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Per non dimenticare

Cattolici in Cina. Se nell’ultimo articolo abbiamo cercato di fare il punto sulla strategia della Santa Sede (animata, ha detto il cardinale Parolin, dal tentativo di compiere un graduale cammino verso l’unità, ma rispetto alla quale il cardinale Zen ha manifestato tutta la sua contrarietà), oggi, specie a beneficio dei più giovani, vorrei invece dedicarmi alla storia, e in particolare al periodo della Rivoluzione culturale di Mao Tes-tung, un decennio di indicibile sofferenza per i cattolici cinesi.

La «Rivoluzione culturale» (nome completo: «Grande rivoluzione culturale proletaria») fu promossa dal presidente Mao Tse-tung nell’ultimo periodo del suo dominio dittatoriale, fra il 1966 e il 1976, e corrispose a un’orrenda purga in perfetto stile staliniano, della quale fecero le spese milioni di persone.

Dopo il totale fallimento, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, del «Grande balzo in avanti», ovvero il folle piano economico e sociale con il quale, a prezzo di una devastante carestia e inaudite sofferenze per il popolo, Mao pretese di trasformare rapidamente la Repubblica Popolare Cinese da paese rurale a gigante industrializzato all’insegna della collettivizzazione forzata,  la «Rivoluzione culturale» fu la nuova follia escogitata dal Timoniere per rafforzarsi al vertice del Partito Comunista e bloccare sul nascere il riformismo promosso, per salvare il salvabile, dalla corrente meno ideologica e più pragmatica del Partito.

A causa del «Grande balzo in avanti» morirono, a seconda delle stime, dai quattordici ai quarantatré milioni di cinesi (ma forse ancora di più) e la successiva «Rivoluzione culturale» scatenò autentici pogrom, dei quali furono protagoniste le famigerate «Guardie rosse», per lo più giovani fanatici e crudeli resi ciechi dall’indottrinamento.

Per eseguire l’ordine tassativo, impartito da Mao, di eliminare tutto ciò che poteva sapere di vecchio e di borghese (nella cultura, nella scuola, nell’arte, nel mondo del lavoro e delle professioni), le «Guardie rosse», studenti delle scuole inferiori e superiori trasformati in solerti aguzzini, fecero tabula rasa e, all’insegna di una violenza fisica e psicologica senza precedenti, contribuirono a spedire milioni di persone nei cosiddetti «campi di rieducazione», allestiti sull’esempio dei gulag di Stalin nell’Unione Sovietica. Fonte di ispirazione per l’opera rivoluzionaria era il «Libretto rosso», una sorta di manuale con numerose citazioni di Mao che ogni «Guardia rossa» aveva sempre con sé.

Chi conosce questa storia sa già tutto. Per chi, specie fra i più giovani, non la conoscesse, invito a leggere, per esempio, «Il libro nero del comunismo», dove quella follia è raccontata chiaramente e dove si arriva a stimare in oltre sessantacinque milioni il numero dei morti causati in Cina dalla rivoluzione proletaria nelle sue varie fasi.

Non posso tuttavia dimenticare che qui da noi, in Occidente, l’ideologia di Mao e delle sue «Guardie rosse» trovò moltitudini di solerti sostenitori non meno zelanti e fanatici, i quali per anni, sventolando il «Libretto rosso», cercarono di convincerci che in Cina stava avvenendo qualcosa di fantastico all’insegna della liberazione del popolo oppresso e della realizzazione del paradiso sulla terra.

Il sottoscritto, non avendo mai aderito a quella scuola di pensiero e anzi avendo combattuto fin da giovanissimo contro il comunismo in tutte le sue salse, rischiò più di una volta, ai tempi del liceo e dell’università, di essere colpito (e non in senso metaforico) dalla mano di qualche guardia rossa nostrana, animata dal fuoco della purificazione sotto l’effetto dell’indottrinamento di stampo maoista. Alcuni miei amici, meno fortunati di me, furono invece colpiti sul serio e finirono all’ospedale.

Circa il trattamento che durante la Rivoluzione culturale fu riservato ai cattolici cinesi, consiglio la lettura di un ottimo articolo del missionario Sergio Ticozzi su «Asianews» (17 maggio 2016), nel quale si può leggere:  «Per le religioni e per la Chiesa cattolica sono stati gli anni della più violenta persecuzione e della soppressione sistematica della loro presenza. Ma quanto e cosa hanno sofferto i cattolici cinesi durante la Rivoluzione culturale non è molto documentato. Vi sono molti più resoconti sulla persecuzione nel periodo degli anni Cinquanta. Il motivo è che i documenti di quella “catastrofe” sono stati bruciati o rimangono sepolti negli archivi. E di recente solo poche vittime hanno osato parlarne».

La rievocazione di padre Ticozzi è chiara e puntuale: durante la Rivoluzione culturale «i cristiani, in particolare, sono considerati subito “nemici del popolo” e i  cattolici continuano ad essere sospettati di attività contro-rivoluzionarie».

La persecuzione colpisce sia le persone sia gli edifici religiosi. «Le chiese sono spogliate di tutto, danneggiate e usate come ripostigli, fabbriche o abitazioni, se non demolite. Statue, paramenti, articoli e libri religiosi sono bruciati. I semplici fedeli sono scacciati da casa, costretti a girare nelle strade del villaggio e delle città con in testa alti cappelli cilindrici su cui sono scritti i loro “crimini”; sono poi mandati ad abitare in miseri locali o in capanne, mentre i persecutori rubano tutto quello che vogliono e distruggono o bruciano il resto dell’arredamento. Molti soffrono una morte miserevole. Vescovi, sacerdoti e suore, anche i “patriottici” che ancora operano ufficialmente, sono arrestati, insultati e condannati ai campi forzati o in prigione».

«A Baoding (Hebei), Guardie rosse della scuola media si sono rovesciate nella cattedrale: raccolgono tutti gli articoli religiosi sul piazzale e accendono il fuoco. Radunano poi clero e suore con maniere violente attorno al rogo. Siamo “patriottici”, dichiara padre Antonio Li Daoning. “Ti picchiamo come patriottico” gli rispondono. Sotto la violenza il prete sviene ed è buttato sul rogo. Un’altra vittima è suor Zhang Ergu, che è picchiata a morte con bastoni perché si è rifiutata di calpestare un’immagine della Madonna. In un altro caso simile, in una chiesa del nord Henan, un sacerdote è spinto così vicino al rogo che gli si bruciano i piedi; portato a casa, dopo due giorni muore».

«Nel giugno 1966 monsignor  Xi Minyuan è arrestato e imprigionato, accusato di attività anti-rivoluzionarie e di rapporti con gli stranieri: muore in carcere. A Kaifeng, suor Wang Qian è legata, portava via dalle Guardie rosse e sepolta viva».

Molte altre sono le atrocità narrate da padre Ticozzi, che conclude: «Esistono ancora tante tragedie e sacrifici che i cattolici cinesi hanno sofferto durante la Rivoluzione culturale, ma che rimangono nascosti nel cuore delle vittime e dei persecutori. Fra questi ultimi, pochi hanno avuto il coraggio di confessare e di chiedere perdono; la maggioranza non ne sente il bisogno o vuole dimenticare. Molte vittime e loro conoscenti non osano parlare per paura. Perché? Un sacerdote che ho invitato a raccogliere documentazione su questo periodo confessa: “Parlando dal cuore, non posso esprimere quello che provo quando ricordo questo tempo di grandi sofferenze, dal momento che nelle condizioni presenti della Chiesa tale situazione non è ancora finita. Forse la minaccia alla fede è fatta in modo più sottile, ma più profondo rispetto alle generazioni passate. Dobbiamo pregare il Signore che ci rafforzi e ci dia il coraggio di continuare a testimoniare la fede nel nostro Salvatore”».

Le cose in Cina sono cambiate, ma al potere c’è comunque il Partito comunista, e forse la rievocazione di padre Ticozzi aiuta a capire l’atteggiamento di chi, come il cardinale Zen, invitando a non tacere sulle persecuzioni e sulle violenze, che comunque avvengono anche oggi, esorta la diplomazia vaticana a non essere troppo ottimista verso il regime.

Prima di chiudere, una piccola nota a margine. Nella recente costituzione apostolica «Veritatis gaudium» papa Francesco (lo aveva già fatto nella «Laudato si’»), per esortare a un cambiamento deciso nel modo di proporre il Vangelo al mondo contemporaneo, utilizza proprio l’espressione «rivoluzione culturale». Non c’è ovviamente nessunissimo legame con la Cina, perché il contesto è totalmente diverso. Nondimeno, sia consentito a uno della mia generazione di esprimere disagio per l’uso di un’espressione sinonimo di morte e persecuzione per tanti fratelli nella fede.

Aldo Maria Valli

 

 

Aldo Maria Valli:
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