Quel brutto pasticcio del Protocollo

Cari amici di Duc in altum, volentieri vi propongo un contributo del professor Gian Pietro Caliari dedicato al Protocollo sottoscritto dalla Cei e dal ministero degli Interni per la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche alla presenza del popolo. 

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“Non date il santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino” (Matteo 7, 6-7).

Dopo aver supinamente accettato la violazione della sovrana e indipendente Libertas Ecclesiae, riconosciuta e garantita dalla Costituzione italiana e dal Concordato, i vescovi italiani hanno ignominiosamente subito un’umiliazione ancor più oltraggiosa: quella di veder lesa la potestas della Chiesa.

Questa sovrana potestà risiede nel fondamentale dovere-diritto affidato da Cristo alla Chiesa di preservare “il deposito della fede (depositum fidei), contenuto nella sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura, e affidato dagli Apostoli alla totalità della Chiesa” (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 84). Tale potestas include la tradizione apostolica sulla frazione del pane e le orazioni, per praticare e professare la fede trasmessa (cfr Ibidem).

Si è detto che nella tarda mattinata di giovedì 7 maggio è stato firmato un Protocollo per la ripresa delle celebrazioni con il popolo. In realtà, il cardinal Gualtiero Bassetti ha apposto la sua firma, a nome della Cei, su un testo che poi gli è stato formalmente trasmesso da uno sconosciuto funzionario del ministero degli Interni, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione (ça va sans dire!) nella forma di una irrituale notificazione tale da apparire prima facie la comunicazione di un ufficiale di polizia giudiziaria.

Domanda: il presidente della Cei aveva facoltà, dunque la capacità ad agire, di firmare un Protocollo di carattere internazionale – perché la Chiesa cattolica è indipendente e sovrana! – con il governo della Repubblica italiana? La risposta è negativa.

L’Accordo di Villa Madama del 1984 prevede che “ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza episcopale italiana” (art. 13 § 2).

Solo la Sede Apostolica come definita dal can. 361 del CJC, dunque, esercitando una “potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa” (CJC can. 331) che include anche il “diritto nativo e indipendente” (CJC can. 362) di soggetto di Diritto internazionale, è titolare della facoltà di agire pattiziamente per sottoscrivere Accordi con altri soggetti riconosciuti dal diritto o Protocolli per modificare, derogare, integrare e/o interpretare gli accordi sottoscritti.

E a norma dei canoni 362 – 367, la Santa Sede esercita la sua sovranità internazionale usando del “diritto di legazione attiva e passiva”, accreditando presso gli Stati, inclusa l’Italia, i legati: vale a dire i nunzi apostolici.

Alla Cei dall’Accordo di Villa Madama è riconosciuta esclusivamente la facoltà di addivenire a intese, previste dall’art. 8 della Costituzione, per regolare i rapporti delle confessioni religiose non cattoliche con lo Stato che poi devono essere trasformate in leggi dal Parlamento sovrano.

Il Protocollo, poi, fa riferimento al DPCM – mero atto amministrativo – del 26 aprile 2020 che introduce, a seguito dei precedenti DPCM, strumenti di natura emergenziale.

Molti illustri giuristi e la stessa presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, hanno però osservato – e a ragione! – che “nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri” (Corte costituzionale, Relazione annuale, 28 aprile 2020, p. 25).

Sui contenuti del testo si possono, poi, fare quattro precise osservazioni. Alcune norme sono generici precetti di tipo sanitario (evitare assembramenti, distanze di prevenzione, pulizia e areazione dei luoghi, uso delle mascherine eccetera) che in alcun modo rientrano nel diritto concordatario ed ecclesiastico e neppure nel diritto canonico o in quello liturgico.

Sarebbe bastato che i vescovi invitassero i buoni parroci alla prudenza e diligenza. E la paura del contagio avrebbe fatto il resto!

Altre, invece, sono scritte con una vaghezza risibile. “Si consideri l’ipotesi di incrementare il numero delle celebrazioni liturgiche” (Protocollo 1.5) Quali celebrazioni liturgiche? Sacramenti? Sacramentali? Liturgia delle Ore? Pie pratiche? Saranno, forse, elencate in un prossimo DPCM la notte prima del 18 maggio?

Altre, poi, sono un concentrato di spudorato politically correct: “Si favorisca, per quanto possibile, l’accesso delle persone diversamente abili, prevedendo luoghi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni nel rispetto della normativa vigente” (Ibidem 1.8)

Altre invece ledono gravemente la Potestas Ecclesiae e rappresentano una gravissima violazione sia sub specie teologiae sia sub specie juris Ecclesiae della sovrana e suprema autorità della Chiesa cattolica nel disciplinare la divina liturgia.

Il canone 22 della Costituzione Sacrosantum Concilium enuncia: “Regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo. […] Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”.

Il CJC recepisce in pieno questo preciso insegnamento del Vaticano II quando dispone che “regolare la sacra liturgia dipende dall’autorità della Chiesa: ciò compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al vescovo diocesano” (CJC 838 § 1) e, dopo aver affidato alle Conferenze episcopali la mera pubblicazione dei libri liturgici e il compito di “vigilare perché le norme liturgiche siano osservate ovunque fedelmente” (Ibidem § 2), ribadisce che “al vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti” (Ibidem § 4).

Norme come quelle fissate dal Protocollo, che tendono a regolare il numero di celebranti e ministri (3.1.), lo svolgimento del canto sacro (3.2), le modalità della distribuzione dell’Eucarestia (3.4) sono pertanto nulle ex tunc, sia per lo Stato sia per la Chiesa.

Il Protocollo sancisce inoltre: “La celebrazione del sacramento della Confermazione è rinviata” (3.10). Perché è più contagiosa? E le prime comunioni? Le ordinazioni diaconali o sacerdotali o episcopali?

In ogni caso, così dispone il diritto generale della Chiesa: “Il vescovo diocesano è tenuto all’obbligo di curare che il sacramento della confermazione sia conferito ai sudditi che lo richiedono nel dovuto modo e ragionevolmente” (CJC can. 885 – §1). E non può certo un ordine firmato dal signor Conte far cadere in prescrizione di tale obbligo degli ordinari.

Il Protocollo, infine, invita a ricordare “la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute” (5.2). Ma la dispensa, ossia l’esonero dall’osservanza di una legge puramente ecclesiastica in un caso particolare, può essere concessa solo da quelli che godono di potestà esecutiva, entro i limiti della loro competenza, e altresì da quelli cui compete (cfr. CJC can. 85).

Non risulta la natura della potestas dispensatoria del presidente del Consiglio dei ministri, perché nell’ordinamento civile la norma è obbligatoria, né quella del cardinale Bassetti per quella ecclesiastica, che la detiene limitatamente alla diocesi di cui è il legittimo ordinario.

Parimenti, dobbiamo chiederci: il cardinal Bassetti come presidente della Cei aveva titolo per negoziare con lo Stato materie che il Diritto generale della Chiesa riserva alla Sede Apostolica o agli ordinari, “ferma restando la potestà di istituzione divina che il vescovo ha nella sua Chiesa particolare (Apostolorum Successores n 65-66)? E “a parte i casi in cui la legge della Chiesa o uno speciale mandato della Sede Apostolica abbia loro attribuito potere vincolante, l’azione congiunta propria di queste assemblee episcopali deve avere, come criterio primario di azione, il delicato e attento rispetto della responsabilità personale di ciascun vescovo in relazione alla Chiesa universale e alla Chiesa particolare a lui affidata” (Ibidem n. 68)

Per tutte le ragioni elencate, il Protocollo, giuridicamente, sia sotto il profilo della legalità repubblicana sia sotto quello canonico-ecclesiastico, non vale la carta su cui è stato scritto.

Calligone, il castrato maestro di corte di Valentiniano II, rimproverando sant’Ambrogio per essersi erto contro l’imperatore a difesa della libertas et potestas Ecclesiae, così minacciò il santo vescovo di Milano: “Come, me vivente, tu osi disprezzare Valentiniano? Io ti spaccherò il capo”.

“Che Dio te lo permetta!” rispose Ambrogio. “Io soffrirò allora ciò che soffrono i vescovi e tu avrai fatto ciò che sanno fare gli eunuchi”.

In questa contemporanea e stantia saga di un pasticcio brutto, che si è consumato fra circonvallazione Aurelia 50 e piazza Colonna 370, è ormai ben difficile capire chi siano i vescovi e chi i castrati.

Gian Pietro Caliari

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