazioni. Il buon Busca lamenta che dopo la ripresa delle celebrazioni un segmento di fedeli non è ritornato. Non sarebbe forse meglio, caro vescovo, ripensare alle mostruose modalità con le quali la Chiesa cattolica ha affrontato l’emergenza sanitaria, proprio dal punto di vista della vita liturgica della comunità ecclesiale? In un periodo insopportabilmente lungo nel quale doveva essere fondamentale per i fedeli (ma non solo) avere chiara la percezione, in forma e sostanza, di una Chiesa aperta, viva come non mai e come non mai vicina alla “sua” gente proprio in un frangente così drammatico, a quale triste, penoso e spesso vergognoso spettacolo essi hanno invece dovuto assistere?

Abbiamo assistito basiti, poi increduli e infine rassegnati a una Chiesa che durante e dopo la prima fase acuta dell’epidemia Covid 19 ha supinamente accettato – talvolta rendendole ancor più restrittive – le regole imposte dallo Stato su materie esclusivamente di pertinenza/responsabilità religiosa. Tra esse: la celebrazione della messa, l’organizzazione liturgica, l’apertura dei luoghi di culto e così via. Una Chiesa che – specialmente nelle sue più alte gerarchie – ha tranquillamente abdicato al suo mariano ruolo di Salus infirmorum e Consolatrix afflictorum, nello stesso momento in cui in altri contesti, cercando di assicurare (quando e come possibile) le giuste regole di sicurezza:

  • medici e infermieri, a rischio della propria vita, curavano ai limiti della resistenza umana;
  • tutte le farmacie restavano aperte;
  • decine di migliaia di persone operavano giorno e notte per garantire i servizi essenziali e la sicurezza;
  • industrie importanti restavano regolarmente in funzione;
  • nei supermercati, nei negozi di alimentari, nei ferramenta (!) le persone entravano facendo correttamente la fila.

E le chiese, le basiliche, le abbazie, i monasteri, i conventi? Tutti rigorosamente chiusi, sprangati e inaccessibili. Niente funerali, anche e soprattutto per chi è morto nella solitudine e l’isolamento, niente conforti religiosi ai malati gravi, niente aiuto spirituale alle famiglie che, in poco tempo, hanno visto i loro cari morire nel silenzio. C’erano una volta Madre Teresa di Calcutta e Raul Follereau (e mi scuso con le migliaia d’altri più o meno noti e, talvolta, sconosciuti che da santi, semplici sacerdoti o laici, hanno rappresentato nella storia della Chiesa l’unica speranza per i malati, i moribondi ed i sofferenti di ogni latitudine). Si è incredibilmente assistito, per la prima volta, all’immagine di un carabiniere che è entrato in una chiesa per impedire la celebrazione di una messa o alla denuncia di sacerdoti che, rispettando la sicurezza, sono comunque scesi in strada per svolgere delle processioni. Soprusi e vessazioni alle quali la Chiesa (nelle più alte gerarchie, nella Cei e nelle diocesi vescovili) ha opposto il più assordante dei silenzi! Anzi no, ha “bacchettato” il clero dissidente, esaltando la new age tecnologica che consentiva la partecipazione virtuale alle messe ed alle celebrazioni liturgiche! Altro che pseudo-ritualità via web come la definisce Busca. A riguardo, segnalo con accorato disgusto un trafiletto apparso in quei periodi su Avvenire nel quale si promuoveva “la grande offerta di messe e di incontri di preghiera on line, disponibile su Internet” (neanche fosse lo spot per la vendita di telefonini a prezzi ribassati su Amazon. Che schifo!). Una Chiesa che, paradossalmente, ha rovesciato i ruoli della relazione manzoniana tra il cardinale Federigo Borromeo e don Abbondio. Da una parte il passato con l’immagine del Santo, principe della Chiesa, che ricorda al povero e pavido curato di campagna i suoi doveri di sacerdote, proprio nei frangenti più duri e rischiosi del suo ufficio. E lo fa dando per primo l’esempio, sfidando a testa alta la peste nera per le vie di Milano. Ed ecco invece l’oggi, con coraggiosi e sparuti gruppi di sacerdoti, frati, monaci e suore che, disobbedendo a Cesare ma obbedendo a Dio, hanno sfidato l’ignavia del papa, di cardinali e vescovi, il cui unico desiderio è stato quello di sottomettersi volentieri al potere temporale. Per questi ultimi, evidentemente, un battesimo o la rinnovazione del sacrificio dell’Ultima Cena valevano ben meno dell’esigenza che consentiva ad una tabaccheria o a un supermarket di restare aperti. Ma è quindi questa la Chiesa tanto reclamizzata dal señor Jorge e dalla pletora dei suoi cavalier serventi? La Chiesa “in uscita”, quella che si rivolge alle grandi periferie (esistenziali o meno), la Chiesa “grande ospedale da campo”? Evidentemente no! Questa Chiesa così nuova e così santa – per gli adulatori dell’attuale pontefice – è riservata unicamente a clandestini e profughi d’ogni dove, zingari, tupamaros e sandinisti, teologi orfanelli del Che Guevara, ecologisti e, non ultime, le tribù amazzoniche pagane o, al più, catto-panteiste. Nei primi giorni di marzo 2020 il primo a nascondersi è stato proprio l’inquilino di Santa Marta, seguito a ruota dai cardinali e vescovi suoi vassalli. Ed in tutto questo tempo di sofferenza, per l’Italia e per il mondo, vi è stato il beau geste del 15 marzo – compiuto ad esclusivo uso e beneficio dei mass-media planetari suoi cortigiani – e cioè lo squallido spettacolo dell’argentino in solitario cammino su una via del Corso deserta, pellegrino verso la Chiesa di San Marcello per “invocare” (con la sacra mediazione della pachamama?) la fine della pandemia. Ecco il novello cardinal Borromeo che sfida la morte contro la peste del XXI secolo! Che tristezza e che pena. Sul tema Covid-liturgia ci sarebbe ancora moltissimo da mettere a fuoco. Il vescovo di Mantova avrebbe potuto dirci qualcosa sulla quasi-scomunica di quei cattolici che in piena coscienza non hanno inteso vaccinarsi, sullo scempio della comunione in mano, oppure sulle oscure sinergie tra la Santa Sede ed i capi del cartello farmaceutico mondialista, primo fra tutti lo pfizerino sant’Albert Bourla, il veterinario greco tenuto in così gran conto dall’inquilino di Santa Marta. Ma capiamo bene che tutto ciò non rientra nelle corde di un ossequioso sodale del despota argentino.

A conclusione di questo più che edificante articolo, non poteva mancare la problematica giovanile con lo stantio riproporsi della tematica inerente l’assenza di ragazzi e ragazze dalla partecipazione liturgica. Qui assistiamo al festival dei luoghi comuni, degli slogan e, soprattutto delle falsità. Si comincia con:

L’estraneità dei giovani alla liturgia è lo specchio di una Chiesa a due velocità: quella degli “over” che vanno a Messa e quella delle nuove generazioni che si ricompattano nei grandi eventi come la Gmg o che ha forme aggregative diverse rispetto a quella liturgica.

E ancora:

Non è vero che i giovani peccano di giovanilismo. Le critiche per riti noiosi, indecifrabili, soprattutto poco vivi e coinvolgenti sono da tenere in debito conto. Fa pensare che a Lisbona i giovani abbiano partecipato con entusiasmo ogni giorno all’Eucaristia o che nei campi estivi le celebrazioni siano accolte positivamente. Inoltre sono gli stessi giovani a privilegiare contesti comunitari, come lo sono quelli liturgici».

Insomma per il vescovo di Mantova (che ricordo essere il presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia) liturgia e Gmg sono “forme aggregative”, soluzioni diverse e buone per tutte le stagioni della vita di un cattolico. Lasciamo pure agli over (e chi sarebbero costoro, esattamente?) la partecipazione a quei “noiosi, indecifrabili e poco coinvolgenti riti” che si chiamano Santa Messa e chiamiamo a raccolta la sterminata massa giovanile ai nuovi Woodstock ed Isola di Wight con crocifisso incorporato. Poco importa se poi, come fu chiaramente documentato, la spianata di Tor Vergata, sede della Gmg del 2000, risultò ricoperta di profilattici al termine dell’evento.

E infine non poteva mancare il classico slogan, uno spot ormai famoso (e stantio) nato sotto le insegne del conducator di Buenos Aires; degno finale a effetto delle riflessioni di Busca:

Poi c’è la qualità dei riti che può essere riassunta nel motto “Più Messa, meno Messe”. Succede che si tenga un’Eucaristia domenicale per otto persone e l’ora successiva per altre quindici. Moltiplicare le Messe e smembrare l’assemblea è contrario alla natura dell’Eucaristia che implica il “convergere in uno”. E la quantità rischia di andare a discapito della dignità liturgica.

Cari lettori di Duc in altum, io sono l’ultimo dei credenti e il primo tra i peccatori; non sono sacerdote, né teologo, tantomeno un fine esegeta della liturgia cattolica. Chiedo quindi nella massima umiltà: sono io che a sessantasette anni suonati non ho ancora capito un accidente di cosa sia la Santa Messa oppure chi me lo dovrebbe insegnare va raccontando di giorno ciò che si sogna di notte? Io finora avevo sempre pensato, e creduto, che la rinnovazione del sacrificio eucaristico nel mistero dell’Ultima Cena dovesse essere pane quotidiano per la Chiesa e per tutti i credenti. Un pane da spezzare non una ma anche dieci, cento volte al giorno in ogni chiesa, nella cella di un monastero, nel deserto – materiale e morale – di ogni comunità umana, specie quelle in piena disgregazione. Non ho mai pensato che per un sacerdote fosse di qualche importanza celebrare la Messa davanti a uno, nessuno o centomila! Pare che invece le cose non stiano affatto così. Bisogna ottimizzare, evitare sprechi (di tempo, di luce elettrica, di tempi morti, ecc.), non contribuire all’aumento della CO2. Anche l’Eucaristia deve diventare ecosostenibile, per Giove! Grazie, eccellenza, per questa sua edificante illuminazione liturgica.

Scusatemi, ma non ho potuto resistere al richiamo di un sano sarcasmo nel commentare le ultime esternazioni del vescovo. Chiudo con meno ironia questo nuovo e amaro momento nel quale, come cattolico, ho ricevuto dalle parole del monsignore l’ennesima prova di qual miserevole parabola stia vivendo la Chiesa cattolica temporale. Suggerisco a Busca di mettere per un attimo da parte le sue analisi e riflessioni (per me assolutamente spaventevoli) e lo invito, appena potrà o vorrà, ad assistere ad una messa domenicale in una qualsiasi delle ormai sempre più sparute chiese ove si celebra la Santa Messa vetus ordo. Vi troverà molte risposte alle sue arzigogolate elucubrazioni sulla crisi della liturgia. Le troverà nei mille volti, di bambini, ragazzi, giovani, adulti e anziani che popolano sempre più numerosi quelle chiese; nelle famiglie numerose e nei gruppi che in quei riti vivono, o hanno ritrovato, il senso di una fede pur sempre imperfetta ma desiderosa di vivere un percorso di speranza che durerà per tutta la vita. Se le interessa, ci troverà e mi troverà a Roma nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini.

2.fine

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