Insegnamento della religione cattolica a scuola / Se in nome dell’inclusività si rinnega il proprio scopo

di Marco Radaelli

Caro Valli,

con alcuni articoli apparsi recentemente sulla Nuova Bussola Quotidiana, Stefano Fontana e Marco Lepore hanno “osato” parlare dell’insegnamento della religione cattolica (IRC) nelle scuole, scoperchiando un vaso di Pandora di cui tutti sono a conoscenza ma che pochi finora avevano avuto il coraggio di mostrare: ovvero che quest’ora, per come viene intesa il più delle volte (anche da chi dovrebbe svolgerla) è del tutto inutile. Aggiungo al loro il mio contributo, frutto della mia percezione di insegnante cattolico in una scuola statale.

Si è ormai solidificata anche in molti insegnanti (per essere maggiormente accettati?) quell’insensata e incancrenita paura, tipica della Chiesa di oggi, di presentare la propria disciplina per quello che è: ovvero insegnamento della religione cattolica. Quasi a voler nascondere un senso di inferiorità rispetto agli altri insegnamenti (che però così emerge chiarissimo), si assiste a una continua gara a farsi legittimare, cercando di giustificare la propria esistenza attraverso una sfilza raccapricciante di “non”: non si vuole fare catechismo, non si vuole indottrinare, non si vuole convincere nessuno, non si farà prevalere nessuna posizione in nome del dialogo… Roba che si farebbe prima a dire: tranquilli, non daremo fastidio a nessuno, fate come se non ci fossimo (che infatti è quello che avviene). È la solita storia: sembra che per farsi accettare dal mondo sia necessario dimenticarsi della propria identità nascondendola il più possibile. Senza accorgersi che, alla prova dei fatti, guardando i numeri, non ti accetta comunque nessuno proprio per questa mancanza di identità che annacqua ogni sapore rendendo tutto talmente insipido da non sapere di niente.

Per essere inclusivity friendly si dice quello che dicono tutti, senza uscire di un millimetro dal perimetro dell’ovvio. E via con l’Agenda 2030 a tutto spiano, con l’ambiente, l’ecologia, i nuovi diritti, la violenza sulle donne, il lavoro, la solidarietà eccetera. Tutti i temi “moderni”. In sostanza, per essere il più possibile inclusivi (ma, direi, molto di più per essere a propria volta inclusi) si scimmiottano le agenzie che fanno questo lavoro molto meglio di noi, con più strumenti, con più risorse e anche con più forza. E se qualcuno le dice meglio di te, perché dovrebbe seguire te? Con il risultato che comunque nessuno decide di seguirti per quello che dici, ma tu intanto hai perso la tua identità e la tua occasione per dire qualcosa di sensato e per importi come elemento di diversità e di profondità in questo mare di banale superficialità che riduce il cristianesimo a un elenco di mielose parole (accoglienza, bene universale, pace, amore…) senza alcuna radice. E così il cristianesimo è annullato, ridotto a qualcosa che non ha niente da dire se non quello che dicono tutti. Un’agenzia tra le altre, però meno forte e convincente delle altre. È chiaro che per non essere disposti ad annacquare il messaggio bisognerebbe innanzitutto credere nel valore e nella portata di ciò che si dovrebbe dire. Mi chiedo allora se alla radice di questa mollezza non ci sia un problema di fede.

Tutto questo non ha alcun senso neanche dal punto di vista educativo e scolastico. Il cristianesimo, per la nostra civiltà occidentale, oltre che una religione è anche un fatto culturale. La Filosofia, la Storia, l’Arte, la Letteratura, ma anche la Matematica, la Biologia, la Fisica: tutto è imbevuto fino al proprio midollo dalla presenza storica del cristianesimo e dal fatto di Cristo. L’insegnamento della religione cattolica fatto bene avrebbe un altissimo valore culturale: quanto potrebbe contribuire alla comprensione anche maggiore di tutto quanto viene svolto nelle altre discipline! Mi chiedo come si possano comprendere Cimabue, Giotto e Michelangelo senza conoscere la storia e la dottrina cristiana. Certo, si potranno conoscere lo stile, i colori usati, le dimensioni delle opere, ma rimarranno autori oscuri se si decide di non tener conto anche (soprattutto) del cristianesimo che li ha generati. E Pascal? Ma anche Nietzsche, per assurdo: come lo si può capire senza conoscere ciò cui si oppone? E quanti scienziati, astronomi, biologi, fisici, hanno potuto fare scoperte sensazionali partendo dalle proprie convinzioni religiose? Quanti sanno, ad esempio, che Copernico era un canonico? E Dante, terziario francescano? E Petrarca, che amava Agostino? Come si può comprendere davvero tutto questo senza la conoscenza della religione cristiana? Per non parlare della Storia. Quando mi capita di parlare di papi (cioè sempre, dato che la Storia ne è piena), il più delle volte scopro che non si sa nemmeno chi sia Pietro (figuriamoci Gesù, poi). Dal punto di vista educativo l’insegnamento serio della religione cattolica potrebbe avere un valore unico e straordinario che nessun’altra disciplina possiede: quello di essere un centro di unificazione tra le diverse discipline e un aiuto formidabile a una maggiore e più profonda comprensione di ciascuna di esse. Anche qui, però, bisognerebbe porsi una domanda a monte: quanto ci si crede a tutto questo? Quanto si è consapevoli dell’importanza della conoscenza del cristianesimo per la conoscenza di tutto?

Ho avuto la possibilità di frequentato per due anni un istituto di scienze religiose, prima di abbandonarlo a causa della sua pochezza, e posso dire che la situazione davanti alla quale mi sono trovato era davvero triste: pochi i docenti “veri”, molti i preti “prestati” all’insegnamento (perché i docenti devono essere pagati, mentre i preti no). E, fra questi, pochi erano gli accademici, conoscitori del mondo dell’insegnamento perché provenienti dalle università, statali o pontificie. Per non parlare degli oscuri metodi di reclutamento dei futuri docenti di Religione da mandare nelle scuole: molti venivano mandati nelle classi poco dopo l’inizio del percorso triennale, e molti altri erano già in classe ancora prima di iniziarlo (e quindi si iscrivevano al corso perché era formalmente necessario). A margine aggiungerei quindi un’altra domanda che poi apre un grande problema: quanto gli istituti di scienze religiose formano docenti davvero pronti culturalmente a sostenere la disciplina che dovrebbero insegnare, consapevoli della sua importanza?

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