A proposito di “Dignitas infinita” / È infinita la dignità di Dio e del penitente, non quella del peccatore

di Silvio Brachetta

La dignità, come il merito, ha una valenza infinita quando è applicata a Dio e, in modo relativo, può avere la medesima validità per l’uomo o non averla, perché il peccato rende l’uomo indegno e il merito diventa demerito. Persino l’Accademia della Crusca ha difficoltà a definire la dignità, tanto vasto è lo spettro semantico del termine[1].

La teologia classica si riferisce spesso alla dignità umana, ma come a qualcosa da conquistare, non come un possesso inviolabile. «Et nullu homo ène dignu te mentovare», dice san Francesco nel Cantico delle creature, riferendosi a Dio: nessun uomo è degno. Sant’Agostino scrive spesso di «degnazione», ma quasi sempre di Gesù Cristo nell’incarnarsi e nello scendere dal divino all’umano. C’è anche una «grande degnazione» umana, al momento del Battesimo, in cui il penitente diventa «membra di Cristo» [2].

In questo senso tutta la teologia torna spesso sull’eccellente dignità umana, conferita «mediante» Gesù Cristo – perché il Cristo è il medium tra il Padre e il Figlio (san Bonaventura). E allora la Dottrina sociale estende la dignità a ogni ordine umano: dignità della famiglia, dignità del lavoro, dignità dell’amore, dignità del concepimento, dignità della vita umana.

È però fonte di equivoci fare un assoluto della dignità umana e definirla a priori come una «dignità infinita», così come ha fatto il cardinale Víctor Manuel Fernández nell’omonimo ultimo documento (Dignitas infinita) del Dicastero per la dottrina della fede.

Ricorre spesso, in teologia, il concetto di «degnazione infinita» [3], ma applicata a Dio. Ricorre pure in san Tommaso d’Aquino, che la applica anche all’uomo. Scrive l’Aquinate: «L’umanità di Cristo, perché unita a Dio; la beatitudine creata, perché è il godimento di Dio; e la Beata Vergine, perché Madre di Dio, hanno in qualche modo una dignità infinita, derivata dall’infinito bene che è Dio. Sotto questo aspetto nulla può essere migliore di loro, così come nulla può essere migliore di Dio» [4].

Sono tre i soggetti, secondo l’Aquinate, ai quali si può applicare la «dignitas infinita»: l’umanità di Cristo, la beatitudine creata e la Beata Vergine Maria. Tutto quello che è unito a Dio ha dignità infinita e, quindi, anche l’umanità di Cristo, proprio perché è unita alla natura divina (unione ipostatica). Non l’umanità di Socrate, non l’umanità di Pitagora, ma l’umanità di Cristo. Certamente Cristo vuole trasferire la dignità infinita anche alla carne di Socrate e Pitagora, ma sono proprio Socrate e Pitagora che la rifiutano, a motivo del peccato, ovvero la rifiutano in genere moris (relativamente all’etica).

C’è una creatura che non ha rifiutato la dignità infinita: la Madre di Dio, che ha la «dignitas infinita». Non però in genere entis – ontologicamente, di natura – com’è in Dio, ma in genere moris, ovvero per libera scelta del bene, per una questione morale. Oltre a san Tommaso, lo sostengono ad esempio il redentorista Francesco Antonio De Paola (1736-1814) e il cappuccino Mario de’ Bignoni (1601-1660), che meglio specificano la differenza tra genere entis e genere moris [5].

In altre parole, solo a Dio è possibile attribuire il concetto di «dignitas infinita» in genere entis, cioè in modo ontologico. C’è sì una «dignità ontologica della persona umana», come scrive Fernández, ma «derivata». Persino una «dignitas infinita», ma dipendente appunto. Dipendente da chi? «Dall’infinito bene che è Dio», scrive san Tommaso.

È un errore, in ogni caso, applicare la «dignitas infinita» a tutta l’umanità, perché la dignità si può anche rifiutare – è prassi dell’uomo rifiutarla sempre, con il peccato – e, in tal modo, perderla.

Dalle parole di Francesco Antonio De Paola, in particolare, si comprende meglio la «dignitas infinita» di Maria: «È dignità immensa, ed infinita. Non già infinita in genere entis, ma in genere moris, per favellar colle Scuole, cioè non già che Maria abbia un essere infinito, che solo a Dio conviene, ma dicesi la sua dignità infinita in quanto che è impossibile che di tal dignità possa pensarsi e trovarsi, tra le dignità create, altra maggiore in pura Creatura» [6].

Hanno dunque, le creature e il creato una grande nobiltà e dignità – che potrebbe anche dirsi infinita, se riferita al Creatore –, ma bisogna pur sempre considerare che la dignità di Maria è somma, rispetto a tutte le creature. Che poi le creature intelligenti siano da Dio destinate alla dignità infinita, lo precisa san Tommaso, quando scrive (nel passo summenzionato) che anche la «beatitudine creata» ha questa somma dignità, che consiste nel «godimento di Dio».

Cosa sia la «beatitudine creata» (dei beati) lo spiega lo stesso Aquinate. In senso oggettivo, la beatitudine coincide con Dio, ma in senso soggettivo (l’atto dell’intellezione del beato), la beatitudine non può essere increata, ma creata, perché solo Dio è increato [7]. Anche i beati, allora, poiché alieni al peccato, godono di dignità infinita. Lucifero stesso fu creato di dignità infinita e così anche i demoni. Ma per trovare dove sia la vera dignità, l’attenzione non dev’essere orientata verso la creatura, bensì verso la sua libera scelta del bene.

L’equivoco, in Fernández, non è di avere applicato la dignità infinita alla finitezza dell’uomo, ma di averne fatto un assoluto, come sembra essersene fatto un assoluto anche Giovanni Paolo II. Papa Wojtyła disse, durante un Angelus del 1980, che Gesù Cristo «ama ciascun uomo e gli conferisce con ciò una dignità infinita».

L’affermazione non è totalmente errata, perché non solo la dignità infinita è applicabile a una creatura, ma è anche la volontà di Dio, che desidera la salvezza di tutti gli uomini. Anche Adamo ed Eva avevano una dignità infinita (in genere moris) prima del peccato. Il problema è tutto nella teologia contemporanea, che usa il concetto di dignitas infinita per giustificare la svolta antropologica e detronizzare Dio.

In Wojtyła, comunque, l’affermazione all’Angelus non fa grossi problemi, perché la sua teologia era diretta al personalismo ortodosso e al rilancio della vita umana e della sua dignità. Si tratta, cioè, di un personalismo non antropocentrico, ma cristocentrico.

Lo stesso si può dire del cardinale Carlo Caffarra, che affermò quanto segue: «Essere persone di fronte a Dio costituisce la persona in una dignità infinita» [8]. Qui Caffarra intende, probabilmente, che essere di fronte a Dio (come lo sono i beati) costituisce una dignità infinita. Non è un errore, semmai un’ambiguità: andava riaffermata la dottrina di san Tommaso, a scanso di equivoci.

Nella Dignitas infinita di Fernández, al contrario, sembra nascondersi il programma della svolta antropologica novecentesca, dove si vuole mettere al centro l’uomo in quanto uomo, col pretesto di presupposti veri.

Molto spesso i pontefici, nelle encicliche sociali, lodano in Dio la dignità umana. Leone XIII, nella Rerum novarum, scrive che la dignità della persona umana è «nobilitata dal carattere cristiano» e precisa che «la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù» [genere moris, N.d.R.]. E proprio perché gli uomini sono «chiamati alla dignità della figliolanza divina […] a nessuno è lecito violare impunemente» tale dignità.

Paolo VI, nella Dignitatis humanae, sostiene che tutti gli esseri umani, a motivo della loro dignità, «sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione». Si desume, quindi, che la dignità umana, più che fonte di diritti, è espressione (per l’uomo) di doveri.

Pio XII, nella Divino afflante spiritu, usa aggettivi di lode quando, scrive di dignità umana: «eccellente», «alta». Giunge persino a definirla «consacrazione», ma non le applica mai il concetto di «infinita». Stesso tenore ha Pio X, nella Acerbo nimis (enciclica non sociale), quando parla di «vera ed altissima dignità dell’uomo», manifestata dalla dottrina di Cristo.

Forse colui che si espresse con più insistenza e con più frequenza sulla dignità umana fu il già citato Giovanni Paolo II (soprattutto in Evangelium vitae, in Fides et ratio e in Veritatis splendor). Va però detto che il magistero di questo pontefice poggiava su di un personalismo poco interessato alla svolta antropologica e più orientato a Dio, nel senso che Wojtyła ha sempre fondato la dignità dell’uomo nel suo essere ad «immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1, 26), secondo l’autorità della Scrittura. Anche nella Dignitas infinita di Fernández c’è questo riferimento: il cardinale descrive una «dignità ontologica» [genere entis, N.d.R.] che «compete alla persona in quanto tale per il solo fatto di esistere e di essere voluta, creata e amata da Dio» e che «non può mai essere cancellata e resta valida al di là di ogni circostanza in cui i singoli possano venirsi a trovare».

Tutto questo è vero e coerente con il magistero, come anche la definizione di «dignità morale» che, se la volontà si decide per il male, rende l’uomo indegno. Certamente, in questa luce, ha un senso associare la dignitas infinita non solo al genere moris, ma anche al genere entis. È un’operazione che si può fare, ma dev’essere esclusa ogni tentazione univoca di significato. La dignità umana è infinita solo in senso analogo, così come c’è analogia tra il padre umano e Dio Padre o tra la persona umana e la divina.

L’ambiguità, in Fernández, è nell’omettere la questione decisiva: la dignità ontologica è relativa alla natura umana, non alla sopra-natura. Solo la dignità morale è soprannaturale e solo questa è la porta che apre all’infinito. Le due dignità non solo non possono essere confuse, ma Blaise Pascal dice che «l’uomo è manifestamente nato a pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio; e tutto il suo dovere sta nel pensare rettamente» [9]. Tutta la dignità cioè, secondo Pascal, risiede nelle facoltà dell’anima (ragione e volontà) e non nell’essenza ontologica umana (natura).

Inoltre, san Bonaventura interpreta bene l’immagine e la somiglianza dell’uomo a Dio. È dottrina bonaventuriana che, mentre l’immagine (perfezione della natura) è relativa all’essenza dell’anima, la somiglianza (perfezione di grazia soprannaturale) potrebbe non farne parte. Ora, può esistere l’immagine senza somiglianza (quando si rinuncia alla grazia), ma non esserci la somiglianza senza l’immagine (vita di grazia). E tuttavia solo per mezzo della somiglianza si giunge a partecipare alla natura divina, non è sufficiente l’immagine, comune anche agli animali [10].

Leggendo la Dignitas infinita si ha come la sensazione che la dignità ontologica prevalga su tutto e, per questo, diventi infinita. Prova ne è che, all’inizio della Dichiarazione, Fernández fa l’elogio della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, fondati sul medesimo antropocentrismo.

E difatti mai come oggi tali diritti sono ampiamente calpestati in tutto il mondo: se il fondamento non è Dio, qualsiasi diritto è disatteso e l’uomo perde la dignità. La soluzione è di rimettere Gesù Cristo e la sua signoria al centro della storia, ovvero di fondare ogni dignità su quella infinita di Dio.

_____________

[1] Cf. Maria Cristina Torchia, voce «dignità», in Accademia della Crusca (accademiadellacrusca.it).

[2] Cf. Agostino d’Ippona, Discorso 224.

[3] Scrivono, ad esempio, di «degnazione infinita» di Dio, Ignazio di Loyola, Liborio Siniscalchi, Idelfonso da Bressanvido, Francesco Vincentini, Søren Kierkegaard, Camillo de Lellis, Pietro de Bérulle, Gianvincenzo Postiglione d’Apuzzo.

[4] Summa Theologiae, I, 25, 6, ad 4.

[5] Francesco Antonio De Paola, Grandezze di Maria, Tipografia Tomassini, 1839, Discorso VIII, p. 40. Mario de’ Bignoni, Elogi sacri nelle solennità principali di Nostro Signore, della Beata Vergine Maria e altri Santi celebrati dalla Santa Chiesa, Venezia, 1652, p. 380.

[6] De Paola, Grandezze di Maria, op. cit. ibid.

[7] Summa Theologiae, I, 26, 2, ad 2.

[8] Carlo Caffarra, La persona umana: aspetti teologici, in Aldo Mazzoni (ed.), A sua immagine e somiglianza?, Città Nuova Editrice, 1997, pp. 76-90.

[9] In Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, 1962, n. 146.

[10] Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, p. 5, c. 1, In I Sent. d. 3, pp. 1-2, qq. 1-2.

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