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Dopo l’omicidio di Giulia / 1. Non usare la scuola come soluzione magica

di Marco Radaelli

Caro Valli,

ci risiamo. In una lettera del 13 settembre [qui] le scrivevo che “di fronte agli episodi di violenza giovanile che la cronaca ormai quotidianamente ci propone, tutti si sentono in dovere di intervenire con una ricetta per risolvere il problema. E di solito alla fine tutti – ma proprio tutti – arrivano a dire sempre e soltanto la stessa cosa: bisogna ripartire dalla scuola”. E puntualmente, dopo l’ultimo caso di cronaca che ha visto protagonisti i giovani Giulia e Filippo, ecco che la parola magica, “scuola”, è tornata sulla bocca di tutti (salvo poi essere costretti a sentire sempre le stesse cose trite e ritrite che non hanno mai risolto nulla). E la proposta è sempre la stessa, manco fossero dei giradischi rotti: sensibilizzazione nelle scuole, corsi e giornate di ogni tipo, normalmente precedute dalla parola “educazione”. “Educazione alla differenza di genere”, “educazione all’ambiente”, “educazione all’aria fritta”, “educazione alla zucchina ripiena”. Il tutto pronunciato con la spocchia di chi la sa lunga “e meno male che adesso arrivo io a dire agli insegnanti che cosa devono fare”. Il che, oltre a svilire continuamente il compito degli insegnanti che ogni giorno vanno in trincea cercando di dire qualcosa di vero, di buono e di bello per la vita degli studenti loro affidati, è francamente insopportabile. Soprattutto se pronunciato da gente che non ha mai messo piede dentro la scuola e che tutti i giorni ci mostra pubblicamente la propria personalissima concezione di educazione e di rispetto: insulti all’avversario di turno e liti continue, anche in diretta tv e in prima serata. Il tutto accompagnato da un uso della lingua italiana decisamente rivedibile, talmente orrido da far sanguinare fisicamente le orecchie di chi ascolta.

Ora tocca alla “educazione all’affettività”. La Schlein, che non perde occasione di denigrare il governo a ogni piè sospinto, chiede allo stesso governo l’approvazione immediata di una legge sull’educazione all’affettività. L’ex premier Giuseppe Conte, il quale ha mostrato tutto il suo interesse per la questione educativa e tutto il suo affetto per gli studenti imprigionandoli per due anni nelle loro stanze a guardare un pc, non smette di pontificare su quello che dovrebbe fare la scuola. Lui che la scuola ha contribuito più di altri ad affossarla. E il ministro Valditara risponde pure che una legge in tal senso è già in cantiere. Ma basta! Smettetela! Non se ne può più di questi autoproclamatisi paladini dell’educazione che la scuola di oggi non sanno nemmeno cosa sia. Mi sono francamente stufato. Basta con questa “educazione a laqualunque”, buona per tutte le stagioni ma che non ha mai risolto nulla. Basta con questa idea di scuola-contenitore in cui infilare giornate di ogni tipo e sensibilizzazioni per tutti i gusti. Basta con la continua sottrazione a insegnanti e studenti di tempo prezioso per la costruzione della vera educazione. Ma poi: di fronte a un problema di imbarbarimento della civiltà tutta, evidente nella politica, nella televisione, nella giustizia, nella crisi della famiglia, davvero qualcuno pensa che “ritoccare” la scuola con educazioni e corsi vari sia una soluzione? Qualcuno ha avuto almeno l’umiltà di verificare se le continue perdite di tempo e interruzioni di cui la scuola ha beneficiato (?) per fare posto a sensibilizzazioni di ogni tipo hanno portato a un sia pur minimo miglioramento del tessuto sociale? No, perché a me non sembra proprio, stando a quello che si vede in tv e sui media. Anzi vedo al contrario un peggioramento continuo. Che poca stima dei ragazzi bisogna avere per pensare di poterli cambiare con un corso o una lezione, considerandoli come meccanismi “aggiustabili” a piacimento. E che poca stima degli insegnanti, se si pensa di poter fare il loro lavoro di educatori meglio di loro, e avendo la pretesa di dire loro che cosa una scuola debba o non debba fare. E se l’educazione non fosse solo quella a scuola? E se cominciassimo a sentirci tutti responsabili dell’educazione, e a pensare che si educa anche con l’esempio che viene dato loro in casa, innanzitutto, ma anche fuori casa, in tv, sui social, e anche in parlamento? Non è educazione anche quella? La scuola può certamente dare il proprio contributo (se solo glielo si lasciasse dare, anziché intervenire sempre dal di fuori a interrompere la continuità del suo lavoro), ma non può essere ritenuta in alcun modo la soluzione unica. C’è un non so che di pilatesco, insopportabile, in questo “è compito della scuola, io non c’entro”. Ma davvero ci si sente a posto pensando che sia sufficiente proporre idiozie di ogni genere, e così dire “io ho fatto il mio”? Ma cosa c’entra la scuola, quando i ragazzi iniziano a frequentarla già imbevuti della mentalità del mondo assorbita a casa, sui social, in tv? Cosa c’entra la scuola quando fuori da quelle mura i ragazzi sono immersi in un mondo colmo di superficialità e di cattivi educatori (compresi quelli che parlano di scuola e propongono giornate di ogni tipo)? Cosa c’entra la scuola se gli stessi politici che pontificano sull’educazione, sul reciproco rispetto, sull’affettività, sono i primi a guardarsi in cagnesco e a fregarsene della scuola non appena le telecamere si spengono? Cosa c’entra la scuola, quando è sufficiente accendere la tv per rendersi conto che i modelli proposti ai ragazzi sono quelli del successo e della prevaricazione dell’avversario pur di ottenere il risultato? Cosa c’entra la scuola, quando basta aprire un qualunque social per accorgersi che i più seguiti sono gli influencer che mostrano come vincente uno stile di vita fondato sul nulla del loro pensiero (ma sul tanto che si può ottenere vendendo bene questo nulla cosmico)? Cosa c’entra la scuola se il modello di vita continuamente proposto da tutti è quello del successo a ogni costo (meglio se ottenuto senza fare troppa fatica)? Si mostra ai ragazzi che si può ottenere tutto senza fatica e senza dare nulla in cambio, che qualunque desiderio può trasformarsi in realtà, che la facilità del risultato è preferibile alla fatica e al sacrificio del lavoro e della conquista, e poi si ha il coraggio di stupirsi che “l’egoismo del desiderio” possa condurre ad azioni sconsiderate. Non si educano mai i ragazzi alla serietà e alla responsabilità (e gli insegnanti che lo fanno vengono pure picchiati, insultati o denunciati), salvo poi scandalizzarsi se quegli stessi ragazzi non sanno fronteggiare da uomini l’insuccesso e il fallimento. Ma chi glielo ha mai insegnato? Quando mai sono stati educati alla responsabilità, imparando a soppesare il peso delle proprie azioni? Quando è stato insegnato loro che nella vita non sempre si può avere ciò che si desidera? All’educazione partecipano tutti, a cominciare dalle famiglie. Perché invece si fa riferimento sempre e solo di scuola quando si parla di soluzioni? E le altre diciotto ore in cui i ragazzi sono fuori da scuola? Con chi stanno? Cosa guardano? Che (dis)educazione ricevono? E se ciascuno, in qualunque ruolo si trovi, iniziasse a pensare di essere decisivo per l’educazione dei giovani?

Lasciate stare la scuola, per favore. Lasciatele assolvere in pace il suo compito, che è quello di insegnare. Organizzatevi le vostre giornate e le vostre sensibilizzazioni a casa vostra, se le ritenete così utili. E lasciate alla scuola il suo compito, anziché continuamente interromperlo e ostacolarlo pensando anche di fare bene.

 

Aldo Maria Valli:
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