Fede e pallacanestro / Sull’importanza di un grande cuore. Ovvero… Non è finita finché non è finita

La serie di articoli [qui, qui, qui e qui i precedenti] dedicati alle analogie tra la nostra fede cattolica e la pallacanestro si arricchisce con un contributo di Paolo Gulisano. Il medico e scrittore Gulisano, amico e collaboratore di Duc in altum, è infatti anche un amante dello sport (suo il libro Il prodigio di Lisbona, dedicato alla squadra di calcio del Celtic di Glasgow) e del basket in particolare. 

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di Paolo Gulisano

Agli inizi della mia amicizia con Aldo Maria Valli ci sono alcune chiacchierate telefoniche, a partire naturalmente da argomenti ecclesiali. Tuttavia, in una di queste conversazioni fece capolino lo sport. Si iniziò parlando del calcio, e delle squadre per cui tifavano alcuni cardinali. Poi venne fuori il basket, che per entrambi era in realtà il vero sport preferito, non solo seguito e tifato, ma anche praticato nei nostri anni giovanili. E ancora oggi, quando ci vediamo o ci sentiamo, non possiamo non parlare della palla a spicchi, dalla quale non riusciamo a staccarci nemmeno alla nostra bella età, lui allenando i bambini del minibasket, e io addirittura giocando ancora, in quella meravigliosa nuova versione del basket che è il baskin, un gioco nel quale persone con disabilità giocano insieme, in squadre miste, a persone normodotate, anche se nel mio caso normodotato è una parola grossa!

Non potevo quindi non portare un mio contributo a questa serie di articoli sulla pallacanestro che Aldo ha meritoriamente avviato.

Il basket, come noto, nacque nel 1891 nel Massachussets. L’invenzione di questo sport la si deve a un uomo, James Naismith, il cui nome è entrato nella leggenda. Tuttavia Naismith non avrebbe mai appeso dei cestini a due tabelloni e istituito le tredici regole iniziali di questo sport senza l’incoraggiamento di un amico. Un po’ come per Tolkien e Lewis, la cui amicizia fornì incoraggiamento e spunti di ispirazione per i loro capolavori, Il Signore degli Anelli e Le Cronache di Narnia, così per Naismith fu fondamentale l’appoggio e il consiglio di un amico e collega, Luther Gulick.

Negli articoli precedentemente apparsi su Duc in sltum è stato già evidenziato il senso religioso che permea questo sport. Probabilmente non è un caso che i due artefici di questo gioco avessero entrambi profonde radici nel cristianesimo. Naismith, oltre che essere un insegnante, era anche un ministro della Chiesa presbiteriana, ovvero la chiesa di Scozia, con origini calviniste. Naismith era nato in Canada, da immigrati scozzesi, e portava nel suo Dna l’agonismo indomito della Caledonia, e insieme una fede robusta (ora la chiamerebbero fondamentalista).

Gulick era a sua volta figlio di un medico missionario protestante, e aveva un fratello che divenne anch’egli missionario. Aveva intrapreso la carriera di insegnante di educazione fisica perché credeva che mens e anima hanno bisogno del celebre “in corpore sano”. Fondò associazioni sportive esplicitamente ispirate ai princìpi cristiani. Fu lui, come detto, che incoraggiò Naismith a inventare un nuovo sport da giocare al coperto, per non lasciare i ragazzi inattivi durante i mesi invernali, e fu così che nacque il basketball, uno sport in cui tradurre in pratica le virtù cristiane.

Fede, speranza e carità le troviamo in abbondanza nella storia del basket, magari non esplicitate in termini religiosi, ma fortemente presenti nello spirito del gioco.

Credo che una frase di un grande allenatore, il più vincente nella storia del basket in Italia, Cesare Rubini, detto il Principe, riassuma perfettamente questo spirito: “Non è finita finché non è finita” era ciò che diceva ai suoi giocatori. Bisogna credere sempre nella possibilità della vittoria, e tra parentesi una delle cose più belle del basket è l’assenza del pareggio, ovvero l’assenza del compromesso e del “male minore”. Occorre fede, occorre avere “spes contra spem”, e quindi nutrire, sostenere la speranza, e per questo occorre tanto amore: alla squadra, ai compagni con cui si dividono le fatiche, ai propri colori. Insomma: fede, speranza e amore. E tutto ciò può davvero far sì che “non è finita finché non è finita”. La storia del basket è ricca di episodi di clamorose rimonte, di ribaltamenti considerati impossibili. Rubini aveva lasciato questo spirito alla sua squadra, le mitiche “scarpette rosse” dell’Olimpia Milano. E proprio di una incredibile, storica rimonta fui testimone il 6 novembre del 1986 al Palatrussardi di Milano. L’Olimpia giocava la partita di ritorno dei quarti di finale della Coppa dei campioni contro l’Aris Salonicco, campione di Grecia. All’andata l’Olimpia era stata letteralmente asfaltata dai greci, dove giocavano campioni come Nicos Galis, greco ma di formazione americana, e Yannakis, due fuoriclasse che alcuni mesi dopo avrebbero trascinato la nazionale ellenica a conquistare il trono d’Europa. Nella bolgia di Salonicco l’Olimpia, all’epoca sponsorizzata Tracer, aveva perso 98-67. A Milano avrebbe dovuto dunque vincere con uno scarto di trentadue punti. Impresa impossibile, pensavano tutti gli addetti ai lavori. Ma non il coach di Milano, il mitico Dan Peterson, a sua volta uno dei più grandi allenatori del nostro basket, e un innamorato di questo sport. Peterson, grande motivatore oltre che stratega, facendo proprio il motto del Principe Rubini invitò i ragazzi a giocare con calma e concentrazione, senza pensare che si partiva da -31, ma pensando solo ad aumentare progressivamente il vantaggio, punto dopo punto, minuto dopo minuto. E l’impresa impossibile fu compiuta. Il vecchio leone Meneghin e il genio assoluto del play maker Mike D’Antoni trascinarono i compagni in una partita capolavoro, mandando in delirio i novemila spettatori. Alla fine, la vittoria fu con uno scarto di ben trentaquattro punti. Un’impresa rimasta nella storia di questo sport.

La vittoria era giunta grazie all’intensità, alla concentrazione, alla determinazione. Grazie a un grande cuore. E alla certezza che non è finita finché non è finita.

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