Cinquant’anni fa la legge sul divorzio in Italia / Storia di un attacco che oggi è all’apice

di Mario Grifone

Caro Valli,

quest’anno ricorrono i cinquant’anni dal referendum che introdusse la legge sul divorzio in Italia. Un anniversario che sta passando in sordina, con qualche trafiletto sui giornali, anche perché ormai la legge è pacificamente accettata e condivisa non solo da chi si riconosce nelle idee dei promotori del referendum, ma anche da chi probabilmente all’epoca avrebbe votato contro, inclusi certi ambienti ecclesiastici.

So che condividendo le mie riflessioni in proposito mi attirerò gli strali di molti , ma tant’è.

Breve ripasso per chi non c’era all’epoca dei fatti e per chi se ne fosse dimenticato.

La tutela dell’indissolubilità del matrimonio non è solo patrimonio della dottrina della Chiesa, ma lo fu anche degli Stati che per secoli non modificarono le leggi in proposito. Tanto per restare in Italia, per quasi venticinque anni dall’approvazione della Costituzione nessuno si sognò di proporre una legge sul divorzio. Questo perché lo Stato aveva a cuore la stabilità delle famiglie, ritendendole organismi intermedi della società attraverso i quali i futuri cittadini ricevevano quegli insegnamenti di amore, solidarietà, rispetto dell’autorità genitoriale, amore per la propria nazione, onestà e tante altre virtù che la scuola pubblica non può e non è in grado di dare.

La tutela del matrimonio non era dovuta a una sorta di sudditanza verso la Chiesa, ma era una vera e propria necessità. Ricorderà che gli stessi comunisti dell’epoca rimproverarono in maniera esplicita la relazione extra-coniugale dell’allora segretario del Pci Togliatti con Nilde Iotti.

L’introduzione di divorzio segnò il cambio di strategia dell’atavico nemico della Chiesa che aveva fallito con le persecuzioni, con gli scismi, con la lotta di classe e con l’odio razziale, trovando invece terreno fertile nella rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, molto più attraente ed efficace dei tentativi precedenti.

L’approvazione della legge sul divorzio fu senz’altro il cavallo di Troia che permise ai nemici della fede di penetrare nella cittadella fortificata che aveva resistito per venti secoli a ogni attacco.

La tattica usata dai radicali per promuovere il divorzio fu il paradigma utilizzato con successo anche per tutte le norme successivamente approvate su aborto, unioni omosessuali, gender eccetera. Si presero situazioni di unioni coniugali caratterizzate da violenza, incompatibilità e altro, e che erano minoritarie rispetto alla stragrande maggioranza dei matrimoni, facendole passare come comuni e intollerabili. Si aggiunse una critica alla società patriarcale e alla presenza ingombrante della Chiesa nelle scelte individuali e su questo si formò il consenso.

Penso che i lettori boomers del suo blog, salvo qualche rara eccezione, ricorderanno i propri nonni sposati per tutta la vita. Quante nozze d’oro o diamante avranno visto! Personalmente i miei nonni furono felicemente sposati per più di sessant’anni.

Il fatto che il matrimonio fosse indissolubile faceva sì che coloro che lo contraevano ci pensassero molto bene, sapendo che sarebbe stata una scelta definitiva che non poteva essere presa sulla sola onda dell’emozione o della semplice attrazione fisica. Esisteva comunque l’istituto della separazione, ammesso anche dalla Chiesa, per permettere ai coniugi con difficoltà di prendersi una pausa e riflettere per poi, eventualmente, ritrovarsi.

Immagino che qualcuno leggendo queste righe possa accusarmi di cinismo nei confronti di situazioni coniugali difficili e di violenza nei confronti delle donne. Accetto la critica, ma vorrei far notare che se lo scopo dell’introduzione del divorzio nel nostro Paese era quello di offrire una via di uscita a situazioni matrimoniali conflittuali o, peggio ancora, a violenze coniugali, gli effetti dopo mezzo secolo di applicazione della legge non mi pare siano quelli auspicati.

Oggi fallisce l’85% di matrimoni (le statistiche sono disponibili su internet), la violenza sulle donne è aumentata in maniera esponenziale e, guarda caso, proprio su quelle che decidono di interrompere relazioni insostenibili. Inoltre stiamo assistendo a casi di volenza di donne su uomini.

Molti giovani non solo non si sposano più di fronte al prete, ma neanche di fronte al sindaco e questo avviene indipendentemente dagli insegnamenti ricevuti nelle famiglie di origine.

I termini “marito” e “moglie” stanno diventando retaggio del passato a favore dei più moderni “compagno” e “compagna”, e si capisce anche perché: moglie deriva da mulier, donna, femmina, marito da mas, maris, uomo, maschio, termini oggi giudicati lesivi dei diritti.

Ovviamente eventuali figli di queste coppie, quando decidono di averne, non vengono più battezzati e non riceveranno alcuna istruzione religiosa, in ossequio a una fantomatica libertà di scelta che non potrà essere esercitata perché se non sai cos’è il cattolicesimo e non ne conosci i minimi rudimenti come fai poi a operare una scelta?

Se questi sono i risultati è lecito porsi qualche domanda sul vero scopo dell’introduzione della legge.

Penso di non sbagliare se vi vedo il primo attacco dirompente alla famiglia portato avanti consapevolmente da chi questo scopo voleva raggiungere, appoggiato da una maggioranza in gran parte inconsapevole perché orientata su un falso bersaglio.

È chiaro che indietro ormai non si può più tornare, ma qualcosa si può senz’altro fare e mi rivolgo a chi tra laici e bravi sacerdoti, che sono ancora tanti grazie a Dio, sono impegnati nelle catechesi di preparazione al matrimonio. Quegli incontri sono occasioni preziose che non vanno sprecate. Sono ancora convinto che i giovani abbiano desiderio di operare scelte radicali. La preparazione al matrimonio dovrebbe proprio essere centrata su questo senza cedimenti al pensiero comune o annacquamenti dottrinali.

Troppi corsi prematrimoniali sono ridotti quasi a un pro-forma necessario per avere il nulla-osta alla cerimonia in chiesa. Alcuni sacerdoti accettano con una sorta di benevolenza situazioni di convivenza prematrimoniale per paura, forse, di ricevere critiche o perdere l’audience dei candidati.

Non penso sia efficace in tali corsi ribadire in maniera dogmatica la dottrina secolare sul matrimonio, ma, in ossequio a quell’esigenza di aggiornare ai tempi le cose di sempre, il messaggio da proporre dovrebbe essere quello di presentare il matrimonio come una vera e propria vocazione perché questo è. Come il sacerdote o il religioso rispondono alla vocazione ad amare per tutta la vita Gesù e la Madonna, così i coniugi faranno altrettanto dedicando tutta la loro vita ad amarsi e aiutarsi vicendevolmente. Non per niente nel “buio” medioevo l’appellativo più diffuso nei confronti delle donne era Madonna e in tempi più gentili di quelli attuali il coniuge veniva definito la propria “dolce metà”, molto diverso dall’attuale “compagna” che fa più pensare a un’unione temporanea che dura finché si condividono certi obiettivi per poi sciogliersi in maniera pacifica, ma talvolta anche violenta, alle prime difficoltà per ricominciare con altri compagni e compagne.

E se qualche partecipante a tali corsi non condivide l’idea, qual è il problema? Sposarsi in chiesa significa manifestare di fronte a un autorevole testimone la propria volontà di passare l’intera vita con la persona scelta, accettare i figli che arriveranno e dare loro un’educazione cristiana. Non è la Chiesa che celebra il matrimonio, ma, come dice il catechismo, i ministri sono gli stessi sposi e il sacerdote ne prende solo atto benedicendo l’unione.

Compito impossibile? Forse, ma duemila anni fa un pugno di uomini e donne con poca istruzione e senza mezzi cambiarono il mondo. La storia si ripete.

Non praevalebunt!

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Nella foto, il leader radicale Marco Pannella durante la campagna referendaria a favore del divorzio

 

 

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