Vescovi, nostra sofferenza. Vescovi, nostra speranza

di don Claude Barthe

Dopo il Vaticano I, che fu il concilio del papa e che si concluse troppo presto per andare oltre la definizione dell’infallibilità pontificia, il Vaticano II doveva essere un concilio di riequilibrio, il concilio dei vescovi, si disse al momento della sua apertura.

Una partecipazione alla giurisdizione universale attraverso la consacrazione episcopale

Ne è testimone il riconoscimento della sacramentalità dell’episcopato (Lumen gentium, n. 21), ma questo non ha suscitato un dibattito appassionato. D’altra parte, la sua affermazione è stata seguita da quel che si può ben qualificare come un gioco di prestigio dottrinale. Invece di dire che la consacrazione episcopale conferisce la capacità di ricevere la giurisdizione [1] su di una parte specifica del popolo cristiano (generalmente una diocesi), Lumen gentium ha affermato che «la consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono essere esercitati, se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio». In altre parole, attraverso la sola consacrazione episcopale viene direttamente un «ufficio di governare», cioè una giurisdizione, il cui esercizio concreto sarà determinato dalla nomina a capo di una diocesi. L’esercizio di questo ufficio è determinato dalla nomina a vescovo diocesano, ma non ne risulta realmente limitato, qualora ben si comprenda questo testo difficile da comprendere. Esso attribuisce, in effetti, a ciascun vescovo una partecipazione alla giurisdizione universale e non solamente una premura verso tutta la Chiesa, come gli veniva riconosciuto dalla dottrina tradizionale (Pio XII, Fidei donum, 21 aprile 1957). Lumen gentium al n. 23 ricorda peraltro tale sollecitudine universale tradizionale in atto, ma collegandola ad una giurisdizione universale in potenza: «anche se non viene esercitata con un atto di giurisdizione».

Un collegio episcopale, papa e vescovi, soggetto di giurisdizione universale?

Tale partecipazione di ciascun vescovo alla giurisdizione sull’intera Chiesa conduce alla dottrina della collegialità, contro la quale la minoranza conciliare s’è particolarmente battuta, ma senza successo, in quanto la trovava di sapore parlamentare e la considerava, non senza ragione, come un attacco al primato pontificio.

L’intenzione dei vescovi del Vaticano II sembrava dunque essere quella di dare all’insieme dell’episcopato unito al papa un potere collegiale permanente su tutta la Chiesa. Per far ciò, occorreva che ci fosse formalmente un collegio. L’affermazione secondo cui il collegio degli Apostoli, che si suppone abbia esercitato un governo pastorale collegiale permanente, sfociasse nel collegio episcopale, sembrava adatta per stabilire che i vescovi nel loro insieme costituissero, anche al di fuori del fatto di riunirsi in concilio, un collegio episcopale formale, tale da esercitare questo stesso governo universale. Nel passaggio-chiave su questo punto, il n. 22 di Lumen gentium, due termini distinti sono stati utilizzati con prudenza, «ordine» e «collegio», «l’ordine dei vescovi» e «il collegio apostolico», ma anche un termine comune, «corpo», «corpo apostolico» e «corpo episcopale»: «Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro […]. L’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio apostolico nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico senza interruzione, è anch’esso in unione col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa» [i corsivi sono nostri]. Se capiamo bene, l’episcopato unito al papa non è più soltanto un soggetto di infallibilità, come si affermava tradizionalmente (essendo il papa solo l’altro soggetto di tale infallibilità), ma esso è anche un soggetto di potere plenario su tutta la Chiesa.

I vescovi diocesani derivano la propria giurisdizione immediatamente da Cristo e non attraverso l’intermediazione del papa

In coerenza con quanto precede – cioè che ogni vescovo, secondo Lumen gentium, riceve al momento della sua consacrazione una partecipazione alla giurisdizione universale -, la stessa Lumen gentium ha assunto una posizione – e questo molto più chiaramente – sull’origine della giurisdizione dei vescovi diocesani. Al n. 27 la costituzione sulla Chiesa li ha qualificati come vicari et legati Christi, vicari ed inviati di Cristo, il che non avrebbe nulla di rilevante se il titolo di «Vicario di Cristo» non fosse stato fino a quel momento riservato generalmente al papa [2]. Ma il n. 27 ha proseguito: il potere, potestas, che i vescovi diocesani esercitano così in nome di Cristo è «proprio, ordinario ed immediato» [il corsivo è nostro]. Il termine potestas è meno preciso e soprattutto meno tecnico di quello della juridictio (il potere di governare), ma è proprio della giurisdizione del vescovo diocesano qui trattata, a causa dei due primi aggettivi utilizzati classicamente per qualificare la giurisdizione episcopale, che è in effetti «propria» (esercitata dal titolare, qui il vescovo, in suo nome e non per delega) ed «ordinaria» (inerente alla funzione, qui il suo ufficio episcopale diocesano).

D’altra parte, la terza qualifica, «immediata», rappresenta una considerevole novità. Pio XII, in effetti, aveva insegnato a tre riprese che la giurisdizione di diritto divino dei Successori degli Apostoli, emanando da Cristo (come ogni giurisdizione, del resto), si riceve per mezzo del Successore di Pietro, con la sua mediazione. In Mystici Corporis del 29 giugno 1943: «Se essi [i vescovi diocesani] godono della potestà ordinaria di giurisdizione, tale potestà viene loro immediatamente [il corsivo è nostro] comunicata dal Sovrano Pontefice». E, nel contesto dello scisma della Chiesa patriottica cinese, in Ad sinarum gentem del 7 ottobre 1954: «La potestà di giurisdizione [in generale e, in particolare, quella dei vescovi diocesani] viene conferita direttamente, per diritto divino, ma solamente con l’intermediazione del successore di Pietro»; ed analogamente in Ad Apostolorum Principis del 29 giugno 1958: «La giurisdizione giunge ai vescovi solo per mezzo del romano Pontefice».

Inoltre, quasi a correggere la propria affermazione, secondo cui la giurisdizione è data immediatamente al vescovo diocesano da Cristo, Lumen gentium ha aggiunto: «Essa [tale potestà] è in ultima istanza sottoposta alla suprema autorità della Chiesa e, entro certi limiti, in vista dell’utilità della Chiesa o dei fedeli, può esser ristretta [3]».

Va aggiunto che i Padri del Vaticano II, in questo stesso movimento di autoaffermazione episcopale, si sono sforzati di ridurre quegli ostacoli, che potessero giungere da altri poteri. Così, l’esenzione dei religiosi (cioè la loro sottrazione alla giurisdizione del vescovo), che partecipano alla vita pastorale della diocesi, ne è rimasta intaccata: è stato abitualmente spiegato ch’erano stati sottomessi all’«autorità» del vescovo per una buona organizzazione della vita pastorale; il Concilio ha aggiunto ch’essi sono soggetti alla sua «giurisdizione» per la stessa organizzazione pastorale diocesana (decreto Christus Dominus sull’ufficio pastorale dei vescovi, n. 35). Ma soprattutto il n. 31 di Christus Dominus ha praticamente abolito la tradizionale inamovibilità, di cui godeva un gran numero di parroci: «Nel trasferire e nel rimuovere i parroci si adotti e si renda sempre più semplice il sistema secondo il quale il vescovo, nel rispetto dell’equità, nel senso naturale ed in quello canonico del termine, possa più convenientemente provvedere al bene delle anime». Christus Dominus ha detto, tuttavia, che «ogni parroco deve poter godere di quella stabilità di ufficio che il bene delle anime esige». Tramite questa «stabilità», il canone 522 del nuovo Codice di diritto canonico ha cercato di trovare un surrogato all’inamovibilità, una sorta di Cdi [Contratto di durata indeterminata, N.d.T.]: «Il parroco deve godere della stabilità ed è per questo che verrà nominato a tempo indeterminato». Solo che il canone 522 aggiunge: «Il vescovo diocesano può nominarlo a tempo determinato solamente se ciò sia stato ammesso per decreto dalla Conferenza episcopale». Caso che si verifica praticamente sempre. La mobilità dei parroci è quindi divenuta, secondo le intenzioni del Concilio ed attraverso le decisioni delle conferenze episcopali, la regola. Ad esempio, l’ufficio curiale viene generalmente conferito in Francia per 6 anni, con la possibilità di rinnovo ulteriore, ciò che burocratizza inevitabilmente tale incarico.

Vescovi reinquadrati da un papa, che ha più potere che mai

La storia dirà senza dubbio che i papi conciliari hanno goduto di un’autorità più grande rispetto a quella dei loro predecessori, peraltro a parità di condizioni ed in un contesto completamente diverso, un po’ come i leader delle democrazie hanno più potere dei principi, che hanno rimpiazzato. Come Luigi XVIII, che ha concesso la Carta costituzionale, Paolo VI, all’inizio dell’ultima sessione del Concilio, istituì lui stesso, col motu proprio Apostolica sollicitudo del 15 settembre 1965, quel che è sembrato essere l’organo principale della collegialità episcopale e che, allo stesso tempo, singolarmente la accantonava, il Sinodo dei vescovi. Il papa si dotava dunque di un consiglio, denominato Sinodo dei vescovi, le cui assemblee, composte in maggioranza da vescovi nominati dalle conferenze episcopali, si sarebbero riunite previa sua convocazione; esso ne avrebbe fissato l’ordine del giorno; esso non avrebbe che un ruolo consultivo, benché il papa possa eccezionalmente conferirgli un potere deliberativo, riservandosi poi di ratificarne le decisioni. Ciò che poi avrebbe convalidato il Concilio (Christus Dominus, n. 5).

Tuttavia, questo Sinodo non gioca un ruolo secondario nella Chiesa post-Vaticano II. Le sue assemblee periodiche, immagine di quel che accade nelle società moderne, fan parte del gioco di elaborazione di accordi di compromesso, che rimpiazzano di fatto oggi nella chiesa la tradizionale obbedienza della fede, cemento della comunione con Cristo. Il tutto, in questi sinodi, con una forte dose di ciò che si può ben chiamare manipolazione, sia nel senso di moderare le spinte progressiste quando la linea romana fosse quella dell’«ermeneutica del rinnovamento nella continuità» (con Benedetto XVI, Giovanni Paolo II e anche con Paolo VI), sia, al contrario, in senso progressista, quando s’ispira, come accade oggi con Francesco, all’«ermeneutica della discontinuità e della rottura». Le forze conservatrici vengono comunque penalizzate dal fatto che il Sinodo, come del resto l’ultimo concilio, rimanga sul piano pastorale e che qualsiasi critica strettamente dottrinale (sotto forma di domande, di dubia ad esempio) sia inutile.

Inoltre, Paolo VI ha accentuato la sua autorità sull’episcopato con un’altra interpretazione del Concilio. Il decreto Christus Dominus al n. 21 rivolgeva ai «vescovi diocesani ed a coloro che sono ad essi giuridicamente equiparati, una calda preghiera, perché, qualora per la loro troppo avanzata età o per altra grave ragione, diventassero meno capaci di adempiere il proprio compito, spontaneamente o dietro invito della competente autorità rassegnino le dimissioni dal loro ufficio». Paolo VI fissò «l’età avanzata» per le dimissioni a settantacinque anni. Per i vescovi in generale, non per il vescovo di Roma. Decise che i vescovi diocesani e quanti ad essi equiparati dovessero essere «sollecitati a presentare spontaneamente le proprie dimissioni, al più tardi all’età di 75 anni» (Lettera apostolica Ecclesiæ Sanctæ, n. 11). Questo è stato più tardi affidato al canone 401 del Codice del 1983. Il papa sfugge a tale obbligo, in quanto nessuno ha il diritto di rivolgergli tale pressante richiesta. Certo, i vescovi non sono strettamente tenuti a presentare le proprie dimissioni, ma di fatto tutti si attengono a questa regola (l’unico esempio di rifiuto nel presentare le proprie dimissioni è stato quello, nel 2011, dell’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Jorge Bergoglio). Questo offre a Roma una capacità di rinnovare gli episcopati mai avuta in tale misura. Allo stesso tempo, il vescovo, «sposo» della sua Chiesa (cfr. 1 Tm 3, 2), tende a divenire una sorta di prefetto-funzionario provvisorio. Ciò, ancor più sotto l’attuale pontificato, sommamente centralizzatore, dove il pastore di una diocesi si considera come un semplice rappresentante del papa, come si può vedere, ad esempio, nell’applicazione della Traditionis custodes, malgrado tutte le dichiarazioni contrarie.

E vincolati da un sistema di opinione maggioritaria

Inoltre, se il Sinodo concesso da Paolo VI è apparso come l’organo principale della collegialità, le conferenze episcopali, diffuse con la Christus Dominus (n. 37), raggruppando i vescovi di un Paese o di un territorio, sono considerate anche come testimoni della collegialità. Si percepisce come, se essa accresce (teoricamente) il ruolo collettivo dei vescovi, è allo stesso tempo uno strumento utile a ridurre, ad auto-ridurre di conseguenza, la loro autorità individuale.

In realtà, il riunirsi dei vescovi per consultarsi e prendere delle decisioni non ha nulla di tradizionale, a parte il fatto che ciò un tempo avvenisse in una Chiesa, la cui prima preoccupazione restava quella della trasmissione del messaggio di Cristo. I sinodi o i concili particolari, nazionali o regionali del passato, riuniti puntualmente per dibattere questioni di fede (sotto la riserva dell’approvazione pontificia) o di pastorale in senso classico ovvero in rapporto diretto con la fede, non sminuivano in alcun modo, al contrario, l’autorità episcopale. Le conferenze attuali invece sono organizzazioni permanenti, appesantite d’altro canto da procedure amministrative molto vincolanti, che trattano in qualche modo da un punto di vista amministrativo questioni di progettazione pastorale e le cui decisioni s’imporranno, almeno come obbligo morale, sull’insieme dei loro membri.

Il fatto è che nella Chiesa oggi le cose si evolvono al di sotto del magistero, il quale non si impone più in modo permanente come faceva un tempo, sia per specificare quale sia la verità da credere o la regola morale da seguire, sia per condannare l’errore. La comunione attraverso la fede viene rimpiazzata da un vasto movimento d’opinione maggioritaria simile a quello che, in ultima analisi, è il motore delle società moderne, movimento che racchiude il vescovo. La conferenza episcopale plasma i suoi membri dall’alto, mentre la rete degli organi e dei consigli d’amministrazione diocesani ostacolano il vescovo dal basso. È solo di nascosto che un vescovo riesce ad essere non conforme, come ad esempio chi incoraggia alcuni suoi sacerdoti ad utilizzare un catechismo tradizionale invece degli strumenti ufficialmente utilizzati nella diocesi o chi lascia considerevole spazio alla liturgia o ai preti tradizionali o ancora chi organizza un seminario d’impostazione classica. Stravaganze ai margini di quello che è diventato un «sistema», tollerate solo fino all’intervento romano per rimettere la diocesi in questione in riga con le norme generali (Albenga, San Luis, Ciudad del Este, San Rafael, Fréjus-Toulon).

All’inizio ci siamo dispiaciuti dei pastori privi di consistenza: la secolarizzazione estrema, che oggi fa di essi dei personaggi sconosciuti al pubblico, e l’adesione alla società democratica, che essi coltivano, esagerando rispetto a quanto essa esiga (come in occasione degli scandali sessuali, della crisi del Covid), fanno di loro dei vescovi fantasma e spesso anche dei vescovi terrorizzati. A ciò si aggiunga il fatto che questi Successori degli Apostoli, che tacciono o che balbettano la Parola, presiedono ormai solo presbiteri famelici, fatti salvi alcuni settori clericali ancora fiorenti, e comunità di fedeli numericamente sempre più ridotte, fatte salve alcune isole ancora prospere.

Ma vescovi in attesa di conferma nella fede

«Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22, 31-32).

La speranza dei cattolici, consapevoli dello stato d’abbandono della Chiesa, è oggi arida, come alcuni autori spirituali qualificano una speranza priva di consolazioni percepibili.

È insomma fondata su di una sorta di sillogismo della fede, che promette che i loro pastori non possano indefinitamente restare in questo stato dimissionario:

Questi cattolici, in effetti, credono fermamente alle parole di Cristo, che assicura come le porte dell’inferno – oggi rappresentate proprio dal fatto che il magistero resti silenzioso e non condanni più l’errore -, non prevarranno contro la sua Sposa.

Ora, la costituzione divina di questa Chiesa poggia sul vescovo di Roma, Successore di Pietro, e sugli altri vescovi uniti al papa, Successori degli Apostoli.

È quindi certo che l’attuale assalto dell’inferno verrà respinto soprattutto da questi vescovi, soprattutto dai primi tra loro, che, da silenziosi, diverranno di nuovo strumenti del Verbo.

V’è certo un paradosso nello scongiurare i pastori ad esserlo veramente, dal momento che sono gli insegnamenti che essi stessi diffondono, accettano o tollerano ad esser loro rimproverati per il fatto di non averli condannati (l’ecumenismo, la libertà religiosa, Amoris Lætitia, la trasformazione della Chiesa in Chiesa sinodale). È in definitiva una ritrattazione, in una forma o nell’altra, quella che ci si aspetta dai vescovi. Perché, si dirà? Non è forse il papa che, alla fin fine, confermerà i suoi fratelli? Non è forse dal papa che ci si attende che rimproveri sé stesso? Certo, ma per l’appunto questi fratelli, ch’egli deve confermare, sono innanzi tutto vescovi. I quali, prima di tutto, conservano intera la propria responsabilità di vescovi, quand’anche il papa non li confermasse, non li confermasse ancora. Fin d’ora, essi possono e pure devono intervenire in ragione della loro sollecitudine di pastori della Chiesa. Noi avevamo proposto di chiamare queste parole dei vescovi, finalizzate a condannare l’errore quand’anche il papa non vi avesse (ancora) provveduto, degli atti di comunione preventiva [4]: così questi pastori si mostrano uniti al papa, verosimilmente al papa futuro, che non può mancare di compiere un giorno il suo dovere. Così facendo, e per questo stesso fatto, ancor più di tutti i fedeli ed i preti riuniti, questi vescovi hanno il dovere di preparare le strade per una restaurazione del magistero.

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[1] Il Vaticano II non ha formalmente abbandonato la distinzione tra ordine e giurisdizione, distinzione che conserva il Codice di diritto canonico del 1983, benché le imprecisioni che riportiamo qui abbiano condotto alcuni autori a sostenere che tale distinzione fosse superata. Si veda: Laurent Villemin, Pouvoir d’ordre et pouvoir de juridiction. Histoire théologique de leur distinction [Potere d’ordine e potere di giurisdizione. Storia teologica della loro distinzione], prefazione di Patrick Valdrini, postfaziione di Hervé Legrand, Cerf, coll. «Cogitatio Fidei», 2003.

[2] Fino a quando papa Francesco non ha ritirato il titolo di «Vicario di Cristo» dall’Annuario pontificio 2020, l’annuario della Santa Sede, relegandolo in una nota a piè di pagina come «titolo storico».

[3] Poggiandosi su tale restrizione, vi sono teologi e canonisti, come citato da Alphonse Borras più avanti, che sostengono che il Vaticano II non ha deciso nulla di definitivo su questo punto. È vero che un concilio pastorale, per definizione non definisce, per così dire, e quindi non decide alcunché…

[4] Se il papa tace, che parlino i vescovi! Res Novae. Perspectives romaines, 1 giugno 2022.

Fonte: resnovae.fr

 

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