La Chiesa, la confusione e la crisi dell’autorità. Linee per orientarsi nella bufera

Che confusione! Oggi, chiunque ne sia l’autore, analisi e discussioni sulla Chiesa si concludono spesso con questa esclamazione, seguita da un sospiro un po’ sconsolato. E in effetti i fatti sembrano confermare.

Manifesti anonimi che se la prendono con il romano pontefice, lotte di potere (e per il denaro) in una nobile e antica istituzione come l’Ordine di Malta, cardinali che scrivono al papa chiedendogli una risposta su questioni di dottrina. E poi due papi che vivono l’uno a pochi metri dall’altro in Vaticano, senza che siano mai stati chiariti del tutto i motivi della rinuncia di colui che ora, con una definizione che a sua volta fa discutere, è chiamato «papa emerito». E poi polemiche e contrasti tra cardinali, vescovi e fedeli su aspetti nodali per la fede e in particolare su un documento papale che, a dispetto del titolo gentile («Amoris laetitia») è diventato un campo di battaglia e, per molti, un motivo non di letizia ma di sconcerto e di mestizia. E poi un papa spiazzante, sostenitore, specialmente nelle interviste e nei discorsi improvvisati, di posizioni che per alcuni non quadrano con l’insegnamento della Chiesa su questioni certamente non secondarie. E poi riforme che dovrebbero migliorare il funzionamento del governo centrale della Chiesa, ma all’interno della Santa Sede provocano malumori. E poi ancora schiere di cattolici che osservano il tutto con crescente disorientamento, rattristati, perplessi, quasi annichiliti dalle polemiche oppure coinvolti con passione nei contrasti e impegnati a sostenere l’una o l’altra parte.

Se il quadro appena delineato fosse il frutto della fantasia di uno scrittore bisognerebbe riconoscergli un’inventiva notevole. Il libro potrebbe intitolarsi «La Chiesa divisa» o «La Chiesa nella bufera», oppure  «Le due Chiese». Il fatto è che, di fronte a quanto stiamo vedendo, anche il più fantasioso degli scrittori potrebbe solo ammettere che la realtà sta superando l’immaginazione.

Ciò che una volta si diceva dei liberali (quando due di loro discutono, aspettatevi almeno tre opinioni diverse) ora si può dire dei cattolici. Non c’è argomento che sia risparmiato dai contrasti. E che contrasti!

Sappiamo bene che nella Chiesa, fin dalle origini, il dibattito, spesso condito da insulti e ripicche, è stato pane quotidiano. Paolo (Lettera ai Galati) resistette «in faccia» a Pietro (lo affrontò a muso duro) su questioni all’epoca nodali, come il comportamento da tenere nei confronti degli ebrei. E che dire delle battaglie fra i cristiani dei primi secoli circa la Trinità e il rapporto tra il Padre e il Figlio? Come dimenticare le accese controversie al Concilio Vaticano I sul dogma dell’infallibilità papale e, per venire a tempi molto più vicini a noi, gli infuocati dibattiti vissuti nel Concilio Vaticano II e negli anni successivi?

Siamo portati a pensare al cristianesimo, e specialmente al cattolicesimo, come a una fede dogmatica e quindi stabile nella sua fissità. In realtà ciò che caratterizza l’esperienza cristiana è la libertà, a sua volta conseguenza della dignità attribuita all’uomo in quanto immagine di Dio. E la libertà comporta la differenza, anche sotto forma di tensione.

Dunque, niente di nuovo sotto il sole? In parte sì e in parte no.

Un elemento nuovo è costituito certamente dal modo in cui si comunica. La diffusione dei nuovi media  ha eliminato la classica distinzione tra fonte e destinatario dell’informazione. Oggi tutti sono allo stesso tempo fonti e destinatari, tutti interagiscono e lo fanno in tempi sempre più rapidi. La conseguenza è una comunicazione spesso meno pensata di un tempo, più istintiva e immediata e dunque anche più conflittuale. C’è inoltre un continuo mescolamento di idee e valutazioni, una sovrapposizione che avviene dentro un villaggio globale somigliante non di rado a un mercato pieno di voci indistinte, dov’è difficile capire chi ha maggiore o minor titolo per argomentare e dove facilmente si impone chi grida più dell’altro.

Da tempo adottato dalla politica, il nuovo modo di comunicare, meno formale e meno strutturato rispetto al passato, ora in un certo senso ha coinvolto anche il papa. Il quale, accanto agli strumenti classici (encicliche, lettere, omelie, documenti vari), vi ricorre sempre di più, come nel caso dell’intervista, del discorso pronunciato a braccio e di tutte le forme di contatto diretto, non mediato dall’istituzione, con gli interlocutori. Di qui una comunicazione che anche nel caso del papa sta diventando sempre meno paludata nella forma ma spesso anche meno organica nei contenuti, meno legata a criteri di prudenza e più simile a quella tipica della stampa, estemporanea, legata all’emozione, all’impulso del momento, al clamore suscitato da un caso specifico.

Un altro elemento nuovo (almeno per i tempi moderni) è dato dalla presenza di due papi viventi, oltretutto molto diversi fra loro. Sebbene il papa non più regnante si mostri pochissimo e parli ancora meno, ci sono cattolici che non esitano a vedere nell’emerito il punto di riferimento che secondo loro permane come più autentico sotto il profilo sia dottrinale sia pastorale, innescando così un motivo che se non è sempre di conflitto aperto è comunque di divisione reale o potenziale.

Si potrebbe poi ragionare a lungo sulla situazione dei movimenti ecclesiali e sui loro problemi di leadership, con la conseguenza che anche in questi mondi, un tempo compatti, aumentano coloro che si sentono in libera uscita o comunque meno vincolati a una disciplina di appartenenza.

Altri elementi di novità si potrebbero rintracciare nel rapporto inversamente proporzionale tra livello dei contenuti e aggressività, ma in questo caso il problema non riguarda soltanto la Chiesa, bensì il generale decadimento intellettuale.

Sta di fatto che, si parli di dottrina, magistero, pastorale, politica ecclesiale, predicazione o di qualunque altro aspetto della vita della Chiesa, la parola che per prima viene alle labbra per descrivere il quadro è proprio confusione.

E qui veniamo forse al vero tratto distintivo della realtà attuale. Nella quale la situazione di conflittualità cronica e di incertezza all’interno della Chiesa sembra essere la conseguenza di una crisi dell’autorità.

Anche questa crisi, come il decadimento intellettuale, certamente non riguarda soltanto la Chiesa (pensiamo alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni politiche),  tuttavia nel momento in cui tocca la Chiesa, comunità in cui l’autorità gioca un ruolo decisivo, risalta in modo netto.

La crisi investe tutti coloro che hanno ruoli di responsabilità istituzionale e pastorale: cardinali, vescovi, parroci. Ma certamente colpisce l’evoluzione, o involuzione, della figura papale. In che senso? Nel senso che se, da un lato, il papa non è mai stato popolare come oggi, dall’altro non è mai apparso così privo di autorità riconosciuta e sostanziale. La voce del papa, per quanto apprezzata e da molti considerata ormai l’unica in possesso di una certa autorevolezza, nella pratica ha un impatto sempre più debole, anche fra gli stessi credenti. I motivi sono numerosi e riguardano sia il modo in cui il papa è andato modificando il suo ruolo, la sua stessa figura e il suo rapportarsi con il mondo, sia i cambiamenti intervenuti nella società, nella cultura e nei costumi. Circa il primo fronte, da molto tempo è in atto una desacralizzazione della figura papale, un processo che ha permesso al papa di entrare meglio in relazione con le persone e i popoli, ben al di là della sola platea cattolica, ma parallelamente ha determinato una riduzione del riconoscimento della sua funzione di insegnamento. Quanto al secondo fronte, il processo di secolarizzazione è andato talmente avanti da assorbire e assimilare anche il papa, ormai diventato un personaggio come gli altri, uno dei tanti che calcano le scene della ribalta mediatica. Certamente sono aumentate le persone che lo vedono e ne ascoltano le parole, ma sono diminuite quelle che lo considerano una guida da seguire. Così abbiamo il paradosso di un papa popolarissimo ma la cui proposta, nei fatti, si perde rapidamente nel grande mare di tutte le altre proposte. Se ai tempi di Giovanni Paolo II si diceva che la gente applaudiva il cantante ma non la canzone (piaceva l’uomo Wojtyla, non ciò che insegnava), adesso si può dire che moltissime persone, al di là della fede e dell’appartenenza religiosa, applaudono sia il cantante sia la canzone, ma se ne dimenticano presto, non ne traggono le conseguenze e non mettono in atto una vera e propria adesione.

Incominciata, almeno in modo evidente, con Giovanni XXIII, la crisi dell’autorità papale è andata avanti attraverso tutti i pontificati successivi, ma forse non si è mai manifestata con l’attuale intensità.

È un fenomeno che ogni papa ha cercato di limitare. Giovanni XXIII, che pure, convocando il Concilio Vaticano II, diede un formidabile contributo alla crisi mettendo in discussione anche se stesso e il papato, limitò il decadimento dell’autorità con il suo carisma. Lo stesso fece Giovanni Paolo II, anche se si trattò di un carisma dai contenuti diversi. Più difficile fu il compito per Paolo VI, che non potendo contare sul carisma (almeno secondo i canoni della società mediatica fondata sull’immagine) puntò sulla riforma interna, cercando di dare maggiore credibilità agli organi di governo. Quanto a Benedetto XVI, certamente la sua arma contro la crisi dell’autorità fu la sapienza teologica e filosofica, che gli consentì di porre alla cultura contemporanea domande decisive su grandi questioni come la verità e la libertà, ma non gli permise di salvarsi da attacchi sempre più violenti e in gran parte pregiudiziali.

Ora, con Francesco, non è facile dire quale sia lo strumento da lui impiegato per fronteggiare la crisi dell’autorità. In apparenza sembra che non utilizzi alcuno strumento e che da parte sua ci sia anzi lo sforzo di ridurre ulteriormente l’«auctoritas» papale attraverso una spinta ancora più decisa verso la desacralizzazione. A ben guardare, però, tutte le scelte simboliche, e di agevole percezione, adottate in questa direzione (come non indossare vesti appariscenti, calzare le solite scarpe, andare in giro a bordo di un’utilitaria, abitare a Santa Marta e non nel palazzo apostolico, uscire dal Vaticano per recarsi nei negozi di Roma, mostrarsi avvicinabile e disponibile) possono essere anche lette come tentativi di ricuperare l’«auctoritas» mediante l’«humilitas». Una strategia che, in un mondo dominato non tanto dalla parola quanto dall’immagine, può avere una sua logica.

In ogni caso, nelle comunità cattolica resta lo stato di confusione. Che, a tratti, rischia di diventare stato confusionale. Chi comanda? A chi credere? A chi appoggiarsi? A chi affidarsi? A chi prestare fiducia?

Se il cattolico non avesse una visione provvidenziale della vita, e non sapesse che lo Spirito soffia dove vuole, ci sarebbe da provare il brivido dell’abbandono nel vuoto e lo sgomento di fronte a un caos che sembra preannunciare il trionfo del principe delle tenebre, colui che persegue il male attraverso la divisione, gettando in mezzo agli uomini sempre nuovi motivi di incomprensione e di conflitto. L’entropia crescente, ovvero tutto ciò che è di impedimento alla chiarezza e all’univocità del messaggio, potrebbe portare con sé lo scoramento. Invece il credente vede in questa situazione una prova per il sano esercizio della libertà personale, del senso di responsabilità, del coraggio, della fedeltà. La prova in certi momenti è dura, ma il credente ha dalla sua la certezza che se il Signore dà un peso dà anche la forza per portarlo. Il credente sa di non essere solo e ha la consapevolezza che l’«auctoritas» più importante, l’unica che conti, è esercitata da Chi non delude. Mai.

Aldo Maria Valli

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